CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

martedì 30 maggio 2023

GENTE DI CONFINE

  










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circa la loro Ragione








Il confino politico fu istituito come misura di prevenzione da adottare ante delictum nei confronti di soggetti che avrebbero potuto costituire un pericolo per la società, ma che ancora non avevano commesso alcun tipo di reato. Come tutte le misure preventive, il confino era di competenza amministrativa e non aveva uno scopo punitivo: il problema sorse quando del concetto di prevenzione si fece un uso politico fornendo la base con cui legittimare l’allontanamento dal contesto sociale di individui che potevano essere, realmente o meno, un pericolo: le misure di prevenzione divennero, così, ‘lo strumento principale per assicurare l’intangibilità politica’ del regime.

 

Essendo uno strumento di polizia, il confino presupponeva situazioni di mero sospetto: discrezionalità e presunzione di pericolosità assunsero un ruolo fondamentale. Se il diritto penale offriva, almeno in teoria, la garanzia di essere puniti esclusivamente per fatti oggettivi, le misure di polizia si fondavano su giudizi e non comportavano la commissione di un illecito penale. In tal modo, basandosi esclusivamente su indizi di ‘presunta pericolosità’ e non su fatti, esse rappresentarono un sistema sussidiario e complementare al diritto penale, integrando quest’ultimo senza però ad esso sostituirsi né equipararsi.




Applicandosi alle persone sospette la misura di prevenzione di polizia toccava da vicino il problema della libertà individuale.

 

L’Italia liberale aveva conosciuto il domicilio coatto che era stato usato anche per reprimere le attività politiche di opposizione, il libero arbitrio, gli eretici ‘contro’, quando ‘contro’ vuol significare ogni ingiustizia sociale dello stesso lo stato; la novità che apportò il regime fascista consistette nella nascita di un sistema istituzionalizzato di polizia con poteri propri di prevenzione e di repressione politica, presupposto di nuove norme giuridiche. Non a caso nel 1930 il consigliere della Corte di cassazione del Regno, Antonio Saccone, in merito al confino, affermava:

 

‘Certo, non si potrà esercitare una seria ed efficace tutela preventiva, se non limitando in parte lo svolgersi integrale della propria libertà personale; ma ciò non vale a far condannare senz’altro ogni misura di polizia preventiva [...] [giacché] è minor inconveniente limitare in parte l’esplicazione dell’attività individuale che non lasciar priva di tutela la sicurezza pubblica dei cittadini’.




In nome di un ‘bene comune’, quello della ‘sicurezza pubblica’, si giustificava l’adozione di misure di polizia preventive volte ad assicurare un ordine pubblico a scapito dei principali diritti civili e politici dei singoli.

 

I diritti soggettivi furono calpestati dallo stesso regolamento normativo del confino poiché era prevista la possibilità di arrestare nemici politici e di trattenerli senza rendere espliciti i capi d’accusa e senza difesa contro un mero sospetto.

 

Il tema dello Stato di diritto e del suo scardinamento tramite la prassi della detenzione senza imputazione è fondamentale, in quanto, proprio su questa regola, si basò il confino favorendo, in questo modo, la nascita in Italia di un regime dittatoriale in cui l’utilizzo di istituti contrari alle garanzie del diritto della persona e finalizzati alla repressione di una o più determinate categorie, non fu il risultato di eccessi del sistema, ma parte organica di questo stesso.




La misura di prevenzione costituita dal confino risultò contraria allo Stato di diritto innanzitutto perché non rispettava il cosiddetto principio di legalità formale (espresso dalla locuzione latina nullum crimen, nulla poena sine previa lege poenali, spesso abbreviata con la formula nullum crimen, sine lege), principio che esprime l’idea che non possa esserci reato, e quindi nessuna pena, se non esiste la legge che lo prevede. Tale convinzione, alla base del diritto moderno, era nata per garantire la libertà del singolo dallo strapotere dello Stato di polizia e per eliminare la possibilità di un uso retroattivo (principio di irretroattività) delle leggi, in modo da evitare che potessero essere considerati reati quei comportamenti che nel momento in cui essi si manifestavano non erano considerati tali.

 

Benché, teoricamente, in Italia fosse restato in vita il principio di ‘legalità formale’, il senso del nullum crimen, sine lege fu completamente svuotato perché la misura di polizia, usata per fini politici, risultò essere uno strumento snello e veloce per colpire quelle categorie che non erano imputabili tramite il sistema giudiziario. Il rapporto cittadino-Stato cambiò a vantaggio del secondo e prese il sopravvento una visione di fatto sostanziale13 del reato a scapito di quella formale.





