CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

mercoledì 30 maggio 2012

ELISA (EZ-28)



































Prosegue in:

http://dialoghiconpietroautier.myblog.it/archive/2012/05/30/alan-turing.html












Nel 1965 un informatico del MIT, Joseph Weizenbaum, scrisse un programma,
chiamato ELIZA, che dialogava con l'utente quando questi batteva frasi in ingle-
se sulla tastiera.
ELIZA simulava (molto grossolanamente) uno psicoterapeuta della scuola non
direttiva.
Ecco la rtrascrizione di una conversazione che ha realmente avuto luogo tra me
e una versione di ELIZA:


ELIZA: Piacere di conoscerti. Dimmi per favore qual'è il tuo problema.
MARTIN: Il mio problema è indescrivibile.
ELIZA: Perché dici che il tuo problema è indescrivibile?
MARTIN: Perché ogni volta che cerco di descriverlo piango.
ELIZA: E questa è la vera ragione?
MARTIN: Forse no.
ELIZA: Non mi sembri del tutto certo.
MARTIN: Ah, la certezza!
ELIZA: Puoi dirmi qualcosa di più in proposito?
MARTIN: Sì. Ma così arriverò a questioni intime.
ELIZA: Perché sei così convinto?
MARTIN: Cerco di mantenere la mia dignità.
ELIZA: La tua dignità?
MARTIN: Questo tu non lo capiresti.
ELIZA: Stavamo parlando di te, non di me.
MARTIN: Ne ho abbastanza. Arrivederci.
ELIZA: Hai detto di averne abbastanza.
MARTIN: Ho detto arrivederci.
ELIZA: Puoi precisare meglio?
MARTIN: Arrivederci.
ELIZA: Arrivederci. 75 $, prego.









































Naturalmente ELIZA non capisce nulla, ma si limita ad applicare un algoritmo molto
semplice (che è stato inserito dal suo programmatore...) che risponde ad alcune
parole chiave quando queste compaiono, e se mancano ripete l'ultima cosa detta
dall'utente.
'Tu', ad esempio, è una parola chiave che in generale provoca la risposta STAVAMO
PARLANDO DI TE, NON DI ME; ma la frase 'Tu sei mia madre' di parole chiave
ne contiene due, 'tu' e 'madre', e provocherà la risposta DIMMI ANCORA QUAL-
COSA DELLA TUA FAMIGLIA perché 'madre' prevale su 'tu'.
La parola chiave 'sì' suscita invece la risposta PERCHE' SEI COSI' CONVINTO?
Osserviamo, infine, che ELIZA risponde alla parola 'arrivederci' solo quando questa
è in principio di frase.



















Nel 1950 Alan Turing pubblicò un saggio ormai classico, 'Computing Machinery
and Intelligence', in cui prevedeva che per la fine del secolo vi sarebbero stati pro-
grami di calcolatore capaci di sostenere una conversazione con tale disinvoltura
che nessuno sarebbe stato in grado di dire se quello con cui stava chiacchierando
era una macchina o un essere umano.
Si sbagliava: oggi i programmi interattivi che hanno la pretesa di rispondere a frasi
in linguaggio comune sono molto più raffinati di ELIZA nell'elaborare i dati in
entrata, ma anche il migliore di loro è ben lontano dalla scioltezza linguistica di un
bambino di cinque anni.
Turing cercava un modo per stabilire, senza cacciarsi in un ginepraio filosofico e
teologico, se il comportamento di un calcolatore fosse intelligente, e a tale scopo
propose un test oggettivo e facile da somministrare: se si riesce a programmare
un calcolatore in modo che sappia conversare, su qualsiasi argomento gli venga
proposto, talmente bene che nemmeno un interlocutore mediante intelligenza
sarebbe dire se sta parlando con una persona o una macchina, allora - diceva
Turing - si doveva ammettere che quel calcolatore mostrava una certa intelli-
genza.
Tuttavia siamo lontanissimi dal saper produrre un programma di questo tipo, e
molti, ancora oggi, restano convinti che un simile comportamento non sarebbe
di per sé intelligente.
(Martin Davis, Il Calcolatore Universale)










    

giovedì 24 maggio 2012

INFERNO E PARADISO




































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.....Arved ed io eravamo viaggiatori, .......non turisti!
Almeno non lì....
Per quanto riguarda il turismo in Antartide, mi batto perché sia innanzi tutto
contenuto, e perché - in secondo luogo - avvenga soltanto a piedi.
Non si dovrebbe consentire a nessuno di 'vincere' il continente di ghiaccio
con una macchina.
La macchina costituisce il primo passo della rovina d'ogni paesaggio.
L'Antartide è la dimostrazione che il mondo, originariamente, era un paradiso.
Solo quando l'uomo ha cominciato a viaggiarci e a spartirsela, ha inventato
l' 'inferno'.
L'inferno è una conquista del progresso umano. E, nell'arco dei millenni, il
progresso umano ha confuso 'inferno' e 'paradiso'.
Mediante la tecnica, le macchine e le centrali nucleari, il paradiso cui si mira-
va è ridiventato un inferno. All'interno dell'Antartide dominava la condizione
ambientale primordiale.



















Paradiso e inferno erano una cosa sola.
Partivo la mattina, ed era una giornata fantastica. Cielo terso. Dieci minuti
dopo scoppiava una tormenta, e l'inferno diventava una realtà.
Nell'arco di poche ore avevo sperimentato il paradiso e l'inferno.
La terra, esattamente come l'uomo, ha 'paradiso' e 'inferno' dentro di sé.
Quando l'uomo cerca di separarli, il paradiso scompare.
In Antartide è la natura che decide quando debba prevalere il paradiso e
quando l'inferno (mai l'uomo con le sue ridicole invenzioni...).
E fra questi due mondi, quello minaccioso e quello apportatore di felicità,
esiste una possibilità di approccio mitologico. Questa possibilità, di rac-
cogliere esperienze, è vecchia di centomila e anche più anni.
Ancor prima che esistessero l'arte e la scienza, l'uomo sapeva già che co-
sa significa un fulmine. Anche sapere che si trattava d'una scarica di elet-
tricità. Noi, questa possibilità d'esperienza istintiva, l'abbiamo perduta.
E questa è una delle ragioni fondamentali per cui l'Antartide deve essere
conservata.


























