CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

lunedì 17 agosto 2015

I PUPARI (dell'economia)




                 












Precedenti capitoli:

Dietro le scene (2/1)













Traffico di droga uguale riciclaggio!
E' impossibile che i profitti derivati dal commercio di stupefacenti giungano ai
beneficiari per vie legali. Da qui la scelta della clandestinità...Per tre (3) moti-
vi: il carattere illegale dell'affare; le eventuali restrizioni all'esportazione di ca-
pitali; la naturale prudenza di spedizionieri e destinatari.
Poiché le manovre finanziarie necessarie per riciclare il denaro sporco possono
venire effettuate integralmente dalle organizzazioni interessate - cui fanno difet-
to le competenze tecniche necessarie -, il compito è affidato a esperti della
finanza internazionale, i cosiddetti 'colletti bianchi', che si pongono al servizio
della criminalità organizzata per trasferire capitali di origine illecita verso paesi
più ospitali, i ben noti 'paradisi fiscali'.




E' sempre difficile individuare le tracce di operazioni del genere.
Il riciclaggio - che consiste in operazioni dirette a ripulire la ricchezza dalla sua
origine illegale - per essere combattuto efficacemente richiederebbe armoniche
legislazioni internazionali e una seria collaborazione tra gli Stati interessati.
La legislazione italiana non è ancora adeguata alla gravità e alle dimensioni, spe-
cialmente sul fronte delle indagini patrimoniali e bancarie. E il nuovo Codice di
procedura penale non è venuto di certo a migliorare la situazione, con i limiti
temporali che impone alle indagini e con l'obbligo di informare la persona sospet-
ta.



Si sente ripetere sui giornali che il riciclaggio passa attraverso le finanziarie di
Milano. Ma quante ne sono state identificate?
Pochissime.
Si dice da più parti che i riciclatori si servono delle operazioni di Borsa.
Quante operazioni di questo tipo abbiamo scoperto?
Nessuna, che io sappia.




Affermazioni avventate di tal fatta possono influire in modo non irrilevante sul
mercato legale. A volte il semplice fatto che la stampa additi alcuni settori finan-
ziari come privilegiati dal riciclaggio basta a dirottare l'investimento con le intuibili
conseguenze negative. Per dirla coi banchieri, il denaro ha 'zampe di lepre e cuo-
re di coniglio'.
Raramente i grandi flussi di denaro sporco coinvolgono un solo paese.
E' indispensabile quindi una larga collaborazione tra Stati.




Indagando su Vito Ciancimino, nel 1986 accerto che su tre (3) conti di banche
svizzere, intestati a un sospetto italiano - chiamiamolo il signor X -, si erano verifi-
cati nel 1981-82 bruschi e importanti movimenti di capitali, presumibilmente pro-
venienti dal traffico di droga. Chiedo alle autorità elvetiche di poter consultare la
loro documentazione in materia.
Autorizzazione concessa.
Continuo l'indagine e scopro che le somme trasferite - cinque (5) milioni di dollari -
sono finite sul conto di una società panamense. Che le ha divise in due (2) parti:
2 milioni e mezzo di $ hanno preso la strada di una banca di New York, i rima-
nenti 2 milioni e mezzo di $ sono stati dirottati su una banca di Montreal. Nel 1991
i dollari si ritrovano di colpo insieme sul conto di una società di Guernesey, in Gran
Bretagna, che è del tutto all'oscuro della loro provenienza illecita.
Su ordine del signor X, la società divide i cinque (5) milioni in cinque (5) parti e
li deposita su cinque (5) diversi conti bancari. Da qui riprendono la strada per la
Svizzera, dove atterrano (senza alcuna preoccupazione....).
(Giovanni Falcone, Cose di cosa nostra)
















lunedì 3 agosto 2015

COSA E' IL PROGRESSO? (3)

















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Cosa è il progresso? (2)

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Cosa è il progresso? (4)