Il confino politico fu contrario allo Stato di diritto anche per un altro motivo: esso fu applicato, non di rado, come una sanzione, per di più detentiva. Una misura di prevenzione non ha carattere giuridico e non è una punizione perché – come già detto – non consegue a nessun reato commesso. Per questo motivo una misura preventiva non può essere considerata una pena, cioè una sanzione afflittiva, detentiva. Invero, il confino funzionò, per alcuni aspetti, come una misura di sicurezza, che invece è uno strumento penale, perché colpì, nella maggioranza dei casi, ex confinati che avevano finito di scontare il loro periodo e/o ex carcerati per motivi politici: in questi casi il confino non fu usato nei confronti di persone che non avevano ancora commesso alcun reato o infrazione nei confronti del regime, ma assunse la funzione di una misura di sicurezza nell’impedire nuovi reati, nel controllare la persona e nel frenare il suo stato di pericolosità, ma senza disporre di quelle garanzie proprie di una misura di sicurezza, cioè il disciplinamento di un processo penale tramite la presenza di un giudice.




La convergenza tra le misure preventive e quelle di sicurezza non sfuggì ad alcuni giuristi italiani dell’epoca che sostenevano la fusione dei due tipi di misure poiché esse avevano una radice comune, un carattere ideologico simile (colpivano la pericolosità sociale e quella politica assimilate l’una all’altra) e le stesse finalità mirando – le misure di sicurezza – non a recuperare il singolo ma a punirlo quanto quelle di polizia. Altri esperti prospettavano per i delinquenti giudicati irrecuperabili, per i quali l’internamento in case di cura o di lavoro non avrebbe avuto alcuna utilità, il confino politico rafforzando, quindi, la tesi della convergenza fra misure di prevenzione e misure di sicurezza.

 

Il confino politico, basandosi sul concetto di nemico, di pericolosità per la società e per lo Stato, di tutela della sicurezza comune, trovava giustificazione nei principi della cosiddetta Scuola positiva. Il modello penale cui faceva riferimento la Scuola positiva, dando più importanza alla difesa sociale rispetto alla libertà del singolo, si accordava all’impostazione statalista offerta dal nuovo assetto istituzionale e politico rappresentato dal fascismo.




 Per quanto i giuristi in linea con il regime di Mussolini definissero lo Stato fascista uno Stato di diritto e lo considerassero il ‘compimento nel segno della legalità delle premesse dello Stato ottocentesco’ dopo la parentesi del regime liberale, tale assunto era privo di senso perché non si teneva conto del fatto che era un diritto nato non dal libero dibattito parlamentare e che non erano più assicurate ai cittadini le principali garanzie.

 

Durante il Ventennio si continuò a parlare di ‘Stato di diritto’ sebbene questo fosse stato profondamente adattato ai modelli che i teorici del fascismo andarono creando. Per la pubblicistica fascista lo Stato di diritto era una fase, un momento della realtà morale costituita dallo Stato etico: non essendo sempre valida la sua logica garantista soprattutto in situazioni eccezionali, lo Stato di diritto doveva porsi dei limiti e fare posto al cosiddetto Stato etico dove il cittadino continuava ad essere inteso come individuo, ma non più nella sua unicità, bensì nel suo appartenere ad una comunità nazionale.




 Lo Stato etico impegnava tutti i cittadini ad una partecipazione totale e completa, così che dal popolo potesse scaturire la coscienza nazionale. Questo Stato – unità inscindibile di potere, identificato con quello esecutivo a sua volta imperniato sul capo del governo – risultava un’entità a parte, dotata di una propria esistenza, di propri scopi e di una propria morale. A questa doveva sottostare l’individuo, la cui libertà era prevista solo in funzione dello Stato. Stato e Nazione si fondevano in una sola cosa.

 

Stato e popolo costituivano un binomio indissolubile, dove per gli individui era un dovere assoluto obbedire alla volontà dello Stato senza nessun corrispettivo di diritti. In questa ottica lo Stato etico si faceva educatore delle masse e assumeva compiti pedagogici anche nell’ambito delle pene che assumevano una funzione rieducatrice morale e sociale; ‘il ripristino della pena di morte’ e il rigore del sistema penitenziario, tuttavia, erano ben lontani ‘dal consentire il conseguimento di finalità rieducative, esprimendo piuttosto un programma intimidatorio di prevenzione generale negativa’.




