CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

sabato 23 aprile 2022

IN ATTESA DEL 25 (dedicato alla patria caduta)

 










Precedenti capitoli 


di un dialogo 


fra una bicicletta 


e un carrarmato 


Per il bene 


dell'Avvenire del lavoratore! 


Prosegue con: 


la forza di un Fiore 







& il capitolo quasi completo







C’era una volta l’Italia. Era una bella signora di maestose forme e recava in mano una grande spada e in testa portava una corona turrita ornata d’una stella splendente.

 

Una signora nobilissima ma senza prosopopea, la quale non si offendeva se, in giro, la chiamavano confidenzialmente col nome di un famoso formaggio: il bel paese.

 

Una signora la quale, quando le facevate visita, vi mostrava compiaciuta i ricordi della sua antica opulenza e vi raccontava, sospirando dolcemente, i particolari della sua romantica avventura col biondo nizzardo.




Una signora di modesta rendita ma che teneva un’ottima tavola e viveva felice nella sua bella casa di campagna, in mezzo ai fiori e alle messi.

 

C’era una volta l’Italia: una brava signora che, una bella volta, si montò la testa con le cattive letture, sì che prese ad andare in giro con gran piume di struzzo in testa e con abiti a lungo strascico, scollati dall’ombelico al coccige.

 

E frequentò le cattive compagnie che la condussero giù giù per la china del vizio. E ogni cosa andò a catafascio.




C’era una volta l’Italia e si trattava di una dolce cosa. Ma erano quelli i tempi in cui l’Italia (come si diceva) era soltanto un’espressione geografica. Poi volle diventare un’espressione storica e (nella sessione di luglio) fu bocciata in storia e geografia. Rimandata alla sessione di settembre, si mise a posto con la storia.

 

Ma cadde nella geografia e ora deve ripetere l’anno.

 

Ma, nella prossima sessione estiva, se la caverà bene in storia e anche in geografia.

 

Cadde lungo la corsa, sembrava una leggera discesa, poi divenne l’Abisso con solo ma morte incisa sull’elmetto, sulla camicia nera e poi rossa, rossa e nera, mai sia detta Rosa speranza e amore d’una corsa terrena. Per questo andiamo o fuggiamo in biciletta addio antica Dèa…




Addio, vecchia Dèa con la dinamo, il carter e il freno contropedale.

 

Quando ti vidi per la prima volta avevo quindici anni e davanti a me si stendeva tutta ancora la strada della vita, una strada bianca di sole, macchiata qua e là da fresche ombre piene di promesse. E per vent’anni la percorremmo insieme e tu me la rendesti meno dura.

 

Tu mi insegnasti la gioia delle albe fresche e rugiadose che nascono dietro i verdi colli conquistati pedalata per pedalata.

 

Tu mi insegnasti la pace dei meriggi, lontano dal catrame rovente della città.




Tu mi insegnasti la dolce malinconia dei tramonti fra i prati verde-cupo, intersecati da canali pieni di cristallo fuso.

 

Con te io galoppai lungo i viali diritti della periferia inseguendo, nelle sere estive, le ombre dei miei sogni e dei desideri della mia giovinezza.

 

Il primo amore: due cuori e una bicicletta sola, e tu sul ghiaietto delle viottole fuori barriera rollavi dolcemente e - per ogni sassetto che pizzicavi fra il cerchione e la gomma e facevi schizzar via - i raggi ben tesi risuonavano come corde d’arpa.

 

Dleeen!... La ‘prima nomina’: due potenti speroni e soltanto un sellino di bicicletta.




Galoppate furibonde per mettere d’accordo il servizio di batteria e l’appuntamento con la bionda n° 1; l’ispezione esterna e la bionda n° 2.

 

Vent’anni camminammo assieme, vecchia Dèa.

 

E ora sei lì, appoggiata al muro, e fra te e me c’è ormai l’abisso di un armistizio. Ti guardo, vecchia Dèa, e vedo sulla canna più alta del telaio, vicino al cannotto dello sterzo, una specie di bernoccolo nichelato, con una vite a pressione e una finestrina: l’innesto di una piccola sella supplementare.

 

Ricordi quando te l’avvitai la prima volta?




