CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

mercoledì 31 ottobre 2012

IL RISVEGLIO DEL MORTO NEL MONDO DEI FOLLI































Prosegue in:

il genio

e (la loro) follia







........Poiché il delirio è il sogno delle persone deste........
bisogna strappare coloro che delirano a questo dormiveglia, richiamarli
dalla loro veglia fantastica, abbandonata alle immagini, a una veglia au-
tentica, nella quale il sogno si cancelli davanti alle figure della percezio-
ne.





















Questa struttura di irruzione della veglia è una delle forme più costanti
tra le terapeutiche della follia.
Essa assume talvolta gli aspetti più semplici, i più carichi di immagini e
insieme i più accreditati di poteri immediati. Si ammette che un colpo
di fucile sparatole da vicino abbia guarito una ragazza dalle convulsioni
ch'ella aveva contratto in seguito a un violento dispiacere.
Senza giungere fino a questa realizzazione immaginaria dei metodi del
risveglio, le emozioni improvvise e vive ottengono lo stesso risultato.
In questo spirito Boerhaave ha operato la sua famosa guarigione dei
convulsari di Harlem.



















Nell'ospedale della città si era diffusa un'epidemia di convulsioni.
Gli antispasmodici, somministrati in forti dosi, rimangono senza effet-
to.
Boerhaave ordinò 'che si portassero alcune padelle piene di carboni
 ardenti e che vi si facessero arroventare dei bastoncini di ferro di una
certa forma; poi disse ad alta voce che, poiché tutti i metodi usati fino
allora per guarire le convulsioni erano stati inutili, ormai non conosceva
altro che un rimedio da usare, e cioè bruciare fino all'osso con un ferro
arroventato una certa zona del braccio della persona, ragazzo o ragaz-
za che avesse un attacco della malattia convulsiva'.



















Più lento, ma anche più certo della verità a cui introduce, è il risveglio
che deriva dalla saggezza stessa e dal suo cammino incessante, impe-
rativo, attraverso i paesaggi della follia.
A tale saggezza, nelle sue diverse forme, Willis chiede la guarigione
della follia.
Saggezza pedagogica per gli imbecilli.
'Un maestro zelante e devoto deve educarli completamente'; bisogna
insegnar loro, a poco a poco e molto lentamente, ciò che si insegna ai
ragazzi nelle scuole.



















Saggezza che si modella sulle forme più rigorose e più evidenti della
verità (cristiana), per quanto riguarda i malinconici: tutto quanto c'è di
immaginario nel loro delirio si dissiperà alla luce di una verità incontesta-
bile (cristiana); per questo 'gli studi matematici e chimici' sono loro così
vivamente raccomandati.
Quanto agli altri, la saggezza di una vita ben ordinata ridurrà il loro de-
lirio; non c'è bisogno d'imporre loro una verità diversa da quella della lo-
ro vita quotidiana; restandosene a casa, 'devono continuare a occuparsi
dei propri affari, a governare la famiglia, a tener ordinata e a coltivare
la proprietà, giardini, frutteti e campi'.



















Ma solo l'esattezza di un ordine sociale imposto dall'esterno, e, se è ne-
cessario, con la forza, può riportare progressivamente lo spirito dei ma-
niaci alla luce della verità:
'Per questo l'insensato, posto in una casa speciale, sarà trattato, sia dal
medico che dagli assistenti, in modo tale che si possa sempre conservar-
lo nel suo dovere, nel suo buon comportamento e nei suoi buoni costumi,
con avvertimenti, rimostranze, e punizioni subito inflitte'.
A poco a poco, lungo l'età classica, questo risveglio autoritario della fol-
lia perderà il suo significato originario, limitandosi a non essere più che
una rammemorazione della legge morale, un ritorno al bene, una fedeltà
alla legge.



















Ciò che Willis interpretava ancora come riallacciamento alla verità, non
sarà più del tutto compreso da Sauvages, che parlerà di lucidità nel rico-
noscimento del bene:
'Così si può richiamare alla ragione coloro che l'hanno perduta a causa
dei falsi principi della filosofia morale, a patto che vogliano esaminare
con noi quali siano i veri beni, quali siano quelli che bisogna preferire a-
gli altri'.
Il medico non dovrà già più agire come lui che risveglia ma come morali-
sta. Tissot pensa che, contro la follia, 'una coscienza pura e irreprensibile



















è un eccellente profilattico'. Ed ecco ben presto Pinel, per il quale il risve-
glio alla verità non ha più senso nella guarigione, ma solo ne hanno l'obbe-
dienza e la cieca sottomissione:
'Un principio fondamentale per la guarigione della mania in un gran nume-
ro di casi consiste nel ricorrere anzitutto a un'energica repressione e poi
alla benevolenza'.
(M. Foucault, Storia della follia; libro consigliato Diario di un guardiano)












lunedì 29 ottobre 2012

DOVE ESISTE UN CADAVERE PIU' BELLO?

