 Il successo dell’efficacia del confino politico dipese non solo dalle modalità usate dal regime e dal comportamento delle autorità e delle guardie, ma anche dall’atteggiamento della popolazione civile che viveva nelle immediate vicinanze. La reazione e la ricezione della gente locale a questo strumento repressivo e il modo di rapportarsi ai ‘nemici’ dello Stato sono questioni di non facile analisi perché andrebbero tenuti in considerazione molti fattori, come il genere di questi involontari testimoni, la loro classe sociale di appartenenza, il loro livello di politicizzazione.

 

Alcune persone espressero indifferenza o diffidenza nei confronti dei confinati; altre assunsero atteggiamenti ostili o commisero azioni che resero più difficile la condizione dei perseguitati politici; altre, ancora, manifestarono forme più o meno concrete di solidarietà riuscendo ad alleviare le condizioni di chi era confinato. L’insieme è eterogeneo e non permette di individuare delle categorie, anche perché alcuni comportamenti seguirono logiche legate non alla politica ma a questioni puramente personali. Non meno interessante è la reazione della gente comune alla presenza invadente delle autorità preposte alla vigilanza dei confinati. L’atteggiamento di fronte alle guardie fu dettato, come abbiamo detto, da opportunismo o dalla paura di essere accusati di connivenza o collusione con i politici.



Questo discorso conduce al tema più generale del ‘consenso’, una questione largamente trattata dalla storiografia italiana e sulla cui parola il medesimo dibattito scientifico non è sempre concorde. Senza addentrarci nello specifico, non si può negare che il regime fascista, non molto diversamente da quello nazista, si mosse in molteplici direzioni per raggiungere il consenso: mise in moto un apparato propagandistico con strutture senza precedenti rispetto a qualsiasi altro regime autoritario; usò strumenti repressivi e coercitivi; utilizzò idee profondamente radicate nella società.

 

Non v’è dubbio che ‘la fabbrica del consenso’ fu efficace anche solo per la profonda censura che riuscì ad eliminare tutti quegli aspetti che avrebbero potuto stendere un’ombra sul governo: ad un’iniziale propaganda ‘di agitazione’, violenta, fondata su mezzi relativamente semplici come comizi, opuscoli, volantini che facevano leva su basse pulsioni e istinti ispirati a sentimenti d’odio e rivalsa, ne seguì una ‘di integrazione’ finalizzata ad influire sulle abitudini e sui comportamenti tramite la diffusione di nuovi culti e simbologie.




Lo scopo del regime era ottenere non solo l’obbedienza, tramite l’uso della forza, ma anche una sorta di interiorizzazione dello ‘spirito’ del fascismo e della personalizzazione del potere.

 

Il ‘ducismo’, come in Germania il principio dell’autorità assoluta del capo (Führerprinzip), costruì quel culto della personalità che fu un elemento fondamentale nel consolidamento del potere nel tempo. Esso si radicò tanto profondamente da dare segni di cedimento solo a partire dalla promulgazione delle leggi razziali per continuare con l’entrata in guerra e con il suo andamento riuscendo, tuttavia, a resistere addirittura post mortem.




Certamente in regimi come quello fascista e nazista non era facile dissentire apertamente con il sistema. Se il nesso repressione-consenso è stato più volte esaminato dalla storiografia tedesca, quella italiana ha registrato un notevole ritardo sia nell’affrontare questa relazione sia nell’allontanarsi dall’impostazione defeliciana che aveva sottaciuto il rapporto coercizione-consenso. Una delle conquiste del dibattito più recente è stato proprio il riconoscimento della inscindibilità del binomio consenso-strumenti repressivi. La paura di esporsi apertamente contro l’arresto di qualcuno o di assumere determinati atteggiamenti che dessero adito a sospetto di connivenza o solidarietà spinse molti ad assumere comportamenti di consenso passivo, accettazione forzata o indifferenza.

 

È anche vero che il regime fascista (come altri di tipo dittatoriale) fu espressione di un profondo e diffuso consentire su alcuni valori e idee presenti già nella società a prescindere dall’adesione politica, dall’approvazione di alcuni atti del governo o dalla simpatia per il dittatore.




