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…Ma poiché sapeva bene che i suoi… ‘ricordi’, ovvero consigli e ammaestramenti, erano destinati a rimanere inascoltati, teneva naturalmente di riserva una sua ‘filosofia medicinatoria’ nella quale le ‘evacuazioni’ dovevano essere seguite dalle ‘restaurazioni’ intese a dare energia e vigore al corpo liberato dalle superfluità e dalla ‘redondanzia d’umori maligni’, dopo che lo stomaco (organo chiave, centro di tutte le disfunzioni) era stato mondato dal flegma, dalla collera e soprattutto dall’umore nero, responsabile d’ogni sorta di morbi.
Fosse ‘melancholia’ naturale o ‘nigra’, oppure adusta derivata dalla combustione della bile gialla, questo succo maligno filtrava nello stomaco provocando squilibri terribili e devastanti: la ‘melancholia ex stomacho’ era comunemente considerata dalla tradizione greco-bizantina, araba, dalla scuola salernitana (ed anche da Fioravanti) responsabile non solo della ‘quartana doppia’ ma anche di molteplici forme di alienazione mentale, della ‘pazzia acuta’ oltre che del normale ‘morbo ipocondriaco’ che, ritenuto un di stemperamento umorale e quindi dotato di una causa fisiologica, oggettiva, veniva curato con i due classici rimedi: gli emetici, che ripulivano dallo stomaco, e la dieta. ‘Tutte le sorti d’infermità hanno origine e principio dallo stomaco’, sentenziava nei Capricci medicinali, perché ‘tutte le negritudini sogliono venire per replezione’. Dopo il vomito e il secesso era assolutamente necessario che i corpi venissero restaurati con ‘bonissimi cibi’ e, in tutti i casi, era ottima regola non vietare ai pazienti ‘quelle cose che lor dilettano, perché quod sapit nutrit’.
Era di vitale necessità, dopo le drastiche evacuazioni, dopo le ‘purgazioni alquanto gagliarde e longhe’, dopo massicce dosi di ‘medicinali e pungenti, grandi e terribili’, evitare la dieta ‘tenue’ per ‘dar la sustanzia a gl’infermi’. A questo canone rimase fedele (interpretando a modo suo il quarto aforisma d’Ippocrate) e sempre ritenne che ‘chi vuol servirsi delle medicine, lasci la dieta in tutto e per tutto, essendo che non possono stare insieme’.
Perché la ‘dieta affligge i corpi e la infermità gli ammazza’, anzi era ‘la dieta troppo grande’ a stroncarli. Andava dicendo che delle ‘tre operazioni molto contrarie all’ordine di natura… cioè flobotomia, dieta e medicina, cose tutte tre molto pericolose in uno infermo’, la più perniciosa di tutte era ‘la vita tenue, cioè farli far dieta’. A lungo però, almeno fino agli inizi degli anni Sessanta, rimase ancorato alla tradizione patologica umoralistica, prima di liberarsene e di trafiggerla con derisoria ironia.
Non era audacia da nulla rigettare quella dottrina che ‘può essere definita come una delle parti più tenaci, e, per certi aspetti, più conservatrice della cultura moderna’. A lungo però continuò a rispettare le ‘auctoritates’ e se lo Stagirita fu per lui sempre ‘il gran maestro Aristotele’ il sapiente di Pergamo, ‘Galeano nostro’, continuò a esser indicato come ‘il maestro di tutti’ almeno fino agli anni del Tesoro della vita humana (1570), quando ancora la classica trinità greco-araba veniva elogiata come infallibile: ‘chi intende ben Hippocrate, Galeano e Avicenna non potrà mai errare nelle cure delle infermità’.