....Basso di civiltà si incontri qualcosa che si avvicina a questa condizione di perfezione?
In America del Sud e in Estremo Oriente, sono vissuto a lungo in mezzo a comunità selvagge che non hanno altre leggi o altra corte di giustizia se non l’opinione pubblica, liberamente espressa dalla popolazione. Lì, ognuno rispetta scrupolosamente i diritti del prossimo: un’infrazione a queste regole capita raramente, per non dire mai. Un’uguaglianza pressoché perfetta regna nella comunità: niente che assomigli a quell’ampia demarcazione tra educazione e ignoranza, ricchezza e povertà, padrone e servo, presente nella nostra civiltà. Non c’è nemmeno la divisione del lavoro che, pur aumentando la ricchezza, crea conflitti di interessi, né accanita concorrenza, né lotta per la vita.
Se considerassimo l’insieme delle nostre popolazioni, non potremmo vantarci di una superiorità reale sui selvaggi. Tuttavia, si avrebbe torto a generalizzare ciò che il grande naturalista e sociologo ha detto degli indigeni dell’Amazzonia e dell’Insulindia e ad applicarlo a tutte le popolazioni selvagge dei continenti e degli arcipelaghi. L’isola del Borneo, dove Wallace ha trovato quegli esempi di nobiltà morale che hanno determinato il suo giudizio, è la stessa grande terra che Boeck ha descritto sotto il nome di Paese dei Cannibali e che si potrebbe chiamare anche Paese dei tagliatori di teste, facendo allusione a quei Dayak che, per acquisire il diritto di chiamarsi Uomini e di fondare una famiglia, devono aver fatto cadere una o più teste con astuzia o in leale combattimento. Nello stesso modo, la meravigliosa isola di Tahiti, la nuova Citera, di cui i navigatori del diciottesimo secolo parlano con così sincero entusiasmo, non risponde che molto parzialmente agli elogi che ne fecero gli europei, incantati sia dalla bellezza del paesaggio, sia dall’amabilità degli abitanti. Certi personaggi solenni e dolci, certi venerabili anziani che sembravano con la loro nobile gravità completare le scene incantevoli del paradiso oceanico, appartenevano forse alla temibile casta degli Oro (Arioi) che, dopo essersi costituiti in un clero votato al celibato, avevano finito per diventare un’associazione di omicidi, dedita a riti infernali e all’assassinio di tutti i loro figli. Vero è che in questo periodo i Tahitiani stavano già evolvendo verso uno stadio culturale molto lontano da quello primitivo. Ma allora, invece di svilupparsi nel senso del progresso, si trovavano forse in fase di regressione, oppure i due movimenti si incrociavano nella vita sociale della piccola nazione, chiusa nel suo ristretto universo oceanico?
Qui sta la principale difficoltà.




Migliaia di popolazioni e di agglomerati etnici, riuniti dagli orgogliosi civilizzati sotto il nome di selvaggi, corrispondono a punti vitali molto diversi gli uni dagli altri, che si collocano variamente nel corso dei tempi e nella rete sconfinata degli ambienti. Alcune popolazioni sono in   piena evoluzione progressiva, altre in incontrovertibile decadenza. Le prime sono nel loro momento di ascesa, le seconde sulla via del declino e della morte. Ogni esempio citato dai diversi autori nella grande indagine sul progresso dovrebbe quindi essere accompagnato dalla storia specifica del gruppo umano in questione, perché due situazioni, pressoché identiche in apparenza, possono nondimeno avere un significato assolutamente opposto, a seconda che si riferiscano all’infanzia o alla vecchiaia di un organismo.
Un primo fatto spicca in modo evidente dagli studi di etnografia comparata. La differenza essenziale tra la civiltà di una popolazione primitiva, ancora poco influenzata dalle popolazioni vicine, e la civiltà delle immense società politiche moderne consiste nel carattere semplice dell’una e nel carattere complesso dell’altra. La prima, poco sviluppata, ha perlomeno il vantaggio di essere coerente e conforme al proprio ideale; la seconda, immensa per il ciclo che abbraccia, infinitamente superiore alla cultura primitiva per le forze messe in movimento, è complessa e diversificata, oberata di sopravvivenze, necessariamente incoerente e contraddittoria, senza unità, poiché persegue contemporaneamente obiettivi contrapposti. Nelle società della preistoria e del mondo ritenuto ancora selvaggio l’equilibrio può  stabilirsi facilmente, perché in esse l’ideale è semplice; di conseguenza, queste popolazioni, queste razze primitive con conoscenze scientifiche pochissimo sviluppate, avendo solo arti rudimentali e conducendo una vita senza grande varietà, hanno potuto nondimeno raggiungere uno stadio di giustizia reciproca, di equo benessere e di felicità, superando di molto il corrispettivo delle nostre società moderne, così infinitamente complesse, trascinate dalle scoperte e dai progressi parziali in uno slancio continuo di rinnovamento, mischiato variamente a tutti gli elementi del passato.
Perciò, quando noi paragoniamo la nostra società mondiale, tanto potente, ai piccoli gruppi impercettibili dei primitivi che sono riusciti a mantenersi lontano dai civilizzatori troppo spesso distruttori possiamo essere portati a credere che questi primitivi siano superiori a noi e che noi siamo regrediti nel corso dei tempi. Il fatto è che le nostre qualità non sono dello stesso ordine di quelle antiche; il confronto, quindi, non può essere fatto in modo equo….