Questa continuità del regime di Mussolini con alcuni paradigmi culturali e idee prefasciste ben radicate nella coscienza storica del Paese emersero con forza nel mondo industriale: la classe dirigente economica italiana, per esempio, manifestò il suo consenso al regime perché il fascismo accoglieva quel ‘patrimonio di idee sul mondo, e sull’economia in particolare, che [era] frutto di un’esperienza comune a uomini politici, economisti e dirigenti economici’. Quel retaggio culturale e ideologico radicato in Italia come il protezionismo o la trasformazione organicistica della società era stato accettato e fatto proprio dal fascismo trovando il consenso di buona parte dei ceti economici italiani, almeno finché reale fu la possibilità di un rafforzamento politico, militare e industriale del Paese e cioè fino alla primavera del 1943 quando l’imminente disfatta si fece sempre più evidente. Aderire al regime, e quindi all’economia di guerra, volle dire per molti andare incontro a vere e proprie opportunità di avanzamento sociale ed economico.





 Questo discorso, che qui è declinato al mondo industriale, può essere applicato anche ad altri gruppi sociali: alcune convinzioni culturali furono cavalcate dal regime che contò, al contempo, su una sorta di apatia, terreno fertile per il radicalizzarsi di pregiudizi trasversali ai ceti sociali, come a quelli sul bolscevismo.

 

Per spiegare il consenso non si può comunque escludere e minimizzare il verificarsi di veri e propri atteggiamenti entusiastici espressi da larghi strati della società, come quelli manifestati in occasione delle campagne di mobilitazione per le donazioni di oro. La politicizzazione delle masse (anche degli strati fino ad allora rimasti esclusi dalla politica) inquadrate nelle organizzazioni di regime, la fascistizzazione della società, il ruolo fondamentale del partito unico generarono episodi di sentita condivisione degli ideali fascisti.

 

(C. Poesio)

 







lunedì 29 maggio 2023

L' ISOLA DELL' ISOLATO

 










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In Memoria di 


G. Matteotti


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Loro 'ragione'








Nell’anima collettiva, le attitudini intellettuali, si annullano. L’eterogeneo si dissolve e i caratteri inconsci predominano. Questo patrimonio di caratteri ordinari ci spiega perché le folle non sono in grado di compiere atti che esigano una grande intelligenza. Le decisioni di interesse generale prese da un’assemblea di uomini illustri, ma di specializzazioni diverse, non sono molto migliori delle decisioni che potrebbero essere prese in una riunione di imbecilli.

 

In effetti, quegli uomini illustri sono in grado di associare soltanto le mediocri qualità da tutti possedute. Le folle non accumulano l’intelligenza, ma la mediocrità. Si ripete spesso che non tutti sono più spiritosi di Voltaire.




 Voltaire è certo più spiritoso di tutti se questi ‘tutti’ rappresentano la folla. Se gli individui in folla si limitassero a fondere le qualità ordinarie, otterremmo semplicemente una media e non, la creazione di caratteristiche nuove.

 

Come nascono queste caratteristiche?

 

Lo studieremo ora.

 

Diverse cause determinano la comparsa dei caratteri specifici delle folle. La prima è che l’individuo in folla acquista, per il solo fatto del numero, un sentimento di potenza invincibile. Ciò gli permette di cedere ad istinti che, se fosse rimasto solo, avrebbe senz’altro repressi.




 Vi cederà tanto più volentieri in quanto – la folla essendo anonima e dunque irresponsabile – il senso di responsabilità, che raffrena sempre gli individui, scompare del tutto. Una seconda causa, il contagio mentale, determina nelle folle il manifestarsi di speciali caratteri e al tempo stesso il loro orientamento.

 

Il contagio è un fenomeno facile da constatare ma non ancora spiegato, e da porsi in relazione con i fenomeni d’ordine ipnotico che studieremo tra poco.

 

Ogni sentimento, ogni atto è contagioso in una folla, e contagioso a tal punto che l’individuo sacrifica molto facilmente il proprio interesse personale all’interesse collettivo. Si tratta di un comportamento innaturale, del quale l’uomo diventa capace soltanto se entra a far parte di una folla.




Una terza causa, di gran lunga la più importante, determina negli individui in folla, caratteri speciali, a volte opposti a quelli dell’individuo isolato. Intendo parlare della suggestionabilità, di cui il contagio citato più sopra è soltanto l’effetto. Per comprendere tale fenomeno, dobbiamo tenere presenti alcune recenti scoperte della fisiologia.