Precedenti capitoli:

tempeste di neve (eretici di montagna) &

dispersi sui monti:

Prosegue in:

io porto i reggicalze





























Mallory ha avuto cinquant'anni di pace e all'improvviso deve di nuovo
abituarsi al rumore e all'agitazione febbrile.
Da quando Wang Kow Po lo vide per la prima volta, un numero sempre
maggiore di uomini è salito lungo la cresta nord. Dal 1980 l'Everest è e-
saurito fino all'ultimo posto, dapprima solo da sud, poi anche a nord.
In precedenza c'era stato solo un unico appiglio riguardo alla scompar-
sa di Mallory e Irvine - la piccozza che Wyn Harris trovò nel 1933 ven-
ti metri sotto la cresta nordest e circa 230 metri a ovest del primo gra-
dino.
Ora si suppone che i dispersi siano di certo nella conca sotto la cresta
della cima ma non si cercano nella stagione sbagliata, come fece Tom
Holzel nel 1986.




















Come possono pensare di trovarmi dopo il monsone?
So che quell'americano, Tom Holzel, ci ha provato.
Ma in settembre e ottobre sul monte Everest c'è ancora troppa neve.
Per 75 anni il mio destino è lo stesso di questa montagna, del paesag-
gio montano, dell'Himalaya. Neppure gli eserciti che nel 1975 giunsero
dalla Cina e nel 1980 dal Giappone continuarono a cercarmi.
Poi iniziò il periodo dei primati: la prima traversata, la direttissima
verso la cima, la prima discesa con gli sci.


























Immaginatevi il secondo gradino come trampolino!
Impraticabili per sempre, le mie vie!
Proviamo a immaginare: discesa dalla cima, slancio dal secondo gra-
dino, quindi a circa 8600 metri di altitudine, poi in aria, diagonalmente,
sul versante nord fino alla cresta innevata, con atterraggio a 7800 metri
e discesa fino al colle nord.
Buona fortuna!





















Non ci sono dubbi: la ricerca della via giusta è quasi finita, grazie agli
equipaggiamenti, che non conoscono più ostacoli, e alle direttissime
verso la cima. Per trent'anni l'uomo si è arrampicato lassù nell'oscurità
una dozzina di volte per esplorare, una dozzina di volte si è fermato,
senza speranze.
Oggi chi riesce ancora a immaginare che cosa significa la ricerca della
via senza sapere come procedere e come tornare indietro? In questo,
almeno, siamo superiori agli eroi moderni.
Poi giunse Hillary.
Quarantacinque anni dopo.
Ovunque giacciono le bombole per l'ossigeno, le vie sono segnate.
Malgrado tutto la paura degli ultimi 75 anni resta.


















La curiosità ci sospinge verso le 'regioni selvagge', al contrario dell'-
isterismo di oggi provocato dalla mania di assicurarsi. Per il viaggio
sacrificavamo ogni comodità, gli operatori turistici, invece, sacrifica-
no la sicurezza per il profitto. Questo tipo di esperienza di viaggio,
che offre tutto ciò che rappresenta una vacanza da borghese - pro-
tezione all'interno del gruppo, guida, comodità - sono di certo pse-
udo-avventure, ma non per questo meno pericolose!
La differenza fra una marcia estrema e i rituali di accertamento dei
turisti disorientati sta semplicemente nel fatto che questi non orga-
nizzano tali imprese solo per se stessi.
La discesa organizzata è stata civilizzata dal mondo civile.




















Eric Simonson e la sua squadra, nel 1999 decidono di cercare la
macchina fotografica, la Kodak a soffietto di Howard Somervell,
da questi imprestata a Mallory per la scalata verso la cima.
Non la trovarono.



















Tuttavia, già il primo giorno di ricerche concrete, il primo maggio
1999, l'americano Conrad Anker, un eccellente scalatore trova il
cadavere di Mallory. In un avvallamento sotto la cresta nordest, a
circa 8230 metri di altitudine, su una fascia inclinata di 30 gradi,
non molto lontano dal famoso campo VI del 924, proprio lì, dove
da sempre si pensava, giace un 'uomo di marmo'.



















Se le spedizioni di ricerca non hanno ricavato molto da me quan-
do ero in vita, ora, con la mia morte, potrebbero guadagnare un
mucchio di soldi.
Ne hanno bisogno (??).
Una spedizione di ricerca costa molto di più di un viaggio organiz-
zato sul monte Everest. E il ritrovamento ha anche un valore mag-
giore: basti pensare alla divulgazione della notizia, a un paio di re-
liquie e alle foto in rete.
Solo del volto morto non ero partecipe.
Immaginiamoci: occhi spenti e pelle vitrea.
Non fa per me.
Non mi sono guadagnato un monumento di marmo?



















....Non c'è alcun motivo di disturbarmi oltre, pensa Simonson.
Ma mi lasceranno in pace, i mercanti di oggetti sacri e i curiosi,
quelli arrivati troppo tardi e gli imititatori, che ora sanno bene
dove giaccio?
Dove esiste un 'cadavere più bello'?


























Una delle gambe di Mallory sembra fratturata, il resto del corpo
conservato in maniera sorprendente. Significa che Mallory ha lot-
tato fino a morire per lo sfinimento in mezzo alla tormenta di ne-
 ve, zoppiccando, strisciando, forse di notte, su rocce e nevai,
come un animale ferito?
Una caduta avrebbe ridotto il corpo in tutt'altro modo!
E gli occhiali da neve, un paio di occhiali da saldatore come si ve-
dono nei film storici sulla montagna, deve averli messi in una delle
tasche.



