L’affrancazione, anzi la rivolta contro la tirannia dei quattro umori, iniziata coi Capricci medicinali, esploderà con estrema decisione, addirittura con violenza, nel 1564 nello Specchio di scientia universale, quando polemizzerà duramente contro i medici fisici che ritenevano impossibile curare bene senza una buona conoscenza dell’anatomia. In una delle sue più infuriate riprensioni, esclamerà:
Ma tristi coloro che credono una così grossa bugia. E siamo ancora tanto ignoranti e ostinati che vogliamo essequire le lor false opinioni e con quelle amazzare il prossimo nostro: che per dire il vero egli è cosa empia e crudele e non so come abbino fondato la scienzia di una tanta gloriosa arte sopra cosa incerta, con distinguer le complessioni, divider la colera dalla flemma e dalla malinconia, la pituita della flavabile, la colera negra, lo umore adusto e una quantità grande di molte diavolerie delle quali mai uomo del mondo non è stato capace di poterne avere cognizione, e costoro di continuo disputano e leggono (dalle cattedre universitarie) queste materie favolose e nessuno di loro è mai stato bastante di poter sapere come opera questa de gli interiori con tutte le particolarità del fatto: ma solamente alla ventura e per imaginazioni e chimere loro che si vanno imaginando nel cervello.
Parole che dovevano cadere come scudisciate sopra gli accademici, i ‘lettori’, gli anatomisti disprezzati fin dal tempo in cui Realdo Colombo e altri membri del Collegio medico romano (fra cui anche un professore della Sapienza, Giustino Finetto), lo deferirono all’organo che tutelava la loro rispettabilità e i loro emolumenti. Non credo che la letteratura medica italiana del Cinquecento abbia avuto un iconoclasta più deciso nel denunciare un lungo sonno della mente, le ‘chimere’, le vane ‘immaginazioni’, le ‘materie favolose’, tutta la poltroneria mentale depositata nei cervelli dei fisici, anche in quelli più sottili e innovatori. Su questo indiscusso dogma della medicina antica e moderna la sferza di Fioravanti s’abbatté più volte: in una lettera del 1568, resa pubblica nel folto...
...Carteggio depositato nel terzo libro del Tesoro della vita humana, indirizzata al collega Giovantomaso Lamberto da Cingoli abitante a Cortona nella quale, scherzando sopra l’inafferabilità e l’invisibilità degli umori, deplora chi, fra i medici, crede ancora a ‘certe opinioni di quelle del tempo antico’, in un pervicace attaccamento ai quattro inafferrabili, fantomatici agenti responsabili dell’equilibrio e del temperamento della macchina umana. Teorie dogmatiche ‘difficili da intendere e dubbiose da credere’, conclamate verità mai provate o sperimentate, supinamente seguite da eserciti di dottori addormentati in una cultura libresca non verificata sul reale quanto sfrenati e liberi da ogni buona disciplina nella vita privata:
ma che maggior cosa volete che vi dica, che non si trova gente al mondo che creda manco alla medicina quanto facciamo noi altri medici e nelle città non vi sono uomini più sregolati quanto siamo noi, perché le cose che noi proibimo a gl’infermi le mangiamo noi senza paura. Questo che io dico a voi è la verità, ma nol dirla ad altri, e tutto questo vi dico perché mi scrivete se il dia aromatico, la quinta essenza, il balsamo, il rimedio delle gotte, i medicamenti delle ferite sono convenienti in tutte le complessioni: perché uno è colerico, l’altro flemmatico, uno sanguigno e l’altro melanconico e va discorrendo, cose che come vi ho detto son tutte fandonie e burle, ma la verità sta nel fatto.