…Tuttavia è un fatto ben noto che l’aria della città è carica di elementi mortiferi. Sebbene le statistiche ufficiali non presentino sempre a questo proposito la sincerità auspicabile, è nondimeno certo che in tutti i Paesi d’Europa e d’America la vita media dei campagnoli supera di parecchi anni quella dei cittadini; gli immigrati, lasciando il campo nativo per la via stretta e nauseabonda di una grande città, potrebbero calcolare in anticipo di quanto tempo approssimativamente abbreviano la loro vita in base al calcolo delle probabilità. Non solo il nuovo arrivato soffre in prima persona e si espone a una morte anticipata, ma condanna parimenti la sua discendenza; non si ignora che nelle grandi città, come Londra e Parigi, l’energia vitale si esaurisce rapidamente e che nessuna famiglia borghese va oltre la terza o la quarta generazione.
Se l’individuo può resistere all’influenza mortale dell’ambiente circostante, la famiglia invece finisce per soccombervi; senza continue immigrazioni di provinciali e di stranieri che marciano allegramente verso la morte, le capitali non potrebbero reclutare la loro enorme popolazione. I tratti del cittadino si affinano, ma il corpo si indebolisce e le sorgenti di vita si esauriscono.
Così anche dal punto di vista intellettuale, tutte le brillanti facoltà sviluppate dalla vita sociale sono dapprima sovreccitate, ma poi il pensiero perde gradatamente la sua forza, infine si indebolisce e cede prima del tempo. Sicuramente il monello di Parigi, paragonato al rustico giovane delle campagne, è un essere pieno di vivacità e di brio; ma non è proprio questo pallido monellaccio che si può paragonare, nel fisico e nel morale, a quelle piante malaticce che vegetano nelle tenebre delle cantine?
Insomma è nelle città, soprattutto in quelle che sono maggiormente famose per ricchezza e civiltà, che si trovano certamente gli uomini più degradati, poveri esseri senza speranza che la sporcizia, la fame, l’ignoranza bruta e il disprezzo di tutti hanno posto ben al di sotto del felice selvaggio che percorre in libertà le foreste e le montagne.  Accanto al massimo splendore che bisogna cercare l’infima abiezione; non lontano da quei musei dove si mostra in tutta la sua gloria la bellezza del corpo umano, bambini rachitici si riscaldano nell’aria inquinata esalata dalle bocchette delle fogne.




Se da un lato il battello a vapore conduce nelle città moltitudini sempre in aumento, dall’altro riporta nelle campagne un numero sempre più considerevole di cittadini che va a respirare per un po’ all’aria aperta e a rinfrescarsi le idee alla vista dei fiori e del verde. I ricchi, padroni di crearsi degli svaghi a loro piacimento, possono sfuggire alle occupazioni e ai logoranti piaceri della città per mesi interi. Ve ne sono anche altri che risiedono in campagna e che fanno solo fugaci apparizioni nelle loro case delle grandi città. In quanto ai lavoratori di ogni genere che non possono allontanarsi per molto tempo, a causa delle esigenze della vita quotidiana, la maggior parte di essi strappa nondimeno alle proprie occupazioni la tregua necessaria per andare in campagna. I più fortunati si prendono settimane di ferie che trascorreranno lontano dalla capitale, in montagna o in riva al mare. Coloro che sono maggiormente asserviti dal loro lavoro si limitano a scappare di tanto in tanto, per qualche ora, dallo stretto orizzonte delle strade abituali; si sa con quanta gioia approfittino dei loro giorni di festa quando la temperatura è dolce e il cielo è terso: in quel momento ogni albero dei boschi vicini alle grandi città ripara una allegra famigliola. Un numero considerevole di negozianti e di impiegati, soprattutto in Inghilterra e in America, sistema coraggiosamente moglie e figli in campagna e si costringe a fare due volte al giorno il tragitto che separa l’ufficio dal focolare domestico.