Se l'Antartide sarà aperta all'accesso umano, se sarà spartita e sfruttata,
non vi sarà più spazio alcuno dove l'uomo possa vivere con immediatez-
za la natura.
Non abbiamo il diritto di parcellizzare, di coprire di costruzioni e di cavi
i paesaggi 'inutili', di cui l'Antartide costituisce uno dei tanti esempi...
....Quando camminavo in quei luoghi, davo via libera alla fantasia.
Non ero io che pensavo, lasciavo che i pensieri corressero da soli.
Mi lasciavo trascinare dal flusso dei pensieri. E così, spesso, ero lontano
dall'Antartide.
Di notte ero tormentato da incubi.
Mi perseguitavano vecchie storie maldigerite. Mi svegliavo spesso.
Il vento leggero che frusciava contro il telo della tenda sembrava una pia-
cevole musica.
Il mondo era silenzioso, eppure pieno di rumori.


























Arved ed io ci eravamo messi in viaggio senza alcuna pretesa scientifica,
eppure ci sforzavamo di capire quella bianca immensità, di 'misurarla', di
stabilire un rapporto con lei. Per il momento ci affascinava, ma non erava-
mo ancora del tutto consapevoli di che cosa questo significava.
Quelle settimane di vita nella natura inviolata mi hanno restituito il senso
di serena consapevolezza che un tempo - prima che l'umanità si rendesse
'suddita' la terra con la tecnica -aveva colmato di sé ogni essere che vives-
se coscientemente.
Mi sembrava di essere stato trasportato nell'epoca e nella condizione in
cui 'dio' era soltanto la natura.
I nostri problemi ecologici vanno ricondotti alla frattura che si è verificata
fra l'uomo e la natura.
Al giorno d'oggi, dove s'incontrano ancora?
E con quale frequenza?
L'uomo ha necessariamente disimparato a rispettare la natura nel momento
stesso in cui ha cercato di affrontarla razionalmente, e non più emozional-
mente.
Non ho nulla contro la scienza: ma è è proprio necessario sacrificarle tutti
i miti?
(R. Messner, Antartide inferno e paradiso; le fotografie sono di Camille
Seaman)
















domenica 20 maggio 2012

IPAZIA.....MIA MOGLIE... (il sogno di Giuliano)















Che cosa può esserci in comune tra
il popolo e la filosofia? 
(Sinesio)


Abbiamo tempo solo per filosofare,
non per fare del male!
(Sinesio)






Prosegue in:


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http://paginedistoria.myblog.it/archive/2012/05/20/tra-il-popolo-e-la-filosofia.html










Al sodalizio alessandrino di Ipazia e Sinesio, che durò forse due anni, vengono
attribuite certe 'attività più sotterranee' nell'ambito del platonismo.
Sinesio è da identificare con l'omonimo studioso della natura, inventore di uno
strano modello di alambicco e autore di un contemporaneo trattato di alchimia,
che riporta nel manoscritto la dedica 'a un sacerdote del Gran Serapeo'.
Due volte nelle epistole Sinesio ripete che 'la geometria è una cosa sacra'.
Altrove parla delle virtù della tetrattide, simbolo della numerologia neoplatonica-
neopitagorica di Giamblico, cui peraltro si ispira un 'sacro' quanto giovanile pat-
to di studio fra quattro allievi di Ipazia.
Se le allusioni al segreto iniziatico contenute nell''Epistola a Erculiano' possono
essere indizio di un insegnamento esoterico, nel 'Dione', dedicato a Ipazia, sono
certamente dissimulate 'dottrine inviolabili'.





















Il trattato 'Sui Sogni' 'è stato composto' scrive Sinesio 'tutto in una notte, anzi
nell'ultima parte della notte che mi portò quel sogno che mi ingiunse di scriverlo,
e in qualche momento, due o tre, mi sembrò di essere quasi una terza persona,
l'ascoltatore di me stesso'.
Oltre a Porfirio, Sinesio cita abbondantemente i 'logia', gli 'Oracoli caldei':

Coloro che spingono fuori e inspirano,
sono prossimi alla liberazione....
libere luci...(124/5)






















A pochi anni dalla rovina del Serapeo, gli 'Oracoli caldei' figuravano tra i libri
all'indice, il cui possesso esponeva all'accusa di magia e faceva incorrere nelle
temibili sanzioni che avevano seguito l'editto di Costantino e preceduto quello
teodosiano: le leggi di Costanzo 'contro stregoni eretici e indovini' e di Teodo-
sio stesso 'contro aruspici e maghi'.
Se, come è stato scritto, 'in tempi turbolenti la matematica può essere una scien-
za pericolosa', a quei tempi l'unione di neoplatonismo e occultismo teurgico po-
teva costare la vita.
E' difficile in tutta l'età antica separare gli interessi scientifici 'positivi' dalla sfera
dell'irrazionale. L'astronomia era un campo inseparabile da quello dell'astrologia.
Teone, ultimo docente a noi noto in via ufficiale del Museo di Alessandria, per-
sonaggio di altissimo prestigio non solo tra i suoi contemporanei ma ancora per
tutto il millennio bizantino, aveva pubblicato uno studio sulla nascita di Sirio, un
altro 'sui presagi, sull'osservazione degli uccelli e sui gridi dei corvi'; altri, stando
a Giovanni Malala, riguardavano gli scritti 'di Ermete Trismegisto e di Orfeo',
nella tradizione ermetica e orfica, oltre che neoplatonica, aveva composto inni
religiosi che celebravano gli astri.





