 

Oggi sappiamo che un individuo può essere messo in condizioni tali che, avendo persola personalità cosciente, obbedisca a tutti i suggerimenti di chi appunto tale coscienza gli ha sottratta, e commetta le azioni più contrarie al proprio temperamento ed alle proprie abitudini. Orbene, osservazioni attente sembrano provare che l’individuo immerso da qualche tempo nel mezzo di una folla attiva cada – grazie agli affluvi che dalla folla si sprigionano, o per altre cause ancora ignote – in uno stato particolare, assai simile a quello dell’ipnotizzato nelle mani dell’ipnotizzatore.




Un individuo ipnotizzato, dato che la vita del suo cervello rimane paralizzata, diventa schiavo di tutte le attività inconsce, dirette dall’ipnotizzatore a suo piacimento. La personalità cosciente è svanita, la volontà e il discernimento aboliti. Sentimenti e pensieri vengono orientati nella direzione voluta dall’ipnotizzatore. Tale è press’a poco la condizione dell’individuo che faccia parte di una folla.

 

Non è più consapevole di quel che fa.

 

In lui, come nell’ipnotizzato, talune facoltà possono essere spinte a un grado di estrema esaltazione mentre altre sono distrutte. L’influenza di una suggestione lo indurrà con irresistibile impeto a compiere certi atti. E l’impeto risulterà ancor più irresistibile nelle folle piuttosto che nel soggetto ipnotizzato, giacché la suggestione, essendo identica per tutti gli individui, aumenta enormemente poiché viene reciprocamente esercitata.




Gli individui che in una folla siano dotati di una personalità forte per resistere alla suggestione sono troppo pochi e vengono trascinati dalla corrente. Al massimo potranno tentare una diversione con una suggestione diversa. Una parola ben scelta, un’immagine evocata al momento giusto hanno talvolta distolto le folle dagli atti più sanguinari. Annullamento della personalità cosciente, predominio della personalità inconscia, orientamento determinato dalla suggestione e dal contagio dei sentimenti e delle idee in un unico senso, tendenza a trasformare immediatamente in atti le idee suggerite, tali sono i principali caratteri dell’individuo in una folla.

 

Egli non è più se stesso, ma un automa incapace di esser guidato dalla propria volontà. Per il solo fatto di appartenere a una folla, l’uomo scende dunque di parecchi gradini la scala della civiltà. Isolato, era forse un individuo colto; nella folla, è un istintivo e dunque un barbaro. Ha la spontaneità, la violenza, la ferocia ed anche gli entusiasmi e gli eroismi degli esseri primitivi…




 Se attribuiamo alla parola moralità il significato di rispetto costante di certe convenzioni sociali e di repressione permanente degli impulsi egoistici, è evidente che le folle sono troppo impulsive e troppo mutevoli per essere sensibili ai problemi morali. Ma se nel concetto di moralità intendiamo far rientrare anche il manifestarsi momentaneo di certe qualità, come l’abnegazione, la dedizione, il disinteresse, il sacrificio di sé, il bisogno di giustizia, possiamo dire che le folle al contrario, sono a volte capaci di raggiungere una moralità molto alta.

 

I rari psicologi che hanno studiato le folle, lo hanno fatto soltanto dal punto di vista criminale, e, notando quanto i delitti collettivi siano frequenti, hanno attribuito alle folle un livello morale molto basso. Senza dubbio. Spesso è così.

 

Ma perché?




 Semplicemente perché gli istinti di ferocia distruttiva sono residui di età primitive assopiti nel fondo di ciascuno di noi. Per l’individuo isolato sarebbe pericoloso il soddisfarli; ma per l’individuo che si trova nel mezzo di una folla irresponsabile, dove l’impunità è assicurata, non ci sono ostacoli alla libertà di seguire quegli istinti.

 

Dato che attualmente non possiamo dare sfogo agli istinti distruttivi sui nostri simili, ci limitiamo a soddisfarli sugli animali.

 

La passione per la caccia e la ferocia delle folle derivano da una medesima fonte. La folla che fa lentamente a pezzi una vittima indifesa dà prova di una crudeltà codarda; ma non tanto dissimile, per il filosofo, da quella dei cacciatori che si radunano a dozzine per godere lo spettacolo di un povero cervo dilaniato dai cani. Se la folla è capace di uccidere, di INCENDIARE e di commettere ogni sorta di crimini, è pure capace di atti di sacrificio e di disinteresse molto più elevati di quelli che son di solito compiuti dall’individuo isolato.




 E’ soprattutto sull’individuo immerso nella folla che si può agire invocando sentimenti di gloria, di onore, di religione o di patria.