Pareva che l’orgoglio ti avesse gonfiato a dismisura i pneumatici e tutte le canne del telaio. E il campanello suonava come un carillon di campane, e l’ingranaggio della ruota libera cantava alto e potente, e i freni, solo a toccare le leve, stridevano di gioia e tu, vecchia bicicletta, procedevi tronfia, pettoruta e maestosa come una Isotta Fraschini a sedici cilindri perché sul sellino supplementare era seduto il nostro primo bambino.

 

Addio, vecchia Dèa: io parto e tu rimani.

 

Opterai come il mio vecchio colonnello?




No, tu sei più di carattere di lui.

 

O ti darai alla macchia unendoti a quelle animose e inafferrabili biciclette che saetteranno e folgoreranno poi lungo le strade di tutt’Italia?

 

O piuttosto (sei così luccicante ancora e fai tanto gola) ti deporteranno nel triste Nord?

 

Ti rivedrò? Dio solo lo sa vecchia Dèa, Dio che stringe nel suo pugno il destino di tutti gli uomini e di tutte le biciclette del creato.

 

E così sia.

 

Collaborazione al giornale parlato La Campana.

 

(Guareschi)








giovedì 21 aprile 2022

L'AVVENIRE DEL LAVORATORE (e briciole di Memoria...) (13)

 









Precedenti capitoli: 


Circa l'Avvenire 








del lavoratore (12) 


Prosegue con un...: 


Dialogo.... 


(fra passato e presente) (14)







Un altro utile incontro fu per Mussolini quello con Angelica Balabanoff, personaggio già di notevole rilievo nel socialismo internazionale. Era una russa di buona famiglia borghese, che fin da giovanissima si era imbrancata con quella intellighenzia rivoluzionaria da cui venivano anche i Lenin, i Trotzky, e gli altri futuri grandi del bolscevismo. A spingercela era stata la ribellione contro la meschinità, lo snobismo provinciale, il sussiego di casta, i tabù del suo ceto. Essa stessa ha raccontato che, per una cerimonia nuziale, suo zio aveva fatto fermare un treno per dare tempo agl’invitati di fare i brindisi d’uso mentre gli altri viaggiatori aspettavano rassegnatamente seduti sui loro bagagli.

 

A ventidue anni era espatriata e aveva girovagato per i Paesi occidentali, guadagnandosi la vita come traduttrice perché aveva, come tutti i russi, gran disposizione alle lingue, e ne parlava correntemente otto. Gli anni più felici li aveva trascorsi in Italia, dove fra l’altro aveva seguito le lezioni di Antonio Labriola, il più serio interprete di Marx. Ma, a differenza della sua compatriota Anna Kuliscioff con cui non fu mai in buoni rapporti nonostante la comunità di origine e di idee, non era soltanto un’intellettuale del socialismo. Lo praticava da militante, vivendo da proletaria fra i proletari. 




Fu così che nel 1902, mentre teneva a Ginevra un piccolo comizio a un gruppo di emigrati italiani, vide fra i suoi ascoltatori un giovanotto dagli occhi sbarrati e dal volto cadaverico sotto la barba mal rasata. Scesa dal podio, volle conoscerlo. Mussolini le si presentò come un disperato, minato dalla sifilide e da una tabe ereditaria, e incapace di sopportare qualsiasi lavoro. Non si è mai saputo con certezza se la sifilide l’avesse davvero. Ma si sa ch’egli se ne faceva quasi un vanto, come di una garanzia di virilità e di successo con le donne.

 

Ad Angelica disse anche che gli avevano offerto cinquanta franchi per la traduzione di un opuscolo di Kautsky, ma che doveva rinunziarci perché non conosceva abbastanza il tedesco. Angelica, che invece lo sapeva benissimo, si offrì di aiutarlo. E così fra i due nacque un’amicizia di cui è difficile stabilire l’esatta natura. Angelica non era bella, non aveva la grazia eterea ed esangue di Anna. Ma non era nemmeno sgradevole, nonostante i fianchi massicci e gli zigomi pronunciati, e poi era russa, cosa che faceva grande effetto al piccolo provinciale di Predappio.