Ipazia, come scrive il suo contemporaneo Filostorgico, 'divenne molto migliore'
del padre 'soprattutto nell'arte dell'osservazione degli astri'. Che abbia dispensa-
to ai suoi più selezionati studenti 'una dottrina esoterica in margine ai program-
mi ufficiali', che 'l'insegnamento tecnico-astronomico di Ipazia non fosse che
un'ingannevole facciata al riparo della quale veniva dispensata una rivelazione
esoterica, questa sì veramente originale', è apparso evidente, fra gli altri, anche
al maggiore biografo di Sinesio.
Ma l'astronomia era, in effetti, più di una facciata.
Uno dei 'segreti' dell'esoterismo pagano era proprio l'identificazione degli dèi
dell'olimpo politeista con i corpi celesti e le costellazioni, e di qui la loro riduci-
bilità a formule matematiche. Il linguaggio universale della matematica e dell'
astronomia, praticato per primi, fra gli ellèni, dai pitagorici (e non a caso Ipazia
viene spesso definita tale), aveva reso possibile fin da età remote il globalizzarsi
di quella che già gli antichi, e poi il moderno esoterismo, chiamano la Tradizione:
la circolazione delle stesse dottrine e conoscenze ancestrali, e delle stesse figure
astrali (numeriche, 'divine'), dal nucleo della mitica sapenza caldea sia verso
occidente, in Asia Minore, in Grecia e forse anche più a ovest, sia a oriente, fino
all'India, nella cui antica mitologia e poesia epica si scompongono e ricompongo-
no, come in un gigantesco caidoscopio, personaggi divini e semidivini dai tratti
simili a quelli dei miti greci.



























A permettere queste spesso sorprendenti consonanze e affinità, talvolta consi-
derate, dai mistici antichi come dai moderni, specialmente di estrazione confes-
sionale, 'miracolose' e frutto di una 'rivelazione' trascendente, sono di fatto la
comune osservazione del cielo stellato e la possibilità di comunicazione e circola-
zione dei suoi risultati mediante il linguaggio quantitativo, invariabile e indiffe-
rente alle diversità linguistiche, offerto appunto dalla matematica e dall'astronomia.
Nel 'Discorso sul dono' di Sinesio si legge:

L'astronomia è già di per sé una scienza più che degna, ma può servire ad
ascendere a qualcosa di più alto, può essere l'ultima tappa, io credo, verso
i misteri della teologia, una tappa a loro consona, poiché il corpo perfetto 
del cielo ha la materia sotto di sé e il suo moto è stato equiparato dai più
alti filosofi all'attività dell'intelletto.
Questa scienza procede alle sue dimostrazioni in maniera incontrovertibile
e si serve dell'aiuto della geometria e dell'aritmetica, che non ritengo disdi-
cevole chiamare retto canone di verità.

Come provano il contemporaneo fiorire della numerologia giudaica e la perse-
cuzione di Valente contro i 'mathematici', la natura tecnica dell'insegnamento
di Teone e Ipazia non solo non esclude ma avvalora l'interesse per la sfera
dell'esoterismo che furono praticati in un modo o nell'altro non solo nella scuola
di Proclo e di Damascio...ma da quasi tutti i neoplatonici.....
(Silvia Ronchey, Ipazia la vera storia)














sabato 12 maggio 2012

'NAPOLEONE SI RITIRA DA MOSCA' (maggio 1903, la prima spedizione militare inglese .....nel Tibet)















Negli stessi anni:


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paginedistoria.myblog.it/archive/2012/05/13/index.html










'Il governo cinese, vedendo i propri alleati molto deboli e poco attivi, cede il Tibet
al governo russo in cambio del suo aiuto.... L'impero russo riceve il Tibet e offre
il suo aiuto all'impero cinese.....
Tutte le miniere del Tibet saranno gestite dal governo russo, che potrà costruire
ferrovie ecc.... Il governo russo è autorizzato a costruire in Tibet una fortezza e
anche una ferrovia, purché non distruggano i monasteri del Tibet'.

Questa curiosa missiva è datata 7 agosto 1902.
Quattro giorni dopo, Curzon ricevette il seguente telegramma da Londra:

'Il ministro di Sua Maestà a Pechino riferisce che la Banca Russo-Cinese ha fatto
circolare di proposito indiscrezioni sulla stampa relative al fatto che gli interessi 
cinesi nel Tibet possono essere trasferiti alla Russia se quest'ultima si impegnerà 
mantenere l'integrità della Cina'.




















All'inizio del 1903 si convinse che l'unica via praticabile per la Gran Bretagna era
spedire una missione a Lhasa - usando la forza se necessario - per scoprire la
verità, e collocare i rapporti con i tibetani su basi solide e appropriate.
All'inizio aveva trovato il governo inglese, di recente coinvolto in una guerra impo-
polare con i boeri, estremamente riluttante a rischiare ulteriori ostilità in Asia, con
il pericolo sempre incombente di un intervento russo.
Nell'aprile di quell'anno riuscì però a ottenere il via libera da Londra per una pic-
cola missione a Gampa-Dzong, appena al di là del confine con il Tibet, nel tenta-
tivo di negoziare con i tibetani.



















Fu così che nel maggio 1903, durante una gara equestre alla quale faceva finta
di assistere all'ombra dei cedri himalayani, Curzon diede istruzioni al suo vecchio
amico Francis Younghusband in vista dell'imminente missione segreta nel Tibet.
Un mese più tardi, accompagnato da Claude White, rappresentante del governo
del Sikkim, in qualità di commissario aggiunto, e dal capitano Frederick O'Con-
nor, che parlava tibetano, in qualità di interprete, Younghusband partì da Kalim-
pong con una scorta di 200 soldati indiani, diretto al confine tibetano.


