CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

sabato 1 novembre 2025

COMMENTO ALLA VITA E ALLA MORTE

 








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Dinnanzi alla Natura e i suoi innumerevoli infiniti fraseggi, Frammenti di colori che traduciamo in Arte, quando l’Anima e lo Spirito in Armonia con l’intera Natura la quale ci ha creati, più o meno evoluti, più o meno consapevoli del rapporto imprescindibile che a Lei dobbiamo, e qual rinnovato pagano in disaccordo con il ‘Verbo’, medito una diversa Parola e Rima nascosta seppur Acerba avversa ‘all’oltraggioso peccato consumato’ divenir Commedia d’ogni creato, abdicando alla mela della Conoscenza, avversa alla dotta pedanteria degli ortodossi maestri del Tempio, assieme ad ogni frutto di una sublime Natura che li crea così saporiti e maturi per ogni Stagione di questo e altro ‘immondo peccato’ nell’eretica semplicità di assaporarne il gusto. 

 

Bell’è tacere de cotanta cosa,

 considerando el mio pocho intellecto,

 ma la gram fede mi muove e escusa,

 sì ch’io prego la virtù di sopra

 ch’alume l’alma del beato aspecto,

 e che l’inmaginar conseguischa l’opra.

 

Lì è una natura e tre persone,

 Lì dello sommo Bene è la pienezza,

Lì è con Pietà somma Ragione;

 E gli angeli benigni senza corpi

 Cantano sempre il Ciel pien d’ allegrezza,

 Non come a noi gridando ‘scorpi, scorpi’.

 

 Da questo cielo vien tutta la luce

La qual per l’universo ognora splende;

 

Questa, creando, Dio in noi la spira,

Ed ogni umano ha per sé l’alma sua;

 E tu, se l’ignoranza tua delira!

 

Ciò che comincia in tempo, in tempo muore;

 Passando e rinnovandosi li moti

 Del mondo, pur s’ appressa all’ultime ore.

Del quando, sono incerti li mortali,

 Ché i segreti divini non son noti,

 Ma son celati li più specïali. 

(Acerba, C. D’Ascoli)




E non certo dobbiamo e possiamo risolvere – cotal (duplice) peccato - come un conflitto interiore, dacché comprendiamo che i ‘maestri’ non accettano e tantomeno comprendono, all’ombra dell’oscuro Tempio, o della smarrita Selva al girone d’ogni Anima condannata senza salvezza alcuna, ciò di cui in medesima ombra d’un secolare Albero apostrofato e contemplato, inerente alla vita e il suo ugual principio, e come l’‘immateriale’ dimensione e forma compone l’Universo (compreso l’interiore) conferendo alla muta Natura la vera ricchezza, e maggior spettro di Linguaggio subordinato all’improprio dominio umano.

 

Congetturo secondo il parer mio,

E so che nostra conoscenza umana

 È cosa stolta verso l’alto Dio;

 Ma cominciando dall’età primiera…

 

Sperando così di risolvere un’antica contesa e il diverbio allorquando il Sentiero medesimo si divide procedendo verso la negata verità, dal dotto saccente ‘maestro’ esplicitando, in verità e per il vero, quanto in noi non ancora del tutto compreso evoluto, o peggio, maturato qual apparente conflitto interiore (prossimo alla patologia), di cui la ‘dogmatica’ e con lei un certo ‘dogmatismo’, oppongono il vincolo della materiale conoscenza per ciò che vede eppur non comprende, e il dipinto in Rima compone una nuova Eresia…




Ma perché forse questo imparare ad i giovani può parere cosa faticosa, parmi qui da dimostrare quanto la pittura (dell’intera Natura) sia non indegna da consumarvi ogni nostra opera e studio. Tiene in sé la pittura forza divina non solo quanto si dice dell’amicizia, quale fa gli uomini assenti essere presenti, ma più i morti dopo molti secoli essere quasi vivi, tale che con molta ammirazione dell’artefice e con molta voluttà si riconoscono.

 

Dice Plutarco, Cassandro uno de’ capitani di Allessandro, perché vide l’immagine d’Allessandro re tremò con tutto il corpo; Agesilao Lacedemonio mai permise alcuno il dipignesse o isculpisse: non li piacea la propia sua forma, che fuggiva essere conosciuto da chi dopo lui venisse. E così certo il viso di chi già sia morto, per la pittura vive lunga vita.

 

E che la pittura tenga espressi gli iddii quali siano adorati dalle genti, questo certo fu sempre grandissimo dono ai mortali, però che la pittura molto così giova a quella pietà per quale siamo congiunti agli iddii, insieme e a tenere gli animi nostri pieni di religione.