Anche se fra loro non divampò la passione che aveva legato Anna ad Andrea Costa, qualcosa ci fu, ed ebbe la sua importanza. Angelica cercò d’incivilire quel selvaggio trasandato che passava da ostinati mutismi a interminabili sproloqui conditi di orrende bestemmie. Lo sfamava, gli lavava la biancheria, lo iniziava, sia pure con poco successo, al marxismo, lo difendeva dalle accuse di un’anarchica italiana, Maria Rygier, che lo detestava e diceva di aver le prove ch’egli era al servizio della polizia francese: un’accusa che ogni poco sarebbe tornata a circolare contro di lui e che aveva lo stesso fondamento di quella lanciata contro Serrati.

 

Tuttavia anche Angelica piano piano si rese conto che nel socialismo di Mussolini pesava più l’odio verso i ricchi che l’amore verso i poveri, mentre Mussolini diceva di lei che ‘nel suo corpo i succhi circolano, ma nella sua mente le idee si disseccano’. Il fatto è che, pur legato a lei sul piano umano, Mussolini repugnava alla sua ideologia.

 

Leggiamo dalle memorie di Angelica….:




Durante gli intervalli, fra un atto e l’altro della rappresentazione, Lenin mi fece alcune comunicazioni circa il mio lavoro di segretaria della Internazionale Comunista, dopo di che io, spinta da quella tale mia indagine psicologica, gli rivolsi una domanda:

 

‘Credete che gli attori proverebbero soggezione se sapessero che voi vi trovate in questa sala?’.

 

Lenin mi guardò sbalordito:

 

‘Lo sanno bene; anzi mi hanno già pregato di prendere la parola. Io, naturalmente, ho rifiutato di farlo. Non capisco, però, che questa domanda mi venga da voi. Proprio da voi, oratrice così esperta, così efficace. Come mai vi è venuta in mente?...’.




‘Durante un mio giro nelle sezioni del Partito socialdemocratico russo in Isvizzera’

 

 continuò poi Lenin

 

‘parlai diciassette volte ripetendo ogni sera lo stesso discorso, senza che m’importasse nulla di chi si trovava tra i miei ascoltatori’.

 

‘Wladimir Iljich’,

 

 …ribattei…

 

‘quanto vi invidio! Se sapeste quello che mi costa ogni discorso!’.




Egli mi guardò meravigliato.

 

Quel breve colloquio confermò la mia opinione su Lenin quale oratore. Il suo modo elementare di trattare gli argomenti era connesso allo scopo che egli si prefiggeva. Voleva soltanto che le sue parole diventassero un credo assoluto per gli ascoltatori, una guida del loro pensiero e della loro azione.

 

Però, spingendo l’analisi più lontano, si potrebbe dire che la caratteristica oratoria di Lenin derivasse in gran parte dal suo modo di trattare il movimento operaio. Secondo lui, questo doveva essere guidato da una élite, senza che la base comprendesse perché doveva pensare ed agire in una maniera piuttosto che in un’altra.

 

Uno degli aspetti più tragici del destino di Lenin stava appunto nell’avere aspirato da una parte alla eguaglianza umana e nell’essere stato dall’altra il creatore della più funesta e più umiliante delle gerarchie, quella che impone di adottare il pensiero di chi comanda!

 

[….]




 Ero arrivata a Kiew nella mia qualità di Commissario degli Affari Esteri per l’Ucraina e di Segretario dell’Internazionale.

 

Data l’instabilità del governo bolscevico, sembrava, più ancora che a Mosca e nel resto della Russia, di vivere in una bolgia infernale. Non ancora insediata, fui presa d’assalto da innumerevoli persone che tutte, in condizioni oltremodo tragiche, si rivolgevano a me con preghiere di assistenza e lagnanze d’ogni genere.

 

Spesso mi si riferiva che gente innocua veniva tratta in arresto e non di rado fucilata. Di notte si sentivano colpi di fucileria, mi dicevano trattarsi di esercitazioni di tiro. Solo in un secondo tempo seppi che, durante le evacuazioni, veniva fucilata la maggior parte dei cittadini per evitare che in un modo o nell’altro potesse essere utilizzata dal governo nemico.