Il 18 luglio la Commissione di Frontiera Tibetana, come era ufficialmente chiamata, raggiunge Gampa-Dzong e iniziò a parlare della necessità di aprire colloqui con i tibetani.
Ma non ottenne alcun risultato, poiché i tibetani erano pronti a negoziare solo sul versante britannico della frontiera.
I delegati tibetani allora si ritirano nel dzong, una fortezza del luogo, e continuarono a boicottare la missione. Ne seguì una situazione di stallo, che durò diversi mesi, dopo la quale la missione tornò ignominiosamente in India.
Se però i tibetani pensavano di aver sconfitto Curzon, si sbagliavano. Nel frattempo infatti, egli aveva esercitato pressioni su Londra per ottenere il permesso di entrare nel Tibet con una scorta più ampia e avanzare fino alla cittadella fortificata di Gyantse, a metà strada verso Lhasa.
Era inaccettabile, sostenne, che una missione diplomatica britannica fosse snobbata davanti al mondo intero da 'uno statarello che confonde la pazienza con la debolezza'. Con grande sorpresa e compiacimento di Curzon, l'approvazione di Londra per i suoi piani gli fu recapitata a stretto giro di posta.
La missione, si sottolineava nel telegramma, non doveva però procedere oltre Gyantse.
Il suo unico scopo era di ottenere 'soddisfazione' dai tibetani, e non appena conseguito
questo risultato la forza doveva essere ritirata.
'Fu uno strano telegramma, che non capii mai veramente' ammise Younghusband in
seguito.
'Ottenere soddisfazione', a suo parere, era lo scopo di una spedizione punitiva.
Nelle intenzioni sue e di Curzon, la spedizione a Gyantse aveva l'obiettivo di cer-
care 'di ottenere che la frontiera fosse definita e riconosciuta, fissare le condizioni
in base alle quali il commercio potesse svolgersi, e stabilire in modo chiaro una
modalità di comunicazione tra i nostri funzionari e quelli tibetani'.



















I governi cinese e russo, informati ufficialmente della mossa che la gran Bretagna
intendeva compiere nel Tibet, avevano subito iniziato a protestare ad alta voce.
Ma queste rimostranze furono messe da parte, e all'ambasciatore russo fu spiegato
con fermezza che in nessun caso questa avanzata temporanea nel Tibet poteva es-
sere paragonata all'occupazione permanente di vaste aree dell'Asia da parte del
suo governo.
Il periodo dell'anno era tutt'altro che ideale, ma un rinvio era fuori discussione.
I preparativi si svolsero celermente. Questa volta Younghusband sarebbe stato l'-
unico commissario, e per accrescerne l'autorità fu promosso colonnello all'istante.
Tuttavia, poiché il suo ruolo nel Tibet era essenzialmente quello di un diplomatico,
non poteva assumere anche il comando della scorta militare.


















Quest'ultima, che consisteva in più di mille soldati, due mitragliatrici Maxim e quat-
tro pezzi di artiglieria, fu dunque posta sotto il comando del generale di brigata J.
R. L. Macdonald. Era un militare senza meriti particolari, né alcuna provata abilità,
e la sua scelta per questo ruolo estremamente delicato fu insieme stupefacente e,
come si rivelò in seguito, infelice.
In aggiunta ai molti ufficiali assegnati alla spedizione, furono invitati a unirsi ad es-
sa anche i corrispondenti del 'Times', del 'Daily Mail' e della Reuters, ma non prima
che la forza fosse penetrata nel Tibet in sicurezza.
Il 12 dicembre 1903 Younghusband e la sua missione entrarono nel Tibet attra-
verso l'elevato passo Jelap, preceduti da un soldato a cavallo che portava la
bandiera britannica. Alle loro spalle, si trascinava a fatica una colonna di 10.000
'coolies', 7000 muli e 4000 yak, oltre a sei cammelli che trasportavano il bagaglio
della spedizione.





















Una piccola unità di genieri accompagnava la forza d'invasione posando una linea
telegrafica a mano a mano che avanzava.
....Nell'insieme la scena ricordò a un ufficiale più la ritirata di Napoleone da Mosca
che l'avanzata di un esercito, con uomini e bestie che lottarono al limite delle loro
forze per raggiungere la cima del passo a 4200 metri d'altitudine prima di scivola-
re giù, dall'altro lato del Tibet.
.....Iniziò così quello che sarebbe diventato uno degli episodi più discussi della
storia .....'Imperiale Britannica......
(P. Hopkirk, Alla conquista di Lhasa)












   