 

Non fu certo tale impulso che guidò le folle in tante guerre, di cui il più delle volte non intesero la ragione, e nelle quali si lasciarono trucidare come allodole ipnotizzate dallo specchietto del cacciatore.

 

Talvolta perfino i più incalliti furfanti, per il solo fatto di essere riuniti in folla, fanno propri i principii della più rigorosa moralità. La moralizzazione di un individuo per mezzo della folla non è certo regola costante, ma la si può osservare di frequente e perfino in circostanze molto meno gravi di quelle citate. In teatro la folla esige dal protagonista virtù esaltanti e il pubblico, anche se composto da individui inferiori, si mostra a volte molto rigoroso in fatto morale.


(Prosegue con la Seconda parte)







sabato 27 maggio 2023

VARCHEREBBERO LE PORTE CHE I MORTI VARCANO OGNI GIORNO (ovvero, Il racconto della Domenica)

  

    


                         

                            

               

 




Prosegue con...: 


taluni approfondimenti  


e un più che sincero ricordo










del 'Libero Arbitrio':  


G. Matteotti






 

Io credo nella pratica e nella filosofia di ciò che abbiamo convenuto di chiamare magia, in ciò che devo chiamare l’evocazione degli spiriti, per quanto ignaro di che cosa siano, nella facoltà di creare illusioni magiche, nelle visioni di verità presenti negli abissi della mente quando stiamo a occhi chiusi; e credo in tre precetti che trasmessi, come io ritengo, dai primordi sono alla base di quasi tutte le pratiche magiche. Questi precetti sono:

 

1. I confini della nostra mente si spostano di continuo e molte menti possono confluire l’una nell’altra, per così dire, e creare o rivelare un’unica mente, un’unica energia.

 

2. I confini della nostra memoria si spostano anch’essi e la nostra memoria fa parte di una sola grande memoria, la memoria della Natura stessa.

 

3. Questa grande mente e questa grande memoria si possono evocare mediante simboli.




Penso spesso che, ad averne il modo, respingerei questa credenza nella magia, perché ho finito per vedere o immaginare negli uomini e nelle donne, nelle case, nei prodotti dell’artigianato, in quasi ogni immagine e suono, un che d’iniquo, un che di brutto, dovuto al lento estinguersi nei secoli di una qualità della mente che aveva divulgato questa credenza e le sue testimonianze in tutto il mondo.

 

Non possiamo dubitare che le popolazioni barbare accolgano tali influenze in modo più palese e scontato, e con tutta probabilità in modo più facile e più pieno di noi, perché la nostra vita di città, che assorda o uccide la vita passiva e meditabonda, e la nostra cultura che sviluppa la mente separata e semovente, hanno reso la nostra anima meno sensibile.




La nostra anima, un tempo esposta nuda ai venti celesti, è ora pesantemente rivestita e ha imparato a costruire una casa e ad accendere un fuoco nel camino e a sbarrare porte e finestre. Certo, i venti possono farci avvicinare al fuoco o possono perfino sollevare il tappeto e fischiare sotto la porta, ma potevano far di peggio tanto tempo fa là fuori nella piana.

 

Un certo erudito, citato da Andrew Lang nel suo ‘The Making of Religion’, sostiene che i ricordi dell’uomo primitivo e i suoi pensieri su luoghi distanti avessero l’intensità dell’allucinazione, perché non aveva nulla nella mente a sviare l’attenzione – una spiegazione che non mi sembra esauriente –, e a riprova che i selvaggi vivono sempre sull’orlo della visione Lang passa a citare taluni viaggiatori.




Un lappone che voleva diventare cristiano e riteneva le visioni solo roba da pagani, confessò a un viaggiatore al quale aveva dato un minuzioso resoconto di molti avvenimenti lontani, letti senz’altro nella mente di quel viaggiatore, ‘che non sapeva come avvalersi degli occhi, dato che vedevano come presenti cose assolutamente lontane’.

 

Io stesso ho scovato in una sola zona di Galway solo un tizio che non avesse visto quelli che posso soltanto definire spiriti, ed era rimbambito.

 

‘Non c’è nessuno che falci un prato che una volta o l’altra non li veda’

 

…disse un tale di una zona diversa.




Se io posso involontariamente fare una malia, un incantesimo a persone della nostra epoca vissute per anni nelle grandi città, non c’è ragione di dubitare che si potesse fare intenzionalmente un ben più forte incantesimo, una ben più forte malia alle persone più sensibili dei tempi antichi, o che si possa ancora fare dove l’antico ordinamento della vita è rimasto inalterato.