Ad aumentare la mia costernazione, diverse persone, degne della massima fiducia, e che conoscevo da tempo, mi raccontarono che, nella stessa Kiew, si era installato un individuo che si spacciava per ambasciatore di un paese esotico e si dichiarava disposto a procurare i passaporti per tutti coloro che volevano rifugiarsi all’estero. Nello stesso tempo costui fungeva da cambia-valute.

 

Quell’individuo aveva causato la fucilazione di alcune persone cadute nel tranello. Fra queste vittime vi erano vecchi ebrei che avevano messo da parte per lunghi anni qualche risparmio o che possedevano un’inezia in valuta estera mandata loro dai figli emigrati in America.

 

Ne informai il Presidente dei Commissari del Popolo dell’Ucraina ed i miei colleghi membri del governo. Il loro modo di reagire alle mie informazioni, non mi parve corrispondente alla gravità dei fatti.




Decisi di recarmi immediatamente a Mosca per mettere Lenin al corrente di un procedimento del quale non mi sapevo capacitare, tanto mi sembrava inverosimile. In pari tempo volli informare il capo della Ceka, Djerginsky, su tutto ciò che avevo saputo. Djerginsky lo avevo conosciuto e stimato, sia per la sua lotta per la libertà del popolo, che per la dignità con la quale, esiliato in Siberia, aveva sopportato le conseguenze della sua fede rivoluzionaria. Appena arrivata a Mosca gli chiesi un appuntamento d’urgenza. Fu d’una brevità eloquente. Djerginsky credeva che io fossi venuta per attirare la sua attenzione su qualche ‘deviazione’ del suo impiegato e cadde dalle nuvole quando gli feci capire che non soltanto ero indignata ed esasperata, ma aspettavo la condanna di colui che io ritenevo essere soltanto uno scellerato avventuriero. Da lui appresi invece che si trattava, nientedimeno, che di un suo incaricato.



Più esasperata di prima mi recai da Lenin. Dovetti fare uno sforzo per non dare in escandescenze. Rimasi di stucco quando Lenin, fissandomi come al solito con un occhio chiuso — come faceva quando voleva scrutare una persona per penetrare nel suo intimo — mi disse, col tono di un padre che, con affettuoso compatimento, constata la inadattabilità del figlio alle esigenze della vita:

 

‘Compagna Balabanoff, qual è l’uso che la vita può fare di voi? Agenti provocatori? Se potessi ne manderei nello stesso esercito di Korniloff...’.

 

Fu, per me, una rivelazione che ancor oggi devo annoverare fra le più terrificanti della mia vita. Una classe chiamata ad elevare e trasformare la società ricorreva agli stessi mezzi obbrobriosi di cui si era servito il regime sociale che essa aveva combattuto e si apprestava a sostituire. Una implacabile nemesi sembrava aver colpito Lenin di cecità proprio nel campo che gli richiedeva la più grande chiaroveggenza. 

(Lenin visto da vicino)




Dopo Pareto, le sue grandi scoperte erano Kropotkin e Sorel. Sono scelte significative. Kropotkin era il grande teorico dell’anarchia che vede nel socialismo un figlio bastardo e degenerato, e Sorel l’esaltatore della violenza come ‘levatrice della Storia’. Questi incontri non rimasero senza effetti. Da allora egli cominciò a seguire con attenzione il movimento sindacalista rivoluzionario e i suoi araldi: Arturo Labriola, Olivetti, De Ambris, Panunzio, Corridoni, Orano, alcuni dei quali ritroveremo in posizione di precursori nel composito calderone fascista.

 

Fin allora essi avevano militato come ala rivoluzionaria del partito socialista. Ma nel ’904 ne uscirono e per accentuare la propria indipendenza fondarono un giornale, Avanguardia socialista. Mussolini cominciò a collaborarvi. Non risulta che s’iscrivesse al movimento, ma che vi aderisse ideologicamente non c’è dubbio, ed egli stesso lo dichiarò in una lettera a Prezzoline.

 

(I. Montanelli)









FRA STALIN & DUGIN (11)

 









Precedenti capitoli: 


Della 'Grande Svolta' (9)








... fra Stalin & Dugin (10) 


 Prosegue ancora con: 


l'Avvenire del lavoratore  (12/3)







Dopo la sconfitta della Germania, Stalin era intenzionato a mantenere ogni pezzo di territorio concordato in origine con Hitler, in particolare la Polonia – per questo la promessa fatta a Jalta di tenere libere elezioni nei territori occupati dall’Armata Rossa era una bugia fin dall’inizio, che avrebbe reso poi inevitabile la guerra fredda.