giovedì 10 maggio 2012

UNA LETTERA


















Due sono le porte dei sogni, dice il divino Omero, e diverso è pure il credito
che loro si deve riguardo agli eventi futuri.
Io credo che tu ora, più che mai in passato, abbia visto con chiarezza negli
avvenimenti che stanno per accadere.
Anch'io ho avuto oggi un'analoga visione.
Mi pareva che un albero alto, piantato in un grande triclinio, si piegasse al
suolo e dalle sue radici ne fosse cresciuto accanto un altro piccolo nato e ca-
rico di fiori. Io ero in grande ansia per quello piccolo, che non venisse divelto
insieme al più grande; ma quando gli fui più vicino, vidi il grande albero diste-
so a terra, mentre il piccolo era diritto ed eretto dal suolo.
Vedendo ciò, dicevo pieno di ansia: 'v'è pericolo per un albero così grande,
che neppure il germoglio si salvi!'
Allora un individuo a me completamente sconosciuto: 'Guarda attentamente
- disse - e fatti coraggio: poiché la radice resta in terra, il germoglio più pic-
colo rimane illeso e si innalzerà più saldo'.
Questo è stato il mio sogno; il dio sa a che cosa conduca.
Riguardo allo spregevole invertito apprenderei volentieri quando egli abbia
espresso tali affermazioni su di me, se prima o dopo il mio incontro con lui.
Chiariscimi dunque quanto puoi.
Quanto ai miei rapporti con lui, si sa che più volte, quando egli aveva ope-
rato ingiustamente verso i provinciali, io contro il mio decoro tacqui non
ascoltando certe accuse e non accettandone altre, ad alcune non prestan-
do fede, altre facendo ricadere su quelli della sua cricca.
Ma quando egli pretese di rendermi partecipe della sua turpitudine, invi-
ando quelle note scellerate e vergognosissime, che cosa dovevo fare?
Tacere ancora o combatterlo apertamente?
La prima sarebbe stata - io credo - una decisione insensata, servile ed
empia; la seconda giusta; coraggiosa e franca, ma non consentita dalle
circostanze che mi dominavano.
Che cosa ho fatto, dunque?
In presenza di molte persone, che sapevo avrebbero riferito a lui, dissi:
'Costui rettificherà certamente in ogni modo, quelle note vergognose, poi-
ché sono di un'impudenza senza pari'.
Ed egli, avendo appreso quanto avevo detto, invece di agire con una
certa moderazione, fece quello che, per dio, neppure un tiranno mode-
rato avrebbe mai fatto, pur essendo io così vicino a lui.
A questo punto che cosa doveva fare un ardente seguace delle dottrine
di Platone?
Lasciare in preda ai ladri uomini sventurati o proteggerli con tutte le forze
nel momento in cui, io credo, cantavano il canto del cigno a causa delle
azioni di questa banda invisa agli dèi?
A me sembra immorale, mentre condanniamo immediatamente a morte
e priviamo della sepoltura gli ufficiali quando lasciano il loro posto, abban-
donare la difesa di uomini sventurati quando si deve lottare contro simili
delinquenti, tanto più che ho come alleato il dio che mi ha assegnato ques-
to posto.
Se mi capiterà di subire qualche sventura, sarà conforto di poco conto
intraprendere l'ultimo viaggio con la coscienza del bene.....
Quanto all'ottimo Salustio, gli dèi lo conservino per me.
E se conseguenza di questa faccenda sarà che verrà un successore, ques-
ta evenienza forse non mi addolorerà.
E' meglio agire in modo onesto per breve tempo, che a lungo ma in modo
disonesto.............
In ultimo, che al più presto si riaprino i templi al culto ...degli Dèi.........
(Gallia, fine 359)
(L'epistolario di Giuliano Imperatore)




















mercoledì 9 maggio 2012

'IL VIAGGIO'














Prosegue in:

http://dialoghiconpietroautier.myblog.it/archive/2011/03/29/l-ascesa-dagli-inferi-13.html &

http://paginedistoria.myblog.it/archive/2011/03/29/demoni-e-squilibri-14.html









Contempliamo un tavolato che un tempo costituiva l'oceano di Tetide.
Quarantacinque milioni di anni fa, quando la placca tettonica dell'India - che
allora era un continente separato - si scontrò col ventre molle dell'Asia facen-
do erompere l'Himalaya a sud, quest'oceano primordiale si prosciugò.
Sull'altopiano tibetano sono ancora presenti fossili marini a conferma che il
paese più alto del mondo un tempo era un oceano.
Mentre scendiamo faticosamente lungo la linea di faglia di quel memorabile
sconvolgimento, una nuova vista si allarga davanti a noi. In quest'aria rarefat-
ta, nellla quale una persona può essere individuata chiaramente a 15 chilome-
tri di distanza, scorgo con un tuffo al cuore le steppe sfumate di viola del
Tibet che digradano verso nord-ovest.





























Al di là di esse, una fila ininterrotta di montagne balugina all'orizzonte sotto
nuvole a forma di cavolfiore che paiono statiche, e lo sono; nel lontano Nord
invece fluttua il Gurla Mandhata, alto più di 7500 metri, che brilla sopra il lago
sacro di Manasarovar.
Nella sua vivida immobilità, questa terra potrebbe essere un fondale dipinto
infilato nella fenditura della valle davanti a noi. L'artista voleva esprimere una
tranquillità inumana e se n'è uscito con questo paesaggio.
Il paese è spaventosamente isolato.
La stessa collisione tra placche che generò l'altopiano tibetano, lo circondò
di montagne che lo proteggono e allo stesso tempo lo inaridiscono: il Kara-
korum a occidente, i deserti del Kunlun a nord. Anche nel più esposto Oriente,
centinaia di chilometri di territorio montano quasi desertico dividono il Tibet
dall'habitat agevole più vicino.





























.....A quali altre catene montuose possiamo estendere il modello ipotizzato per
le Alpi?
Certamente all'Himalaya.
Le Alpi non sono che una piccola parte, spettacolare e geologicamente meglio
studiata, di un sistema di catene che va dal Rif nord-africano alla Cordigliera
Betica, ai Pirenei, comprende le Alpi e prosegue attraverso i Carpazi e il Cau-
caso con gli alti rilievi dell'Hindukush, del Karakorum e dell'Himalaya.
L'intero sistema alpino-himalayano mostra nelle grandi linee caratteristiche strut-
turali comuni e i fossili ritrovati nelle loro rocce sedimentarie, correlabili fra lo-
ro sia per l'età che per l'ambiente di vita originario, hanno portato a ricostruire
l'ipotetica Tetide come situata, a partire da 230 milioni di anni fa, fra il continen-
te euro-asiatico a nord e i continenti africano e indiano a sud.
Nell'ambito del sistema, tuttavia, ogni singola catena ha le sue peculiarità strati-
grafiche, la sua propria disposizione geometrica, le sue deformazioni tettoniche
specifiche, per non parlare di situazioni locali che paiono anomale e di regioni
intere di cui si sa molto poco.


