Ancora più decisamente e seccamente interviene in una pagina de La cirugia (1570) nella quale anche la qualità e i gradi delle erbe vengono demoliti come privi di fondamento. In questo processo di revisione, anzi di smantellamento dell’antica cultura, Fioravanti manifesta nel modo più clamoroso e spregiudicato lo spirito di rottura con i dogmi scientifici del suo tempo accettati incondizionatamente dai grandi ‘fisici’ contemporanei di formazione accademica. …Partendo da un’analisi della privatizzazione e occultamento della conoscenza delle proprietà delle erbe medicinali da parte di una casta di medici avidi di potere (l’analisi è perfettamente speculare a quella sull’invenzione della stampa che ruppe antichi privilegi rendendo accessibile a tutti la lettura prima di Gutenberg riservata a ristretti gruppi di
...privilegiati in gradi di comprare costosissimi codici e manoscritti), egli scrivendo il capitolo 48 del primo libro La cirugia ricostruisce il processo di progressiva separazione e appropriazione unilaterale dei saperi medico-botanici che ‘l’Onnipotente aveva ab initio concesso al mondo a commune beneficio de tutti gli umani viventi’, distacco incominciato quando, con l’uso della scrittura e dell’astrusa ‘teorica’, gli antichi sofi padroni dell’alfabeto aveva reso oscure e incomprensibili le cose di natura. Costoro ‘scrivendo con parole, volevano occultare la medicina (della Natura) e farsene loro ministri e che gli altri non solamente (non) se ne servissero ma che avessero paura di quella’.
Rimetteva perciò in discussione la superiorità della scrittura sull’oralità e individuava nell’alfabetizzazione specialistica dei gruppi di potere, riservata alla classe degli scribi e dei sacerdoti separata dalla cultura del popolo, lo strumento per sottomettere e dominare le masse incolte e illetterate, dando così inizio alla formazione di gruppi elitari, caste di potere solitario e incontrollato (tramandato sino ai giorni nostri) che nel XVI secolo, per gli uomini della sua professione, si identificavano coi togati esponenti del Collegio dei medici persecutore di liberi e non allineati ricercatori!
E così come quelli tali fecero presupposto di occultarla col voler mettere i nomi all’erbe e alle piante e con volerle graduare dicendo quale era calida e frigida nel primo, nel secondo, nel terzo e nel quarto grado; e come elle si dovevano operare e come si dovevano raccogliere e preparare e quali erano buone e quali cattive: e in somma, non volevano che altri che loro ne avesse cognizione… E di più volsero dividere i corpi umani in tante parti, dividendoli in quattro complessioni governate da quattro umori e infinite altre materie da ridere… Se leggiamo i libri loro, trovaremo che hanno assignato i gradi a tutte le erbe, come ho detto di sopra, come se fossero a peso, che una pesasse un’oncia, l’altra due, l’altra tre e l’altra quattro, il che lo lascierò giudicare al mondo. Trovaremo ancora che hanno scritto ne i corpi umani esser flemma, colera, malinconia, flavabile, pituita, spiriti vitali e altre cose. E io ancor, per dire il vero, sono stato un grandissimo tempo in questa cecità, ma di poi che la somma bontà di Dio, mi ha illuminato il cuore e dato cognizione della verità, ho cominciato a considerare sopra di ciò. E quando ho visto fare la notomia, non ho mai visto che abbino mostrato flemma, né colera, né malinconia, né flavabile, né pituita, né spiriti vitali, ma sì bene hanno mostrato la lingua, il canarozzo, il polmone, il cuore, il fegato, la milza, il ventriculo, la diafragma, le budella, i rognoni, la vesica, le songie, i nervi, le vene, i tendoni, la carne, la pelle e l’ossa, ma non già mai quelle cose sopradette. Come dunque potiamo noi prestar fede a quelle cose che sono così occulte, che non si possono trovare? Questo veramente fa dubitare a molti che elle non vi sieno. Non so dunque con che ragione si possono provare cose che non sono in natura, e quello che è peggio di tutto, volerle medicare…
L’abiura nei confronti dei venerati testi, la personale confessione d’avere per troppi anni, prima dell’illuminazione divina, prestato fede a teorie incontrollate, creduto a teoriche fondate sul nulla, a favole antiche cervellotiche e risibili, la netta dissociazione da idola consacrati sono una prova di grande onestà intellettuale, di riaffermata libertà di ricerca e di sperimentazione oltre che un’autocritica coraggiosa che invano si cercherebbe nei più illustri trattatisti del suo e dei secoli seguenti….
(P. Camporesi, Camminare il mondo)
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