 

Perché lo studente zingaro non avrebbe dovuto affatturare gli amici?

 

Perché san Patrizio, o colui del quale per primo si raccontò la storia, non avrebbe dovuto passare davanti ai nemici, lui e tutti i suoi chierici, come una mandria di cervi?

 

Perché nella Morte d’Arthur incantatori come lui non avrebbero dovuto far sembrare i branchi di cavalli soltanto pietre grigie?




Perché i militi romani, pur venendo da una civiltà che ormai non era quasi più sensibile a queste cose, non avrebbero dovuto tremare per un attimo davanti agli incantesimi dei druidi di Mona?

 

Perché il padre gesuita o il conte di Saint-Germain o chiunque del quale per primo si raccontò la storia non avrebbe dovuto lasciare all’apparenza la città su un tiro a quattro da tutte e Dodici le Porte contemporaneamente?

 

Perché Mosè e i maghi del faraone, come gli stregoni di molti popoli primitivi con i loro vecchi pezzi di corda, non avrebbero dovuto far sembrare i loro bastoni serpenti divoratori?

 

Perché quel mago medioevale non avrebbe dovuto far sembrare che l’estate esplodesse in pieno inverno con tutti i suoi fiori?




Non sarà il caso un giorno d’imparare a riscrivere le nostre storie quando trattano di queste cose?

 

Chi oggi è uno scrittore avrà magari preferito in passato influenzare l’immaginazione degli altri in modo più diretto, anziché imparare il mestiere con carta e penna si sarà forse seduto per ore a immaginar se stesso ceppo, pietra e animale del bosco, fino a rendere le immagini così vivide che i passanti si limitavano a far parte dell’immaginazione del sognatore e piangevano, ridevano o correvano a suo piacimento.

 

La poesia e la musica non sono forse sorte, così pare, dai suoni provocati dagli incantatori per aiutare l’immaginazione ad incantare, affascinare, legare con un sortilegio se stessi e i passanti?




Proprio queste parole, una parte importante di ogni elogio della musica e della poesia, ci gridano tuttora la loro origine.

 

E come il musicista o il poeta incanta, ammalia e lega con un sortilegio la sua stessa mente quando vuole incantare la mente altrui, così l’incantatore creava o rivelava per sé oltre che per gli altri l’artista soprannaturale o il genio, la mente all’apparenza transitoria ricavata da molte menti, il cui operato vidi, o credetti di vedere, in quella casa di periferia.

 

E a quanto pare vegliava anche sulla porta di quelle menti meno transitorie, il genio della famiglia, il genio della tribù, o magari, quando aveva l’anima abbastanza potente, il genio del mondo.




La nostra storia parla di opinioni e scoperte, ma nell’antichità quando, come ritengo, gli uomini non staccavano mai gli occhi da quelle porte, la storia parlava di comandamenti e di rivelazioni. Essi guardavano al Sinai e ai suoi tuoni come noi guardiamo al parlamento e ai laboratori, con la stessa attenzione e pazienza. Noi non facciamo che lodare uomini nei quali la vita individuale è giunta a perfezione, mentre essi non facevano che lodare la mente unica, fondamento per loro di ogni perfezione.

 

Durante il suo fondersi e separarsi l’uomo vola qua e là, per così dire, da un gregge di morti ad un altro, sempre cercando i suoi simili, perché quando getta il suo travestimento diventa incapace di sopportare quel che non ha rapporto con il suo amore, sino al punto di impazzire fra le cose che sono troppo belle per lui…




Una volta vidi una giovane irlandese, appena uscita dall’educandato, in preda a una profonda trance, grazie però a una tecnica ignota a qualsiasi ipnotizzatore. In stato di veglia riteneva che la mela di Eva fosse di quelle mele che si comprano dal fruttivendolo, in stato di trance invece vedeva l’Albero della Vita con le anime tutte sospirose che si muovevano nei rami al posto della linfa e, tra il fogliame, tutti i pennuti e sul ramoscello più alto un solo uccello bianco con tanto di corona.

 

Tornato a casa presi dallo scaffale una traduzione di ‘The Book of Concealed Mystery’, un antico libro ebraico, e tagliate le pagine intonse incontrai questo passo che non credo proprio d’aver mai letto:

 

‘L’Albero ...è l’Albero della Conoscenza del Bene e del Male ...sui suoi rami dimorano gli uccelli e costruiscono il nido, le anime e gli angeli risiedono’.