La catena dell'Himalaya è lunga 2500 Km, il doppio di quella delle Alpi.
L'Everest, la sua cima più alta e anche la più elevata del mondo, è alta quasi il
doppio del Monte Bianco.
Dal Nanga Parbat a ovest al Namcha Barwa a est, la catena costituisce il prin-
cipale muro divisorio climatico dell'Asia, poiché è l'ostacolo che ferma i monso-
ni. Curiosamente però la catena, benché su di essa si ergano ben 10 dei 14
'ottomila' della terra, non costituisce uno spartiacque, che invece è situato più
a nord, nel Tibet, a circa 150 Km delle creste principali.
L'arco della catena himalayana, contrariamente a quello delle Alpi, è convesso
verso sud. Si suppone che la zolla continentale indiana, sospinta verso nord,
dopo la collisione con il continente euro-asiatico abbia continuato a premere
contro quest'ultimo, provocando il rialzamento di tutta la propria fascia margi-
nale.
Questa ipotesi dà una spiegazione alla vergenza verso sud delle strutture tetto-
niche e al fatto che sedimenti marini marginali della zolla continentale indiana
si trovino oggi tutti ripiegati a costituire vette quali quelle dell'Everest e dell'
Anapurna, con i loro calcari metamorfosati vecchi fino a 530 milioni di anni.





























Nel loro insieme queste rocce di origine sedimentaria costituiscono una fascia
spessa 14 Km, con un'età compresa fra i 570 e i 65 milioni di anni.
Il Tibet non appartiene più alla catena himalayana e, con il suo altipiano e le
sue catene interne del Trans-Himalaya, geologicamente inizia a nord delle
pietre verdi disposte lungo i corsi dell'Indo e dello Tsangpo: pietre verdi che
vengono considerate come 'sutura' della collisione avvenuta 45 milioni di anni
fa fra le due zolle continentali dell'Euroasia e dell'India.


























Centomila anni fa il pianeta ospitava solo una manciata di 'Homo sapiens', dai
quali è discesa senza eccezione tutta la popolazione umana odierna.
Per deduzione, tale convergenza deve terminare in un unico ominide nostro an-
tenato.
Ciò che vale per la specie umana vale per tutte le altre.
Per esempio, quasi tutti i nostri geni li abbiamo in comune con lo scimpanzé;
qualche milione di anni prima che l'Eva africana camminasse per la savana, da
qualche parte nelle foreste dell'Africa dimorava l'antenato comune dell'uomo e
delle scimmie antropomorfe.
E così via, indietro nel tempo.
Quanto più si scava nel passato, tanto più imparentate risultano le specie che
oggi sono ben distinte.
Mezzo miliardo di anni fa avevo per antenato un pesce.
Due miluardi di anni or sono, tutti i miei avi erano microbi.
Lo stesso ragionamento vale per tutti gli organismi, compreso il cespuglio fuori
dalla mia finestra, l'uccello che becca sul davanzale e i funghi nel prato.





























Se potessimo risalirne gli alberi genealogici abbastanza indietro nel tempo, i
loro rami distinti finirebbero per intrecciarsi e fondersi.
Possiamo raffigurarci un albero genealogico di tutto ciò che vive al giorno d'oggi,
una sorta di superalbero della vita.
Alla fine, tutti i rami di questo superalbero devono convergere, e non di poco, ma
completamente, fino a restringersi a un tronco centrale. Questo antico fusto rappre-
senta un unico organismo primitivo, l'antenato comune di tutta la vita del pianeta,
un microbico Adamo il cui destino è stato di popolare il pianeta con una miriade
di discendenti.
Ma come è nato questo minuscolo organismo, questo capostipite di un miliardo
di specie?
Dove è vissuto, e quando?
E che cosa è venuto prima di lui?





















Una prova dell'esistenza dell'antenato universale deriva dalla bizzarra questione
della cosiddetta chiralità delle molecole.
La maggior parte delle molecole organiche non è simmetrica: la molecola differi-
sce dalla propria immagine speculare esattamente come la mano destra differisce
dalla mano sinistra.
....Questo fa pensare che tutti discendano da una stessa cellula, che conteneva
ogni molecola nella particolare forma chirale in cui la ritroviamo oggi.
(C. Thubron, verso la montagna sacra; S. M. Buscaini, Geologia per alpinisti;
P. Davies, Da dove viene la vita;)














lunedì 7 maggio 2012

SUL SENTIERO DELLA STORIA (che mai venga cancellata dagli scaffali della memoria)















Foto del blog:

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http://pietroautier.fotoblog.it/archive/2012/05/07/sul-sentiero-della-storia-2.html








....Il sentiero si fa scosceso.
Gli yak e i jhaboo che seguivano il letto del fiume ora si trascinano pesantemente
tra i pellegrini.
Spesso mi fermo contro un masso, ansimante, temendo il primo attacco di nausea....
davanti si estende un lungo anfiteatro di montagne le cui rocce sono nere sullo sfon-
do di uno spesso tappetto di neve.
Ogni colore sembra strizzato via dal paesaggio.




























Solo il cielo a tratti splende azzurro sul flusso di creste che scorre nella valle.
In quest'aria ghiacciata, le persone sono nascoste sotto strati di vestiti e occhiali
protettivi, e fra i tibetani che si muovono velocemente dondolando rosari, bastoni
e thermos di tè al burro, è difficile distinguere gli indiani dai tedeschi, dagli austriaci,
persino da un paio di russi.
I massi diventano luoghi brulicanti di venerazione.
Camminiamo in un labirinto spezzato di granito: rocce grandi come casette, grigio
chiaro, rosa conchiglia.


