Un segno che l'incidente è avvenuto durante la notte, nella nebbia
o in white-out?
Un fatto è certo: nel 1924 Mallory scese da lassù.
La domanda è da quale altitudine e da quale luogo precisamente.
Scese o non scese dalla cima?
In tal caso per chi sappia leggere fra le righe bisogna dire che 
tutte le informazioni sulla morte di Mallory, trasmesse a voce 
e dalla rete, sono e furono date dagli uomini............
(R. Messner, La seconda morte di Mallory)



  







   

giovedì 25 ottobre 2012

TITA PIAZ: ALLA CONQUISTA DEL CAMPANILE (il Diavolo delle Dolomiti)
































Precedenti capitoli:

Due clienti &

Paura di cadere











Ai primi di settembre del 1905 partii per la scalata del Campanile di Val
Montanaia assieme a Bernhard Trier di Francoforte e alla guida Obermul-
ler di Bludenz.
La nostra, se non erro, doveva essere la quarta salita.
























Il Campanile, la più strana individualità alpina che io conosca, 'il monte
più illogico' come lo chiamano i tedeschi, era stato vinto tre anni prima
da Wolf von Glanvell con Gunther von Saar dieci giorni dopo che essi a-
vevano assistito da una parete vicina al tentativo dei triestini Cozzi e
Zanutti, retrocessi a pochi metri di distanza dalla cuspide sommitale per
non aver indovinato la fase conclusiva, e dopo aver già superato le diffi-
coltà maggiori.
Così si ripeteva la disgraziata impresa italiana del Campanil Basso di
Brenta.
















Avevamo telegrafato a certo Luigi Giordani da Cimolais, che aveva ac-
compagnato all'attacco del Campanile Paolo Hubel di Monaco ed il suo
compagno per la seconda scalata.
Egli doveva aspettarci a Pieve di Cadore, ma là di lui nessuna notizia.
Così proseguimmo fino a Domegge, ove si apre la valle del Tuoro e
scendemmo all'albergo Belvedere. Se avessimo chiesto informazioni
sull'isola di Tromso invece che sul Campanile di Val Montanaia e sul
gruppo dei Monfalconi, non avremmo viaggiato peggio:
- Mai sentito nominare! A Domegge non abbiamo che un campanile
unico; e quello lo vedete in mezzo al paese!
- Come si chiama quella valle di fronte, al di là del Piave?
- La valle del Tuoro.
- E quel gruppo di montagne laggiù nello sfondo?
- Il Tuoro.
- E quel bel Campanile?
- Il Tuoro.
































Era inutile continuare le nostre investigazuioni di fronte ad una lista
così sconcertante di 'tuori'; ma arrischiammo un'ultima domanda:
- C'è un rifugio qualsiasi, una possibilità di pernottare vicino alle cro-
de?
- C'è la Casera del Toro.
- Vengono mai alpinisti da queste parti? Nel vostro albergo?
- Alpinisti? Volete dire Alpini? Quelli con la penna sul cappello? Sì,
anche ora c'è un reggimento che fa manovra fra Auronzo e Misurina.
La situazione diventava più amena che esasperante.
















Non posso negare che mi divertivo:
- Be', stasera restiamo da voi; e, dite, si potrebbe per caso avere
una guida?
- Subito,
rispose l'oste, e scomparve per tornare poco dopo con una cassetta
di vecchia ferraglia, tenaglia, martello, chiodi di diverse misure e ...
parecchi viti (guide) più o meno arrugginite.
- Ecco, signori, scegliete pure senza alcun riguardo.
Tabreau!















Desistemmo definitavamente dal rivolgere altre domande difficili al
nostro erudito albergatore, e ci limitammo a chiedergli di procurarci
un portatore il mattino seguente per portarci il bagaglio alla Casera
di Toro, ove si pensava di sistemarci per qualche giorno.
- Uomini no,
disse l'oste,
- perché sono tutti sul lavoro o emigrati, ma vi condurrò una ragazza
che per portare può careggiare con qualsiasi mulo.
Feci così conoscenza con la famosa Teresa, che volli immortalare con
una forcella e che a piedi scalzi portava mastodontici pesi da far rab-
brividire......

(Tita Piaz, A tu per tu con le crode)













martedì 23 ottobre 2012

ALLA 'GROTTA' CON I COSACCHI DELL' AMMIRAGLIO (il declino di Harbin)




























Precedenti capitoli:

una città drammatica Harbin &

Harbin 2 &

Olga Mikhailovna

Prosegue in:

le notti

bianche











Alle due di notte il colonnello Kracenski mi conduce in una taverna dell'-
Artilleriskaia.
Piove a dirotto.
La città è completamente al buio perché da otto giorni si stanno svolgendo
le grandi manovre giapponesi. Per una scaletta stretta, rigida e tutta sboc-
concellata scendiamo in un antica cantina nella quale un vecchio cosacco
di buona volontà e la sua donna hanno attrezzato una taverna notturna fre-
quentata dai residui dell'Armata Bianca della Siberia.
Il pavimento è stato arrangiato alla meglio con un po' di cemento.
Contro le pareti sono situati i tavoli, rozzi e pesanti, con intorno delle pan-
che da caserma. Il soffitto è basso ed affumicato. Da molti anni le pareti
sono state imbiancate e sono tutte piene di iscrizioni in russo, a lapis, a
carbone, a sugo di pomodoro.