 

Personalmente, Stalin era a detta di tutti intelligente, colto e indagatore, era capace di esercitare sui suoi subordinati un fascino seppure grossolano, ma non tollerava che le sue opinioni fossero messe in discussione e non dimenticava mai le offese.




Stalin sembrava credere alla sua stessa propaganda che lo definiva un genio in tutte le sfere dell’attività umana, tanto da intervenire spesso in questioni artistiche. Ammonì Pasternak su come andava scritto un romanzo sovietico e non risparmiò consigli a Šostakovič su come comporre musica autenticamente bolscevica (senza nessuna influenza modernista, che Stalin considerava anticomunista). Diffidava di chiunque fosse di origini sociali superiori, e quasi perse la guerra con Hitler perché aveva epurato gran parte della classe degli alti gradi militari.

 

Le massicce purghe all’interno del partito permisero ai giovani di occupare rapidamente le posizioni rimaste vacanti, il che, oltre a renderlo adorato per l’aura quasi divina del suo potere, rafforzò la sua autorità sulla generazione più giovane. Un altro uomo del miracolo come Lenin, seppe sfruttare il vero nucleo nietzschiano dell’ethos bolscevico. Non vi è atto di brutalità, crudeltà e sadismo commesso poi dai nazisti che non seguisse un percorso tracciato già da Stalin e dai bolscevichi.




Non c’è da stupirsi che il ministro degli Esteri tedesco von Ribbentrop, di ritorno da Mosca doveva aveva siglato il patto di non aggressione, avesse riferito in toni entusiastici al Führer che l’incontro con Stalin e i suoi paladini era stato ‘proprio come trovarsi tra i nostri vecchi compagni di partito!’.

 

Stalin sosteneva che la morte della prima moglie aveva rimosso ogni traccia di pietà dal suo cuore. Ma ne aveva mai avuta?

 

Solženicyn osservò che il suo unico vero talento era quello di percepire con precisione il punto in cui l’anima di ogni uomo si interseca con il fango, ovvero quel punto dove le nostre migliori aspirazioni di compiere del bene vengono sovvertite dalla paura, dall’avidità e dal desiderio di trarne un vantaggio personale. Gli piaceva giocare con le sue vittime: tormentò per esempio Bucharin facendolo convocare dall’NKVD per un interrogatorio e finse poi di intervenire per salvarlo dall’arresto, sapendo benissimo che presto lo avrebbe fatto arrestare davvero.




In un momento rivelatore disse a Dzeržinskij:

 

‘Scegliere le proprie vittime, preparare minuziosamente i propri piani, per appagare una vendetta implacabile, e poi andare a dormire... Non c’è nulla di più dolce al mondo’.

 

Mentre molti pezzi grossi del partito vivevano nel lusso, lo stile di vita di Stalin era quasi frugale. Godeva del potere, ma non provava grande godimento della ricchezza che esso portava. Il suo biografo Simon Sebag Montefiore paragona le dimensioni e gli arredi del suo appartamento al Cremlino con quelli di un docente di Oxford. I suoi gusti erano rozzi: enormi porzioni di carne mandate giù con litri di vino dolce. Verso la fine, trascorreva mesi e mesi in Crimea per il suo clima, come facevano gli zar. Come un tiranno dei tempi antichi, era difficile distinguere la sua abitazione personale dal governo: dirigeva l’intero paese seduto alla sua tavola, spesso in chiassosi bagordi che andavano avanti tutta la notte. Perseguiva la visione utopica di Lenin con quello che Montefiore descrive come un ‘fanatismo quasi islamico’, anche se, in ultima analisi, l’intero esperimento si tradusse in una grande e inutile tragedia.




Prima del 1917, la Russia era una delle economie con la crescita più rapida di tutta l’Europa: tutto ciò che Lenin e Stalin ottennero, dopo decine di milioni di morti, fu di danneggiarla in modo quasi irreparabile.