Grazie alla rapidità delle comunicazioni, milioni di uomini possono così riunire i vantaggi del cittadino e del campagnolo; il numero di persone che dividono così la loro vita non cessa di aumentare ogni anno. Intorno a Londra si possono contare a centinaia di migliaia quelli che tutte le mattine si buttano nel vortice di affari della grande città e ritornano tutte le sere nella loro tranquilla home della verde periferia. La city, vero centro del mondo commerciale, si spopola di residenti: di giorno è l’alveare umano più attivo, di notte un deserto. Sfortunatamente questo riflusso dalle città verso l’esterno finisce per imbruttire la campagna: non soltanto rifiuti di ogni specie ingombrano lo spazio intermedio compreso fra le città e i campi, ma cosa ancor più grave la speculazione si impadronisce di tutti i luoghi piacevoli delle vicinanze, li divide in rettangoli, li chiude entro mura tutte uguali, poi vi costruisce centinaia, migliaia di casette pretenziose.
Per chi passeggia e vagabonda attraverso i sentieri fangosi di queste pretese campagne, la natura è rappresentata solo da arbusti potati e fitte aiuole di fiori che si intravedono attraverso le recinzioni. In riva al mare, le scogliere più pittoresche, le spiagge più incantevoli, sono anch’esse, in molti punti, accaparrate da proprietari gelosi o da speculatori che apprezzano le bellezze della natura come i cambiavalute stimano un lingotto d’oro. Nelle zone di montagna, la stessa smania di possesso si impadronisce degli abitanti; i pascoli sono suddivisi in lotti e venduti al migliore offerente: ogni curiosità naturale, la roccia, la grotta, la cascata, il crepaccio di un ghiacciaio, tutto, fino al suono dell’eco, può diventare proprietà privata.
Degli imprenditori appaltano le cateratte, le circondano di barriere di legno per impedire ai viaggiatori non paganti di contemplare il tumulto delle acque, poi a forza di  pubblicità trasformano in bella moneta sonante la luce che gioca sulle goccioline in sospensione e il soffio del vento che dispiega bande evanescenti di vapori. 
Poiché la natura è profanata da tanti speculatori, proprio a causa della sua bellezza, non c’è da meravigliarsi che nei loro lavori gli agricoltori e gli industriali dimentichino di chiedersi se non contribuiscano all’abbruttimento della terra. Certo che il rude contadino si preoccupa ben poco del fascino della campagna e dell’armonia dei paesaggi, purché...















sabato 1 agosto 2015

COSA E' IL PROGRESSO?










































Prosegue in:

Cosa è il progresso? (2)













Cosa è il progresso?
E’ quello che le ha attribuito lo storico Gibbon.
Egli suppone che, dall’inizio del mondo, ogni secolo abbia aumentato e aumenti ancora la ricchezza reale, la felicità, la conoscenza e, forse, la virtù della specie umana. Questa definizione, che contiene una certa perplessità dal punto di vista dell’evoluzione morale, è stata ripresa e diversamente modificata, ampliata o ristretta, dagli scrittori moderni; resta fermo il fatto che, nell’opinione comune, il termine progresso dovrebbe comportare il miglioramento generale dell’umanità nel corso della storia. Bisognerebbe però guardarsi dall’attribuire ad altri cicli della vita terrestre un’evoluzione necessariamente analoga a quella che ha percorso l’umanità moderna.
Le ipotesi assai plausibili che si riferiscono ai tempi geologici del nostro pianeta rendono alquanto probabile la teoria di un’oscillazione di periodi corrispondente in proporzioni considerevoli al fenomeno alterno delle nostre estati e dei nostri inverni. Un va e vieni che comprende migliaia o milioni di anni, o di secoli, comporterebbe una successione di periodi distinti e contrastanti, determinando evoluzioni vitali molto diverse le une dalle altre.
Che cosa diventerebbe l’umanità attuale in un’epoca di lungo inverno, se una nuova era glaciale ricoprisse le isole britanniche e la Scandinavia di un mantello ininterrotto di ghiaccio e le nostre biblioteche e i nostri musei venissero distrutti dal gelo?
 Bisogna allora sperare che i due poli non si raffreddino simultaneamente e che l’uomo possa sopravvivere, adattandosi a poco a poco alle nuove condizioni e trasferendo nei paesi caldi i tesori della nostra attuale civiltà?