Sono cognomi; evviva; insolenza; maledizioni; date di battaglia; nomi di
donne; nostalgie di luoghi e di amori.
Sulla parete di fondo un pittore ha abbozzato col carbone una vecchia
veduta di Pietroburgo coi ponti sulla Nevà e le cupole di Santa Sofia.
Un pianoforte male in arnese, finito quaggiù chissà come, è il mobile prin-
cipale del luogo. Un tipo altrettanto vecchio e scalcagnato quanto lo stru-
mento siede sopra una cassa vuota dinanzi alla tasteria e ne estrae balla-
bili nord-americani o musiche russe a seconda delle preferenze della clien-
tela.
Tutto è povero nella 'Grotta', come la chiamano, povero e piuttosto sudi-
cio, ma contigua allo stanzone principale vi è una piccola cucina dove la
moglie del cosacco confeziona una squisita cucina russa, quale è difficile
trovare altrove a Harbin; i prezzi sono estremamente modici e la vodka
è di buona qualità.






















Alla 'Grotta' sogliono raccogliersi la notte i cosacchi che non hanno son-
no, qualche legionario calmucco o kirghiso che è rimasto a Harbin coi
suoi compagni d'arme, cinque o sei colonnelli, due o tre generali, i musi-
ci dei 'dancings' di Harbin che sulle due chiudono i battenti, alcune don-
ne anziane che sono anch'esse macerie dell'Armata Bianca, varie ragaz-
ze giovani, amanti od amiche degli avventurieri cosacchi.
E vi fanno capo periodicamente tutti quei russi di Harbin che, maschi o
femmine, giovani o vecchi, con soldi o squattrinati, sentono una data se-
ra la nostalgia della vecchia Russia degli Czar e di Rasputin e sanno tro-
varla alla 'Grotta' con vodka e zabruski con musiche e canzoni, con alle-
grie chiassose e tristezze fonde.






















Ogni tanto vi fanno capolino i pochi capi sopravvissuti alla tormenta, il
vecchio generale Kislitzin, il filosofo Kunst, sicuri di trovarvi qualcuno
dei loro antichi battaglioni o, se non altro, dei cosacchi della loro stessa
pasta che hanno combattuto con Kolciak in Siberia, che hanno visto ca-
dere Resiukin alla battaglia di Gobi, che hanno condiviso col barone
Unzern-Stenberg i fastigi dell'effimero Regno cosacco di Mongolia che
comunque hanno battagliato agli ordini del generale Bialov, del generale
Dutov, del generrale Bakisc, del generale Kaigorodov, del generale Ka-
zanev, del generale Annekov, del bizzarro generale Kazagrandi di origine
lombarda, dei tanti altri improvvisati generali bianchi, morti in combat-
timento nelle steppe gelate della Siberia o fucilati dai tribunali rossi di Ir-
kutsk, di Novo-Nicolaievsk e di Troitskosavsk.
- Nottata calda!
mi dice il colonnello nel prendere posto all'unico tavolo ancora libero.
Il locale è infatti pieno di gente e di fumo.































Nell'atmosfera greve è sospeso un potente odore di tabacco, di alcole,
di olio bollente, di pesce in salamoia, di ascelle sudate.
Il pianista - una faccia alla Beethoven, ma scolorata e scarnita dai digiu-
ni - martella sul piano una canzonetta popolare russa che vari ubriachi
accompagnano dai tavoli canticchiando. In un angolo della vecchia dal
mento aguzzo e dalla pelle color sughero sgranocchia avidamente ceci
arrostiti ed ogni dieci, dodici ceci si fa il segno ortodosso di croce.
Alle pareti sono appese varie fotografie di generali russi in colbàc e pel-
liccia: ingiallite, affumicate, male incorniciate, preistoriche.
- Quello
mi dice il colonnello indicandomi un ritratto più grande degli altri,
- è l'ammiraglio Kolciak, capo di tutte le forze bianche della Siberia,
fucilato dai bolscevichi nel 1920 ad Irkustk.





















- Viva Kolciak!
grida qualcuno che ha inteso nell'ebrezza il nome dell'ammiraglio.
- Viva Kolciak!
Ed ancora della vodka per me!
- E' Ghisleief!
precisa il colonnello.
- Un valoroso che era aiutante di campo dell'ammiraglio. Aveva il grado
di capitano ed era un tipo in gamba. Oggi la vodka lo ha abbrutito.
Scoppia uno schiamazzo d'inferno in un angolo tra un gruppo di Kolcia-
kisti ed un gruppo di semionofisti. Tra Kolciak e Semionof i rapporti era-
no pessimi. La loro rivalità personale sopravvive alla loro morte, nei cuo-
ri e nelle ubbriachezze degli ex-dipendenti.
- Kolciak è stato tradito dal generale Sirowy!
urla un gigante biondo, tutto ciuffo, assestando un tremendo pugno al ta-
volo che vibra dolorosamente in tutti i suoi piatti sudici e le zuppiere vuo-
te.
- Sirowy?
chiedo.
- Il cecoslovacco?
- Sì
mi spiega il colonnello,
- Sirowy, l'ex Primo ministro di Cecoslovacchia. Egli è ben conosciuto
da noi. Comandava in Siberia la Legione ceca ed ha combattuto i bolsce-
vichi di Kolciak. I cosacchi non amavano i cechi i quali facevano la guer-
ra con troppa ferocia, bruciavano i villaggi, uccidevano donne e bambini.
Il ceco è un popolo feroce! Dove passavano i cechi seminavano il terrore
e ciò contribuì a farci perdere molte simpatie in Siberia, fra i russi e fra
i mongoli.
(M. Appelius, Al di là della grande muraglia)











venerdì 19 ottobre 2012

LA STRANA RIMA DELL' ERETICO (braccata dalla Genesi della 'loro' Storia) (14)




