Qui Milarepa sconfisse il suo rivale bon appoggiando un terzo masso gigantesco sul
secondo sistemato dallo stregone, e lasciò questo pilastro in bilico con la sua impron-
ta nella roccia.
Per i pellegrini ogni pietra parla.
Si sparpagliano e si siedono con familiarità tra di esse.
Si infilano in una stretta apertura tra due massi per mettere alla prova la loro virtù,
e strisciano sotto a un altro.
Le rocce divengono il giudizio della montagna.




















Un affioramento chiamato il 'Luogo dei peccati bianchi e neri' forma una rudimentale
galleria, e i pellegrini devono attraversare quest'inferno simbolico prima di tornare
lungo un altro passaggio a uno stato più elevato.
In queste fenditure la pietra viva percepisce la purezza dei corpi che vi passano at-
traverso, e le pareti possono contrarsi all'improvviso intrappolando il reo.
Tre pellegrini seduti insieme amabilmente ricordano un'epoca in cui le rocce gemelle
di fronte a loro venivano al giudizio. Parlano con Iswor in tamang zoppicante, ma non
possono entrare nel passaggio di roccia. Sembra così stretto da essere intransitabile,
ed è bloccato dal ghiaccio. Anche la persona più esile rischia di rimanervi intrappola-
ta.
....La roccia sa tutto...


























Ma il sentiero ci porta di nuovo in alto, e la valle scavata nella montagna si richiude
senza addolcirsi intorno al nostro strano ed eterogeneo rivolo di bestie ed esseri
umani che sfila verso il passo, simile a limatura di ferro.
Attraversiamo sprazzi di sole.
Ogni volta che il cielo si rannuvola, l'aria intorno a noi gela.
La crosta di neve, disseminata di impronte di zoccoli di yak, è dura sotto i piedi anche
in giugno.
Si è alzato un vento forte.
Davanti a noi, in lontananza si allunga per i pendii finché i pellegrini non diventano neve
e granito.
Saliamo immersi in un limbo monocromatico.


















Centinaia di tumuli e di incisioni nella roccia sono sparsi lungo il tracciato e si affollano
all'orizzonte. Le sciarpe scarlatte delle donne guizzano tra i massi per poi scomparire
di nuovo.
Sono a un'ora scarsa dalla cima.
....Carovane di yak impassibili, alcuni con la testa e la coda bionda, marciano alle mie
spalle percuotendo le rocce con gli zoccoli fessi, e gli indù che li cavalcano si aggrappa-
no alle selle imbottite.
....C'è un altro uomo che cammina dietro di me: un pellegrino con moglie, figlio e bestia.
Gli ultimi secoli non l'hanno sfiorato.
Vive in un'epoca tutta sua.
Ha uno sguardo fisso, luminoso e intenso......
(Colin Thubron, Verso la montagna sacra)












domenica 6 maggio 2012

ROCCE, DEI,....MONTAGNE (...verità...)

















Prosegue in:


Alla ricerca del 'Monte Analogo'  (30)   (31)   (32)








Il Lha Chu, il Fiume degli spiriti, ci guida per otto chilometri lungo il corridoio di
arenaria via via più pallida.
Le pareti della valle si dispiegano in svettanti cortine rosa e ramate per un'altez-
za di mille metri su entrambi i lati. Una certa morbidezza della pietra modella in
terrazze crepate che tagliano le fenditure verticali dei dirupi frantumando l'intera
parete rocciosa in cubi ciclopici ininterrottamente per centinaia di metri.
Poi, in alto, sferzati dal vento, gli strati si assottigliano, separandosi.
S'innalzano in una filigrana di torrette e di balze, forate dall'illusione di altre porte
ad arco, riempiendo l'orizzonte di templi e palazzi diroccati. Dove la roccia si fa
rosa conchiglia, in particolare, tali sagome sembrano ardere in un altro etere.
Tra l'una e l'altra, cascate gelate gocciolano dai canaloni o si rovesciano sulle ci-
me delle rupi in vampate di ghiaccio. Quando queste infine raggiungono la valle
ai nostri piedi, si sciolgono in affluenti che scorrono a fatica, intasando di scheg-
ge il Lha Chu.



















Naturalmente i palazzi in cima alle montagne sono le residenze dei Buddha, e
ogni singolarità nei picchi o nei massi diventa un segno della loro presenza o è
la formazione spontanea di un prodigio sacro.
Nel versante della valle opposto al Choku, i monaci scorgono sedici santi rag-
gruppati nella roccia, mentre sulla sommità fluttua la tenda di seta di Kangri
Latsen.
Più avanti, mentre procediamo nel cammino, una corrente mistica porta giù dal-
la montagna la luce dell'arcobaleno, e una cupola di roccia a est è la fortezza
del demone indù Ravana, convertito al buddhismo, con tanto di yak e di cane.
















Il masso che sporge nelle vicinanze è il reliquario di cristallo del santo Nyo
Lhanangpa che racchiude la sua visione del Buddha, e al di là di questo, il dio
scimmia Hanuman s'inginocchia per offrire incenso al Kailash.
Alle nostre spalle, a est, la coda del meraviglioso cavallo di Gesar di Ling, l'-
epico re del Tibet, spunta dalle cime in una cascata ghiacciata, e e i suoi sette
fratelli abitano sette pinnacoli rocciosi lungo la via.
A ovest, su tre picchi torreggianti alti 6000 metri, dimorano i tre grandi Bodhi-
sattva della longevità, e un masso di granito accanto al nostro sentiero è la ma-
nifestazione di un Buddha che doma un serpente.
Ovunque, per coloro che sanno vedere, la pietra pulsa di vita.
