 

Dicono che Fidia fece in Elide uno iddio Giove, la bellezza del quale non poco confermò la ora presa religione. E quanto alle delizie dell’animo onestissime e alla bellezza delle cose s’agiugna dalla pittura, puossi d’altronde e in prima di qui vedere, che a me darai cosa niuna tanto preziosa, quale non sia per la pittura molto più cara e molto più graziosa fatta.

 

L’avorio, le gemme e simili care cose per mano del pittore diventano più preziose; e anche l’oro lavorato con arte di pittura si contrapesa con molto più oro. Anzi ancora il piombo medesimo, metallo in fra gli altri vilissimo, fattone figura per mano di Fidia o Prassiteles, si stimerà più prezioso che l’argento.

 

Zeusis pittore cominciava a donare le sue cose, quali, come dicea, non si poteano comperare; né estimava costui potersi invenire atto pregio quale satisfacesse a chi fingendo, dipignendo animali, sé porgesse quasi uno iddio. 

(L. B. Alberti)

 


 

L’Armonia, e non solo la Pittura che si ispira ad ogni cosa Creata, dovrebbe far parte della nostra Natura, della nostra specie, ma sappiamo anche, in verità e per il vero, che per ciò concernente l’Essere più evoluto del suo ultimo anello che tenta di dominarla sottometterla, nonché tacerla per come subordinata dalla Scrittura, dai remoti tempi della ‘creazione’ (li scorgiamo ancora questi esseri i quali in nome del loro Dio, e il rapporto esclusivo e non solo interpretativo, circa il danno  arrecato non solo alla Natura, ma al mondo intero), sussiste un eterno irrisolto rapporto conflittuale con noi stessi (creati dalla Natura) e la cosa creata (la Natura), e un antico Giano che procede ben oltre quanto dalla Natura ammesso e concesso nello stato evolutivo originario; dipingendo nel Quadro d’ogni giorno lo specchio della morte!

 

Che fu Mosè, e con lui l’antica legge.

 Da poi fu Cristo con gli ultimi giurni:

 Lascio la fine a lui che tutto regge,

 Ché terminare il mondo è in suo volere,

E i moti naturali e li diurni

 Di tutti i cieli, quanto al mio vedere.

 

Ma qui risorge il dubitare umano,

 Considerando le genti passate.

 Se sopra loro il ciel non fu più sano,

Ché il cielo impressïoni peregrine

 Non ha, sì come le cose create,

 Dunque, perché è di noi più breve il fine?

 

 Perché sì prodi, perché sì giganti

 Erano al tempo? Perché s’ è smarrita

Natura umana negli atti cotanti?

 Dico che ciò che è creato in tempo,

 In lui fu sempre la virtù finita;

 Passando stato, declina per tempo.

 

Bello è tacere di cotanta cosa

 Considerando il mio poco intelletto,

Ma la gran fede mi muove ed escusa,

 Sì ch’ io ne prego la Virtù di sopra

 Ch’ allumi l’alma del beato aspetto

 E che l’immaginar consegua l’opra.

 

 Era il Figliuolo innanzi il moto e il tempo,

E il Padre col Figliuolo una natura

 Eterna, ché non cade mai suo tempo.

 Questa era prima presso il primo agente;

 Se l’esser tutto per Lui tien figura,

Il fatto senza Lui, dico, è nïente. 

 

Allora cosa non va nell’essere cosiddetto umano?

 

Dobbiamo ancora parlare del male originario!?




L’etimologia del termine Ianus è stata oggetto di varie interpretazioni. Cercando di sviluppare la tesi in sé autorevole di P. Nigidio Figulo, A.B. Cook e, più recentemente, L.A. Mackay hanno pensato che la sua base possa essere ricondotta ad un ‘divianus’ dal quale si sarebbero sviluppati i vari ‘di(v)iana’, ‘dianus’, ‘ianus’, ‘iana’, ‘Diana’ di cui parla Varrone. La tesi sembrerebbe avere il pregio non solo di appoggiarsi a fonti antiche, ma di giustificare l’identificazione di ‘Ianus’ col sole (oppure con la luna, secondo Mackay) per l’asserita evidente relazione con la ‘luminosità’ insita nel significato del nome. Si ritenne perciò che ‘dianus’ si fosse formato su una base dia-derivata da un probabile ‘d(i)yeu’ - poggiante sulla radice indoeuropea ‘dey’, ‘brillare’, che attraverso l’adattamento ‘dy-ldi’ - si è conservata nel latino in termini come ‘Dionis’ o ‘Diana’ mentre non esiste il supposto ‘Dianus’ di P. Nigidio Figulo. 


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