 

La guerra e l’aggressione imperialista contribuirono ai fallimenti economici dell’Unione Sovietica: dall’occupazione di Stalin dell’Europa orientale alla tentazione di Chruščëv di provocare una guerra nucleare con la procura di Castro durante la crisi dei missili a Cuba, fino all’invasione dell’Afghanistan sotto Brežnev. Contrariamente a una visione ancora inspiegabilmente diffusa in Occidente, la guerra fredda fu da attribuirsi interamente a Stalin per aver infranto ogni promessa fatta a Jalta.





IL POPOLO DEL DESTINO 

 

La dimensione millenarista in questo caso non è certo così estrema come nella variante giacobina, bolscevica, nazionalsocialista, terzomondista o jihadista, ma senza dubbio esiste, e il suo esponente principale è Aleksandr Dugin, uno tra i consiglieri più stretti di Putin. I suoi scritti sono un ritorno agli anni trenta. In essi, la Russia prende il posto della Germania come il ‘popolo del destino’, che in nome del genere umano condurrà una rivoluzione contro i valori degradati dell’Illuminismo e della democrazia liberale, con la missione di diffondersi non solo spiritualmente, ma anche con la forza delle armi, mano a mano che la Russia ribadirà il suo ruolo imperiale.




Come il nazionalsocialismo attingeva ai precedenti decenni di fascino per l’Oriente come il vero cuore teutonico della razza ariana nonché antidoto al logoro Occidente liberale e borghese, Dugin sostiene che i russi sono fondamentalmente un popolo orientale, eurasiatico, insieme con i loro fratelli slavi dei Balcani e dell’Europa orientale che devono essere richiamati alla Madrepatria (e tra essi, tanto per cominciare, l’Ucraina e la Bielorussia). Egli ha riportato in vita l’idea della Russia come Terza via (si noti la sfumatura millenarista degli Ultimi giorni che precedono il Regno di Dio) tra l’Occidente e l’Estremo Oriente, la cui profonda spiritualità può redimere l’umanità attraverso una rivoluzione antimaterialista fondata su valori arcaici, coniugando questo motivo slavofilo, mutuato da Dostoevskij e Berdjaev, con l’ideologia nazional-patriottica del Terzo Reich.




‘In linea di principio’, ha scritto Dugin, ‘l’Eurasia e il nostro spazio, il cuore della Russia, rimangono il palcoscenico di una nuova rivoluzione antiborghese e antiamericana. [...] Il nuovo impero eurasiatico sarà edificato secondo il principio fondamentale del nemico comune, del rifiuto dell’atlantismo, del controllo strategico degli Stati Uniti e dell’opposizione al dominio dei valori liberali. Questo comune impulso civilizzatore sarà alla base di un’unione politica e strategica.

 

La reinterpretazione di Dugin dell’era sovietica come nazional-bolscevismo elimina la sua impiallacciatura pseudoscientifica marxista e la restituisce alle sue origini, al populismo rivoluzionario del movimento Narodnaja Volja e ai Bogostroiteli. Il marxismo-leninismo, sostiene Dugin, fu solo un’importazione superficiale dall’Occidente. Il cuore e l’anima del bolscevismo stavano in un ritorno alla vera anima slava della Russia agraria e al rifiuto delle tendenze occidentaliste di Turgenev e di altri scrittori elitari filoeuropei.




Questo rimodellamento del comunismo sovietico come una forma di nazionalismo slavo aderisce perfettamente al programma a lungo termine di Putin: chiudere l’apertura verso l’Occidente avvenuta sotto Gorbačëv e riabilitare gradualmente l’era sovietica come episodio legittimo e fiero della storia russa. Il Partito nazional-bolscevico ispirato alle idee di Dugin, e poi dissolto nel 2007, riteneva che una guerra per restaurare l’ex impero sovietico non solo avrebbe reso di nuovo grande la Russia, ma, essendo la guerra condotta in ultima analisi contro il principale nemico, l’America, essa avrebbe riscattato tutto il genere umano (comprese le stesse masse americane, schiave delle loro élite plutocratiche) dal materialismo senz’anima e dalla decadenza dell’Occidente, di cui l’America è epitome.