Precedente capitolo:

la genesi 13

Prosegue in:

la genesi 15 &

la genesi 16







Il Testamento è racchiuso
entro la Genesi di un libro,
ove la forma del Primo Dio
diventa illusione della grande
Creazione,
di un Secondo Dio con ugual
e identica visione.
Secondo all'Ora del sogno
raccolto,
del Primo Dio ancora non scorto.
Inonda il sogno, illumina il pensiero,
intuito come un frammento sospeso.
Nell'attimo di dolore,
quando il Dio si fece materia.....,
ed imprigionò lo sguardo infinito
di un diverso amore
in mera illusione.
Divenne ricordo di un'altra
dimensione,
riflesso mai visto di ogni cosa
del Creato.
Libro mai letto di un grande
pensiero,
perché si fece Universo infinito
d'un sogno mai letto né intuito (e mai capito). (10, 72)

Son io che vago nel ricordo
di quel sogno mai morto.
Cerco la stella,
parlo con la nuda terra,
intono il canto,
scrivo la poesia,
bacio la rima,
conservo memoria....
di un'antica dottrina.
Del sogno ne fecero eresia
per essere riposta e nascosta
in un altra verità immonda.
Vuole il sogno solo incubo
fedele,
ad un Dio sconosciuto
al loro sonno così lieve.
Demone o diavolo,
non v'è differenza
in quella rima mai letta.
Dura una vita entro lo scrigno
d'un corpo prigioniero,
un'anima appena intuita,
e della materia
è l'intera disciplina.
Sostanza rivelata....
ciò che pensano vita svelata. (10, 73)

Son io che nascondo parola
e frammento,
nello scrigno prezioso
che vale più di ogni segreto.
Parole che mutano colore,
e dallo scrigno si elevano
per cercare nuovo amore.
Parole che s'alzano dal foglio
in un sogno mai morto.
Parole che danzano sopra
il papiro,
in un sospiro che dona
sorriso.
Perché vi è altra lingua
perfetta,
né vista né letta né udita,
e neanche capita.
Dona saggezza antica,
risveglia la rima,
resuscita la vita,
a chi l'ha vista portar via
in cima ad una collina.
In fondo ad una stiva,
sulla piazza antica,
nella cella buia,
nella grotta oscura.
In nome di una grande impostura....
e prematura sepoltura. (10, 74)

A chi è negata parola
per una vista al di sopra
della loro certezza.
A chi è negata difesa,
per un pensiero oscuro
nel Tempio.
Divora la vera promessa,
formula segreta chi la vita
non prega.
A chi è stato negato l'amore,
per un versetto blasfemo,
e il desiderio mai spento
di un prete,
perché mente perfino a se stesso.
A chi divora l'istinto per un vizio
di forma,
è nera sostanza che trasuda
preghiera,
e muta la voglia in oscura sentenza.
A chi cerca il tesoro nascosto,
una forma di vita mai estinta,
dona amore mista a
comprensione,
muta la litania in ricerca,
poi in lenta ossessione....
di una vita migliore. (10, 75)






















Nel grande teatro dove ogni ora
cantano le strofe di una recita antica,
per trasformare la rima in dramma,
il sole in dolore,
la vista in pura
illusione.
Sfera piatta senza accadimento,
solo ombra di morte e terrore,
figlia di un peccato originale
e di una mela che trasforma
la commedia,
in serpe che striscia sull'erba.
L'uomo un attore piange l'amore,
un desiderio nel palco già muto
e privo di sentimento,
mentre il Dio nascosto detta la battuta,
e vicino al sipario suggerisce la pena.
Dona al copione antico sudore,
una colpa mai commessa nella grande
tragedia. (13,13)

Lo spettatore ora è già assorto
nella preghiera,
una colpa mai commessa,
figlia di un purgatorio
poi di un paradiso
subito tolto.
Le messe sono contate e pagate
davanti all'altare,
nella certezza che trasforma
l'infamia in silenzioso pregare,
poi sicuro perdono,
per ogni anima privata
del suo corpo,
nella guerra in nome di un Dio....,
e il suo ricco tesoro. (13,14)
(Giuliano Lazzari, Frammenti in Rima)












giovedì 18 ottobre 2012

IL GIARDINO DELL' EDEN (11)





















































Precedente capitolo:

la genesi 10 

Prosegue in:

la genesi 12 &

la genesi 13






......Tranne che non c'erano progressi di ortografia..........


Uno dopo l'altro gli schiavi che Carothers McCaslin aveva ereditato
e comprato - Roscius e Phoebe e Thucydides e Eunice e i loro discen-
denti, e Sam Fathers e sua madre che aveva avuto in cambio di un
trottatore castrato mezzosangue dal vecchio Ikkemotubbe, il capo
Chickasaw da cui egualmente aveva comprato la terra, e Tennie
Beauchamp che il gemello Amodeus aveva vinto a poker da un  vi-
cino, e quell'anomalia di nome Percival Brownlee che l'altro gemel-
lo Theophilus aveva comprato, né lui né il suo fratello mai seppero
chiaramente perché, da Bedford Forrest quando era ancora un mer-
cante di schiavi e non il generale...(era una sola pagina, nemmeno
tanto lunga, non copriva un anno, anzi nemmeno sette mesi, e ini-
ziava con la grafia che il ragazzo aveva imparato a riconoscere  co-
me quella di suo padre):
