Ma se il raffreddamento è generale, è ammissibile che una sensibile diminuzione del calore solare, fonte di vita, e l’esaurimento naturale delle nostre riserve di energia possano coincidere con uno sviluppo ininterrotto della cultura, nel senso di un miglioramento e quindi con autentico progresso?
Già in epoca contemporanea possiamo constatare che le normali conseguenze della siccità terrestre, successive all’era glaciale, hanno provocato incontestabili fenomeni di  regressione nelle regioni dell’Asia centrale. I fiumi e i laghi prosciugati, le dune dilaganti hanno causato la sparizione delle città, delle civiltà e delle stesse nazioni. Il deserto di sabbia ha sostituito le campagne e le città.
L’uomo non ha potuto resistere alla natura ostile.
Qualunque idea ci si faccia del progresso, un punto sembra innanzi tutto fuori discussione: in epoche diverse sono apparsi individui che, per alcune caratteristiche, si pongono in primo piano fra gli uomini di ogni tempo e di ogni Paese. Si riducono a una trentina i nomi dei personaggi che per perspicacia, capacità di lavoro, bontà profonda, virtù morale, senso artistico, o qualsiasi altro aspetto del carattere o dell’ingegno, costituiscono, nella loro particolare sfera, dei tipi perfetti, insuperabili.




La storia della Grecia, in particolare, ce ne mostra grandi esempi; ma altri raggruppamenti umani ne hanno posseduti: spesso li dobbiamo intuire dietro ai miti e alle leggende. Chi si potrebbe definire migliore del Buddha, più artista di Fidia, più inventivo di Archimede, più saggio di Marco Aurelio?
Negli ultimi tremila anni, il progresso, se vi è stato, è consistito in una più larga diffusione di quella iniziativa un tempo riservata a pochi e in un migliore utilizzo da parte della società degli uomini di genio. Alcuni grandi ingegni non si accontentano di ammettere queste fondamentali restrizioni: negano persino che ci possa essere un reale miglioramento nello stato generale dell’umanità. Ogni impressione di progresso sarebbe, secondo loro, una pura illusione e avrebbe solo un valore personale. Per la maggior parte degli uomini, il cambiamento si confonde con l’idea di progresso o di regresso a seconda che si avvicini o si allontani dal particolare gradino occupato dall’osservatore nella scala degli esseri.
I missionari, quando incontrano dei superbi selvaggi che si muovono liberamente nella loro nudità, credono di farli progredire dando loro abiti, camicie, scarpe e cappelli, bibbie e catechismi, insegnando loro a salmodiare in inglese e in latino. Da quali canti di trionfo in onore del progresso non sono state accompagnate le inaugurazioni di tutte le fabbriche industriali, con i loro annessi di bettole e ospedali!




Certamente l’industria ha portato effettivi progressi al suo seguito; tuttavia è importante criticare con molto scrupolo i dettagli di questa grande evoluzione!
Le miserabili popolazioni del Lancashire e della Slesia ci mostrano che nella loro storia non tutto è stato vero progresso!
Non basta cambiare ceto ed entrare in una nuova classe sociale per acquisire una più grande porzione di felicità; vi sono attualmente milioni di operai dell’industria, di sarte, di donne di servizio, che ricordano con le lacrime agli occhi la capanna materna, i balli all’aria aperta sotto l’albero secolare e le veglie di sera attorno al camino. E di che natura è il preteso progresso per le popolazioni del Camerun e del Togo, che hanno ormai l’onore di essere protette dalla bandiera germanica, o per gli arabi algerini che bevono l’aperitivo e si esprimono elegantemente in gergo parigino?
La parola civiltà, che si usa di solito per indicare il grado di progresso di questa o quella nazione, è come il termine progresso una di quelle vaghe espressioni i cui diversi significati si confondono.