Dugin vuole fare causa comune con il jihadismo contro il nemico americano, ritenendo che il collettivismo islamista e quello eurasiatico abbiano molti più elementi in comune tra di loro che non con l’individualismo illuminista occidentale.

 

Dugin gode del potente patrocinio di Putin, e non è da escludere la possibilità che, annettendo la Crimea e minacciando l’Ucraina, Putin (noto per l’ammirazione per autori slavofili come Berdjaev) stia cominciando ad attuare il programma millenarista di Dugin e a ricreare l’impero sovietico, come trampolino di lancio di una guerra mondiale con gli Stati Uniti – o vi veda almeno una qualche utilità alle aspirazioni di grande potenza e un modo per risvegliare in patria il nazionalismo slavofilo e ottenere il fervido sostegno del popolo ai suoi scopi espansionistici.




La sensazione di una missione salvifica per il mondo intero avvolge il programma espansionista di Putin di una sfumatura di fervore millenaristico, che, pur non convincendo alla lettera lo stesso presidente, torna certamente utile alle sue ambizioni. Nelle relazioni internazionali Putin agisce razionalmente, nel senso che, a differenza di Hitler o, più recentemente, di Ahmadinejad, non contempla neppure l’idea di vedere se stesso e il suo paese avvolti dalle fiamme come un prezzo accettabile per aver tentato di realizzare un’utopia. Ma per lo stesso motivo, il fatto stesso che egli sia cosciente del bisogno della Russia di recuperare il proprio onore e la propria grandezza e vendicare l’umiliazione inflittale dalla sconfitta nella guerra fredda significa che sarà disposto a correre rischi enormi – tra cui, certamente, un duro colpo all’economia russa a causa delle sanzioni e, forse, perfino un’attiva opposizione militare da parte dell’Occidente – prima di essere disposto a scendere a compromessi riguardo alla sua idea di missione storica. Quando a un leader importa più dell’onore che della prosperità economica, la negoziazione diventa in effetti molto difficile.




La destra neofascista europea, inoltre, guarda sempre più a Putin e alla ‘rivoluzione dei valori arcaici’ di Dugin per trarre ispirazione nelle proprie speranze di una rinascita. Agli occhi di questa destra, la Russia oggi sta all’Unione europea come il nazionalsocialismo stava un tempo alla Repubblica di Weimar – un baluardo di populismo collettivista solido e aggressivo in grado di mandare in frantumi il materialismo corrotto, la decadenza urbana, l’elitarismo e la borghesia politicante della democrazia liberale.

 

Proclamando che gli europei sono diventati una massa senza radici di ‘consumatori senza più legami con i loro affetti naturali – la famiglia, la nazione e il divino’, il leader del Front National francese Aymeric Chauprade (su consiglio di Le Pen) stava forse citando Dugin, oppure l’Heidegger degli anni trenta.

 

Se il fascismo può essere descritto come le nozze tra gli intellettuali rivoluzionari anti-illuministi e i teppisti violenti dei bassifondi urbani, ammaliati dalle idee dei primi, allora gli skinhead neonazisti dell’Europa, che già cavalcano la politica ungherese e un rigurgito di ingiurioso antisemitismo, potrebbero sentirsi attratti dal professor Dugin come dal visionario che stanno aspettando.




I giornalisti europei e americani convinti che sarebbe quantomeno sconcertante se Putin, pronto a etichettare come fascisti gli ucraini che si oppongono alla sua conquista, fosse pronto a stringere alleanze con gruppi fascisti nel resto dell’Europa, peccano di superficialità. Lo stigma di fascista con cui l’Unione Sovietica marchiava chiunque e qualsiasi cosa che si opponesse al regime è stato uno dei tratti più irritanti e stantii della politica del Cremlino, a causa della disagevole ammissione che, in fondo, i nemici fascisti non erano che l’immagine speculare dei dirigenti dell’URSS.

 

Come un retaggio dell’era sovietica, Putin (ex ufficiale del KGB) usa questo termine anche per diffamare le sue vittime ucraine designate, ed è altrettanto privo di significato. In fondo, Putin può fare causa comune con l’estrema destra europea perché entrambi condividono gli stessi valori. La sta corteggiando sia per affinità ideologiche sia per proprio interesse strategico.

 

(Waller R. Newell)