Percavil Brownly 26 a. commesso & Contabile. comprato da N.B.
Forest a Cold Water 3 Mar 1856 $265 dolari

....e più sotto, con la stessa grafia:

5 marz 1856 Macché contabile Non sa leggere. Il suo nome lo
scrive ma avevo già provveduto Io Dice che sa usare l'aratro
ma a Me mi sa di no. mandato sui Campi oggi 5 Marz 1856

....e nella stessa calligrafia:

6 Marz 1856 Non sa nemmeno arare Dice che vuole fare il
Pastore così magari può portare le bestie al Torente a Bere

....e questa volta era l'altra, la calligrafia che adesso riconosceva
come quella dello zio quando le vedeva tutt'e due sulla stessa pa-
gina:

Mar 23 1856 Nemmeno quello sa fare Tranne una alla Volta
Sbarazzarsene

....e la prima di nuovo:

24 Mar 1856 Chi diavolo se lo compra

.....e poi la seconda:

19 Apr 1856 Nessuno Ti sei bruciato la Piazza due mesi fa 
a Cold Water Mai detto vendilo Liberalo

.....la prima:

22 Apr 1856 Ci penso io

.....la seconda:

13 giu 1856 A 1$ l'anno 265$ 265 anni Chi firmerà i suoi
documenti di liberazione

.....poi la prima ancora:

1 Ott 1856 La mula josephine s'è Rotta la Zampa & abbat-
tuta Stalla sbagliata negro sbagliato tutto $100 dolari

...e la stessa:

2 Ott 1856 Liberato Addebitare McCaslin & McCaslin $
265 dolari

e la seconda ancora:

3 Ott Addebitare Theophilus McCaslin Negro 265$ Mula
100$ 365$ Ancora non se ne è andato Se ci fosse Papà...

....e poi la prima:

3 Ott 1856 Quel figlio di puttana non se ne va Che fareb-
be papà......
(Faulkner, Go Down, Moses; L'orso) 








domenica 14 ottobre 2012

L'ORDINE DIVINO


































Precedenti capitoli:

la genesi 1 &

la genesi 2

la genesi 3

la genesi 4

la genesi 5

la genesi 6

la genesi 7

Prosegue in:

baculus daemonum &

le vittime


























La - Genesi - ci racconta la storia sacra di come siamo giunti al dominio totale
su tutto l'esistente.
I passaggi in questione vengono citati lungo l'intero arco della narrazione come
la Legge e il Verbo, a cui viene conferita una santità che li esime da ogni possi-
bilità di essere invalidati o rifiutati. Per ben tre volte Dio concede agli umani il
- dominio - sulla creazione; la supremazia dell'uomo sulla natura riflette esplici-
tamente la volontà del - creatore -.
Questa è la più fondamentale tra tutte le credenze della religione occidentale,
dato che la storia della - Genesi - è contenuta in tutti i libri sacri dell'Occidente:
la Torà, la Bibbia e il Corano.
Le tre religioni occidentali sono come le gambe di uno sgabello, l'ideologia del
dominio ne è la seduta. E' innegabile che i libri dell'Occidente contengano anche
diversi passaggi circa l'attenzione dovuta agli animali e la necessità di un loro
trattamento umano, e che molti leader religiosi, nel tentativo di smussare gli
spigoli più aguzzi dell'ideologia del dominio contenuta nella - Genesi -, abbia-
no sottolineato come la supremazia dell'uomo sia solo parziale.
Un esempio è fornito dalla - Presbyterian Animal Welfare Task Force -, un
gruppo di studio costituito nella metà degli anni Ottanta da una congregazione
di chiese di un'area del Midwest con un'economia basata sull'allevamento di
mucche, maiali e pecore. In quanto cristiano, i partecipanti al gruppo studio
non hanno derivato la loro visione morale dall'etica laica e filosofica, ma dalla
 -Bibbia -. 'La nostra morale si basa sul tentativo di conoscere e realizzare la
volontà di Dio'.
In poche parole, il rapporto redatto dal gruppo è un'analisi delle affermazioni
bibliche circa l'utilizzo, la cura e il trattamento degli animali. Dopo aver ricorda-
to i passi della - Genesi - dove viene accordato all'uomo il dominio su tutti gli
esseri viventi, gli autori concludono sostenendo che le forme di vita sono ordi-
nate secondo una scala gerarchica con l'umanità al vertice, nel punto più vici-
no a Dio.
E' importante capire l'origine della - Genesi -, dove i suoi autori hanno ricava-
to le idee portanti, che tipo di trasformazione economiche e sociali stavano av-
venendo in quelle regioni del mondo in grado di alterare le condizioni di vita al
punto da costringerle a sviluppare miti atti a spiegarne l'esistenza.
Una cosa è certa: la -Genesi - non è stata scritta da Dio, ma da uomini, uomi-
ni reali che vivevano in città reali del Medio Oriente in un periodo storico altret-
tanto reale.
Gli estensori della - Genesi - non erano più vicini a Dio di qualsiasi altro religio-
so vissuto in qualsiasi luogo e in qualunque periodo storico. Le loro idee e le
loro prospettive non erano dettate da Dio più di quelle di uno sciamano sioux
della tribù Oglala o di un druido celtico.
Il sistema religioso proposto dagli estensori della Bibbia non era necessariamen-
te migliore per l'umanità di quello dei Nuer del Nord Africa o degli Aranda dell'-
Australia Centrale. Continuare a pensare che le cose non stiano così. significa
persistere in una forma di arroganza etnica, che altro non è che una manifesta-
zione di fanatismo.
Gli autori della -Genesi - misero semplicemente per iscritto, sulla carta pecora,
ciò che era stato tramandato oralmente per secoli: le storie, le leggende e i mi-
ti che erano stati narrati in generazioni in versi, canti e cerimonie. I popoli si
muovevano da un luogo all'altro da un luogo all'altro e storie e miti si spostava-
no insieme a loro.
Frammenti di un mito o di una raccolta della creazione migrarono così da una
tribù, o da una religione, ad altre. E' possibile perciò, che con il passare del
tempo alcuni miti, quelli fondamentali, venissero adottati da società distribuite
su un'area molto estesa. In seguito tali miti sarebbero diventati una religione.
Così dopo secoli di tradizione orale con conseguente produzione e riadattamen-
to di miti, comparve la scrittura. I capi religiosi si impegnarono subito a mettere
per iscritto le credenze religiose dominanti, quelle che erano state seguite per
secoli o, meglio, per millenni.
Si ritiene che la scrittura sia comparsa intorno al 3.000 a.C. con i Sumeri, che
vivevano in quella regione che è oggi il Kuwait. La storia scritta, quindi, è di
soli 5.000 anni; tutto ciò che la precede è preistoria, pre-scrittura. A causa del-
la considerazione che attribuiamo alla storia e ai documenti scritti, tendiamo a
dare un'importanza eccessiva ai documenti antichi e, tra questi, soprattutto ai
testi sacri; siamo portati a considerarli come la sorgente, l'origine e il principio
della civiltà. Così facendo, però, ci allontaniamo da tutta la cultura e l'evoluzio-
ne umane che ebbero luogo prima della comparsa della scrittura.
(J. Mason, Un mondo sbagliato)