Per la maggior parte delle persone, indica soltanto la raffinatezza dei costumi e soprattutto le abitudini esteriori di cortesia; ciò non toglie che uomini dal contegno austero e dai modi bruschi possano avere una morale di gran lunga superiore a quella dei cortigiani che fanno complimenti cerimoniosi. Altri vedono nella civiltà solo l’insieme di tutti i miglioramenti materiali dovuti alla scienza e all’industria: ferrovie, telescopi e microscopi, telegrafi e telefoni, dirigibili, macchine volanti e altre invenzioni che sembrano loro sufficienti testimonianze del progresso collettivo della società; non vogliono saperne di più, né penetrare nelle profondità dell’immenso organismo sociale.
Ma chi lo studia fin dalle sue origini, constata che ogni nazione civilizzata si compone di classi sovrapposte, che rappresentano in questo secolo tutti i secoli precedenti, con le loro corrispettive culture intellettuali e morali. La società attuale contiene in sé tutte le società anteriori allo stato di sopravvivenza; viste a contatto l’una con l’altra, le situazioni estreme presentano uno scarto sorprendente. Evidentemente, la parola progresso può essere causa dei più spiacevoli malintesi, a seconda dell’accezione in cui è presa da chi la pronuncia.
I buddisti e gli interpreti della loro religione potrebbero contare a migliaia le diverse definizioni del nirvana; allo stesso modo, secondo l’ideale sul quale impostano la propria vita, i filosofi possono considerare come passi in avanti le evoluzioni più diverse e persino le più contraddittorie. Per alcuni il riposo è il sommo bene: si augurano, se non la morte, almeno la perfetta tranquillità del corpo e dello spirito, l’ordine, quand’anche fosse solo abitudine. Il progresso, come lo intendono questi esseri stanchi, non è certamente quello concepito dagli uomini che preferiscono una pericolosa libertà ad una tranquilla servitù.




Nondimeno, l’opinione comune relativa al progresso coincide con quella di Gibbon ed implica il miglioramento della persona dal punto di vista della salute, l’arricchimento materiale, l’incremento delle conoscenze, insomma il perfezionamento del carattere, diventato certamente meno crudele, persino più rispettoso dell’individuo e, forse, più nobile, più generoso, più altruista. Considerato così, il progresso dell’individuo si confonde con quello della società, rinsaldata da una forza di solidarietà sempre più profonda. In questa incertezza, è importante studiare ogni fatto storico dall’alto e da lontano, per non perdersi in dettagli e per trovare il distacco necessario con cui poter stabilire i veri rapporti con l’insieme di tutte le civiltà connesse e di tutti i popoli interessati.
 Così, fra gli uomini di grande intelligenza che negano nel modo più assoluto il progresso e persino ogni idea di continua evoluzione in senso positivo, Ranke, pur storico di grande valore, non vede nella storia che periodi susseguenti, che hanno ognuno il proprio particolare carattere e che manifestano tendenze diverse, trasmettendo una vita originale, imprevista, persino piccante, alle diverse tappe di ogni età e di ogni popolo. Secondo questa concezione, il mondo sarebbe una specie di pinacoteca. Se ci fosse progresso, dice lo scrittore pietista, gli uomini, certi di un miglioramento di secolo in secolo, non sarebbero alle dirette dipendenze della divinità, che vede in modo sempre uguale tutte le generazioni che si susseguono nella serie dei tempi, come se esse avessero un identico valore. Questa opinione di Ranke, così in disaccordo con quelle che si è abituati a sentire fin dal diciottesimo secolo, giustifica una volta di più l’osservazione di Guyau secondo cui l’idea religiosa è in antagonismo con l’idea di progresso. 
Se quest’ultima è rimasta a lungo sopita, appena risvegliata nei filosofi del mondo antico più liberi di spirito, se ha preso vita e piena coscienza di sé solo con il Rinascimento e con le rivoluzioni moderne, la causa risale al dominio assoluto degli Dèi e dei dogmi che è durato dall’antichità al Medio evo. Infatti, ogni religione parte dal principio che l’universo sia uscito dalle mani di un creatore e che quindi abbia avuto inizio dalla suprema perfezione....