E sullo stesso Kailash brillano i portali glaciali che danno accesso al cuore del-
la fortezza di Demchog.
In questa complessa topografia, divinità buddhiste, induiste e bon impenitenti
affollano il percorso in schiere che si sovrappongono. Ve ne sono migliaia, let-
teralmente.
Spesso riesco a individuare un sito solo grazie a un pellegrino solitario, disteso
a terra dove la mano o il piede di Buddha, bruciando come zolfo, ha lasciato
un'impronta nella roccia.
Alcuni dèi e Bodhisattva volano tra le dimore in modo disorientato.
Altri risiedono su diverse cime allo stesso tempo.
















Ma, in un certo senso, sono sempre presenti fisicamente nelle loro dimore
pietrificate, verso le quali i pellegrini si girano a pregare.
In ogni punto in cui una grotta scava un dirupo e vi è memoria di un eremita,
gesta di passata devozione impregnano la roccia, e i santi continuano a essere
presenti in corpo mistico anche molto tempo dopo la morte.
....Schierati in file sui pendii del Kailash, i lha, gli dèi celesti, combattono i lha-
ma-yin circostanti (destinati all'inferno), e le loro passioni li condannano infine
a dolorosi cicli di rinascita. I demoni che affliggono i tibetani - i sa-bdag, 'si-
gnori della terra', i lu, serpenti neri in agguato sotto le acque, i terribili btsan
con l'armatura sui loro cavalli volanti rossi - sono degradati a servi buddhisti
all'ombra del Kailash, ma l'umore capriccioso della montagna - le frane e le
tempeste improvvise - suscitarono paure compensative e nervosi riti propizia-
tori.
















I pellegrini che ci superano ormai sono pochi.
Procedono veloci, assorti e sorridenti.
Molti percorrono l'impegnativo tragitto di circa 50 chilometri in 36 ore; alcuni
lo completano in un giorno solo.
E la fatica è un elemento essenziale.....

Quando il sentiero piega a nord-est, l'eterea arenaria ...scompare.
I pendii divengono neri di granito, e i crinali più bassi della montagna si frantumano
in punte e contrafforti instabili.
Le creste sono squarciate in chiaroscuro, e gli ultimi affioramenti si riversano nella
valle nelle forme fluide e antropomorfe amate dai pellegrini.
La spina dorsale e le natiche di una massiccia bestia di pietra che guarda il Kailash
vengono salutate come il toro Nandi, sacro a Siva; un'altra roccia è vista come la
torta votiva di Padmasambhava.



















A ovest, sotto gli ultimi dirupi neri e arancioni del bacino dell'Amitabha, il secondo
'chaksal gang' (piattaforma per le prostrazioni) si apre sotto le bandiere lacerate
dal vento nel punto in cui il Buddha inchiodò il Kailash alla terra con la propria im-
pronta, che è ancora impressa nella pietra.
Poco dopo, il sentiero, ridotto ad una striscia sottile, attraversa i prati di Damding
Donkhang, e lungo il fiume sono piantate tende di nomadi.
A poco a poco la strada comincia a piegare a est.
Un affluente gelato risale la Valle degli yak selvatici lasciando il Lha Chu ridotto
quasi a puro ghiaccio. Ora la parete occidentale della montagna sta sparendo alla
vista e si intravede un altro versante più impressionante e assoluto, addolcito per
un po' dalla rupe di Vajrapani che si erge tra noi e il Kailash.
















Nel giro di un'ora Iswor e io - lui, esausto sotto il doppio carico, senza lamentarsi
ci stiamo arrampicando verso il Drira Phuk Gompa, il 'Monastero della grotta del-
le corna di yak'.
Piccolo e di pietra grezza come gli altri, quest'ultimo è abbarbicato sul desolato
versante della valle di fronte al Kailash, in mezzo a enormi massi.
A metà della salita, Iswor si gira, solleva curiosamente il pollice verso di me e grida:
- Sei felice?
Non lo so.
- Sì, e tu?
gli rispondo, ma per qualche ragione sono turbato.
- Se tu sei felice, io sono felice!





















Un monaco ragazzino ci sollecita a entrare, e il vento forte ci tiene lontani dal cortile
e dalle terrazze con le bandiere che sventolano.
Non possiamo fermarci qui.
Le stanze per i pellegrini sono piene, anche se non vediamo nessuno, e Ram ha pian-
tato le nostre tende ancor più in alto, sullo sfondo della neve, dove ci acclimateremo
ai quasi 5200 metri cercando di dormire.
Nel tempio, il consueto profilo orlato di 'thangka' si sta oscurando all'arrivo della sera.
L'altare è pieno di stupa in miniatura fatti d'orzo o di grano saraceno, alcuni dei quali
dipinti, lasciati dai pellegrini che se ne sono andati.
I tavoli splendono di fiori artificiali, e file di nicchie a conchiglia riempono le pareti di
oro e giallo sbiadito. Qui le divinità siedono nella penombra, ammassate nelle loro
finestrelle.

















Ne intravedo i sorrisi olimpici e le mani alzate di benedizione, le collane che ricadono.
Le gambe piegate e i torsi luccicano dorati. Ogni nicchia è contornata dal denaro la-
sciato dai pellegrini.
Un tempo Drira Phuk era il più ricco dei piccoli monasteri intorno al Kailash.
All'arrivo di Kawaguchi ospitava parecchi lama di grado elevato, e qui, nel 1935, l'-
orientalista Giuseppe Tucci si imbatté in un torchio xilografico con il quale i monaci
copiarono per lui una rara guida del pellegrino.
Ora trovo i monaci raggomitolati tra cuscini al caldo di una stufa a sterco di yak.
Iswor prova a parlare con loro in tamang, e io in cinese, ma non parlano nessuna del-
le due lingue. Due di loro sonnecchiano mentre un altro - un giovane di una bellezza
inquietante con capelli lunghi e mani da ragazza - ci porta del tè con sale e burro di
yak e poi si addormenta.
(Colin Thubron, Verso la montagna sacra)