sabato 13 ottobre 2012

CONTRA GALILAEOS































Precedente capitolo:

la mela &

la mela 2







Paragona a questi la dottrina giudaica, il giardino piantato da Dio,
Adamo da lui plasmato e quella era la sua donna.
Dio dice:

Non è bene che l'uomo sia solo; creiamogli un aiuto che gli as-
somigli

che non l'aiutò affatto, ma lo ingannò e fu causa per lei stessa e per
lui della cacciata dalle delizie del giardino.
Questa è pura favola.
Come può infatti essere logico che dio ignori che l'essere che egli fa
nascere come aiuto sarà un male piuttosto che un bene per chi lo ri-
ceve?
Ma perché insomma ha anche dato una legge ed ha proibito qualche
cibo?
Ha infatti permesso di mangiare da ogni albero, eccetto solo che da
quello che stava al centro del giardino. Se non ci fosse stata una pre-
cisa prescrizione, non ci sarebbe stato peccato.
E se Dio è buono, perché ha punito?
Infatti il serpente che parlava ad Eva in quale lingua diremo che si e-
sprimesse, umana forse?
Qual'è dunque la differenza che separa tale tipo di dottrina dai miti
inventati dai Greci?
E il fatto anche che Dio neghi agli uomini, sue creature, la capacità
di distinguere il bene e il male non è il colmo della stranezza?
Quale essere più sprovveduto potrebbe infatti esistere di chi non è
in grado di distinguere il bene dal male?
E' chiaro che non eviterebbe l'uno, cioè il male, e non cercherebbe
di avere l'altro, cioè il bene.
Insomma, Dio ha impedito all'uomo di gustare dell'intelligenza, di cui
non può esistere bene più prezioso per l'uomo. Che infatti la capacità
di distinguere il bene e il male è prerogativa dell'intelligenza è chiaro
anche per gli stolti.


























...Dio è inoltre presentato come malvagio...
Infatti quando vide che l'uomo era dotato di intelligenza, perché non
gustasse, dice, l'albero della vita, lo cacciò via dal giardino, dicendo
testualmente:

Ecco, Adamo è divenuto come uno di noi, nel distinguere il bene 
e il male. Che non stenda più ora la mano e colga dall'albero del-
la vita e ne mangi e vivrà in eterno. E lo cacciò il signore Dio dal 
giardino delle delizie.

Ora ciascuno di questi racconti, nel caso che non sia, come è mia
convinzione, un mito dal significato, è una vera offesa per la divinità.
Infatti l'ignorare che colei che veniva fatta nascere come aiuto avreb-
be provocato la caduta, il negare la conoscenza del bene e del male,
unico fondamento, a quanto sembra, della vita umana ed infine l'esse-
re geloso che l'uomo partecipe della vita divenisse da mortale immor-
tale sono tutte caratteristiche di un essere estremamente invidioso e
malvagio!
(Giuliano Imperatore, Contra Galilaeos)









giovedì 11 ottobre 2012

IO POVERO PAGANO (3)














Precedenti capitoli:

io povero pagano 2 &

io povero pagano









Quando le braccia gli crollarono per la fatica e ubriaco di stanchezza sentì la
testa che gli girava, Ivan scese dall'albero e si coricò nella neve.
Tutto taceva attorno a lui.
Solo il fischio del vento faceva stormire il bosco.
Allora, nel buio che si stringeva sempre più, Ivan rivide il bambino.
Da tanto tempo non veniva a trovarlo. Come aveva fatto a seguirlo fin lì?
Ivan avrebbe voluto chiederglielo. Ma sapeva che gli spiriti non possono par-
lare. Bisogna guardarli a lungo in silenzio per capire cos'hanno da dire.
Ivan pensò alla foresta lontana, alla sassaia in cima al torrente, alla sua gente
prigioniera d'un altro mondo.
Non avrebbe dovuto abbandonarli.
Avevano bisogno di lui.
Olga gli aveva promesso che lo avrebbe riportato a casa.
Ma dov'era Olga?





