Una volta vidi un giovane membro della Chiesa d’Irlanda, un bancario dell’Irlanda occidentale, piombare in una simile trance. Non dubito che anche secondo lui la mela di Eva altro non era che una mela del fruttivendolo, eppure vedeva l’albero e sentiva le anime sospirare attraverso i rami, e vedeva mele dal volto umano e, l’orecchio accostato a una mela, udiva all’interno un rumore come di milizie in lotta.

 

Dopo di che si allontanò dall’albero e pervenne ai margini dell’Eden, e lì si ritrovò non vicino a quel deserto studiato al catechismo, bensì in cima a una grande montagna, una montagna ‘alta tremila metri’. La cima, in antitesi con tutto ciò che sarebbe parso verosimile alla sua mente da sveglio, era un grande giardino cinto da mura. Anni dopo trovai un diagramma medioevale raffigurante l’Eden come un giardino cinto da mura su un’alta montagna.

 

Da dove venivano questi simboli complessi?




Né io né quel paio di persone presenti, né i veggenti, avevamo mai visto, ne sono convinto, la descrizione di ‘The Book of Concealed Mystery’ o il diagramma medioevale. Tenete presente che le immagini apparvero in un attimo, perfette in tutta la loro complessità.

 

Pur se è dato ipotizzare che i veggenti o che io stesso o un altro avessimo in effetti letto di queste immagini per poi dimenticarcene, o che la conoscenza soprannaturale dell’artista di quanto era sepolto nel nostro ricordo spiegasse tali visioni, altre innumerevoli visioni restano da spiegare.

 

Non si può continuare a credere all’infinito in una conoscenza inverosimile. Nel mio diario trovo per esempio che in data 27 dicembre 1897 un veggente, al quale avevo dato un antico simbolo irlandese, vide Brigid, la dea, ostendere ‘un serpente lucido e guizzante’, eppure ho la certezza che né io né lui sapevamo alcunché del rapporto di lei col serpente fino alla pubblicazione, pochi mesi fa, dei Carmina Gaedelica.




 Una vecchia irlandese che non sa né leggere né scrivere mi ha descritto una donna vestita come Diana, con tanto di elmo, gonnellino e sandali e quelli che avevano l’aria d’essere coturni. Come mai fra tutti i racconti di visioni che ho raccolto in Irlanda, o che un’amica ha raccolto per me, non ce n’è uno che metta assieme abiti di epoche diverse?

 

I veggenti, quando parlano soltanto a partire dalla tradizione, mettono tutto assieme e parleranno di Finn mac Cumhal che si reca alle Assise di Cork. Quasi chiunque si sia mai occupato di certe cose ha incontrato, in trance o in sogno, qualche nuovo e strano simbolo o episodio, che poi ritroverà in un’opera che non aveva mai letto né mai inteso menzionare.




Esempi come questo sono a tutt’oggi troppo poco classificati, troppo poco analizzati per convincere il profano, ma per chi ne ha fatto esperienza bastano a provare….

 

….che c’è una memoria della Natura in grado di rivelare episodi e simboli di secoli remoti.

 

I mistici di svariati paesi e in svariati secoli hanno parlato di questa memoria; e gli uomini onesti decisi a mantenere le tradizioni magiche, che un giorno saranno studiate come elementi del folklore, basano su questa memoria la maggior parte delle loro affermazioni di un certo peso. Ne ho letto nel Paracelsus di Browning e in un libro indiano che descrive la gente di un tempo come tuttora viva all’interno di tale memoria, ‘pensando i pensieri e compiendo le azioni’. E l’ho trovata nei ‘Libri profetici’ di William Blake, che chiama le immagini da questa prodotte ‘le sculture luminose della Sala di Los’; e sostiene che tutti gli avvenimenti, ‘tutte le storie d’amore’, traggono rinnovamento da quelle immagini.

 

Forse è bene che vi credano in così pochi perché, se lo facessero in molti, molti lascerebbero parlamenti, università e biblioteche e accorrerebbero nel deserto per logorare il corpo e mettere a tacere l’anima inquieta, a un punto tale che, ancora in vita, varcherebbero le porte che i morti varcano ogni giorno; perché chi tra i saggi si prenderebbe la briga di far le leggi o di scrivere la storia o di soppesar la terra se le cose dell’eternità sembrassero a portata di mano?

 

(W. B. Yeats)