Perché lo aveva abbandonato in quella città cattiva? E dov'era la grande, an-
tica tribù di cui era fratello?
Ivan sentì smarrita per sempre la strada che dai boschi saliva oltre il lago fino
alla tundra, fino alle cime rotonde della Byrranga, che hanno il profilo d'una
testa di cervo e due spuntoni di roccia come orecchie di lepre.
La terra dove per poco tempo era stato felice, dove l'ombra di suo padre lo
accompagnava sempre, prendendo le forme di un albero o di un orso silenzio-
so e la sua voce gli parlava direttamente nel cuore.
Nuove raffiche d'un vento più forte arrivavano dal largo.
L'immensità del mare era un deserto opaco, ma una liquida luce si sprigionava
a tratti dalle creste vitree delle onde.
Il bambino era scomparso.
Ivan adesso sapeva cosa era venuto a dirgli.
Doveva tornare indietro. Prima che fosse troppo tardi, prima che la voce della
sua gente sprofondasse per sempre nell'ululato dei lupi.






















Accoccolato contro il tronco del pino, Ivan aspettò che fosse buio pesto.
Forse dormì, forse svenne per la stanchezza. Lo risvegliò un rotolio di frantu-
mi ghiacciati.
La bufera s'era placata.
Il vento del Nord aveva scacciato le nubi e ora l'aria era limpida.
Lontano, oltre la striscia dura del mare, le luci della città scioglievano le tene-
bre in una pozzanghera verdastra. Ma dall'altra parte, verso il largo, il ghiaccio
intatto prendeva il colore del quarzo e subito affondava nell'oscurità più densa.
Un abisso di fragili stelle senza luce si era spalancato nel cielo e sembrava che
di là venisse l'alito gelido che paralizzava ogni cosa.
Ivan costeggiò il recinto e raggiunse le serre. Grattò sul vetro per vedere dentro,
ma era buio pesto. Più oltre c'era il ristorante. Alcune luci azzurre lungo i mu-
ri illuminavano le sedie deposte sopra i tavoli, la catasta degli ombrelloni e delle
sdraio ammucchiate contro la veranda.



























Ivan seguì la fila dei lampioni e vide in lontananza una finestra illuminata.
Con una mano nel sacchetto delle patatine, il custode seduto in poltrona beveva
da un barattolo di birra aspettando la partita di hockey alla televisione. Si era
tolto le scarpe, aveva appoggiato i piedi davanti alla stufa e sfregava piacevol-
mente gli alluci uno contro l'altro.
Ivan passò alla larga, evitò il fanale che illuminava l'entrata della guardiola e
sprofondò nell'ombra di un caseggiato basso. Spinse per caso una porta e si
ritrovò in un magazzino di attrezzi. Raccolse un'ascia, un coltello e alcune corde.
Infilò tutto nel suo sacco e uscendo prese anche gli sci di fondo che il custode
aveva messo al riparo dietro l'uscio.
Così equipaggiato tornò verso il recinto.
Ognuno era illuminato all'entrata da un piccolo faro.
Per primi liberò i lupi.



















Sentendo qualcuno avvicinarsi alla rete, non la smettevano di ululare.
Ma quando il catenaccio si aprì, corsero muti verso il cancello e si fermarono
intimoriti davanti a Ivan. Annusavano inquieti l'aria, come se temessero una
trappola. Abbassando le orecchie, scivolarono fuori di soppiatto. Non si
allontanarono subito.
Con la coda dell'occhio rimasero per qualche attimo a spiare il pagano rin-
ghiando.
Poi i loro fiati bianchi scomparvero nel buio.
I guanachi si muovevano in branco, e uno guardava per tutti. Scoprirono che
il cancello era aperto solo quando Ivan aveva già raggiunto il recinto dei panda.
Corsero fuori allungando il collo. Passarono fuori davanti alla finestra del custode
esitando perplessi prima di galoppare via verso il largo.
Quando Ivan spaccò il vetro del loro padiglione illuminato al neon, i babbuini
lanciarono un grido corale e scapparono tutti in cima all'albero spelacchiato che
cresceva nel centro del recinto.

















Davanti al recinto delle renne, Ivan si fermò.
Scelse in un'aiuola due giovani tronchi di betulla e li abbatté con l'ascia. Misurò
due lunghezze, ne fece due stanghe, le stese per terra e vi fissò sotto gli sci del
custode. Poi tagliò sei traverse più corte che legò alle stanghe con la corda per
fare una slitta. Con un ramo ricurvo costruì un collare da traino che attaccò al-
le due estremità dei tiranti.
Quando tutto fu pronto, aprì il cancello, scelse le due bestie più robuste e le
aggiogò alla slitta.
Caricò le sue cose, raccolse un lungo ramo sottile e ne ricavò una frusta .....e
le guidò verso la grande...foresta.....
(D. Marani, L'ultimo dei Vostiachi)