martedì 1 maggio 2012
FRANCIS PARKMAN
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Nella primavera del 1846 Parkman partì con un compagno di Harvard, suo parente,
Quincy Adams Shaw: nome che da solo proclamava una genealogia illustre.
Dall' Ohio risalirono in battello fino al 'trampolino' di St. Louis.
All'inizio, come in Sicilia, Parkman visse con un senso di liberazione il distacco dal
rigido perbenismo della costa atlantica, ma presto l'atteso incontro epifanico con l'-
Ovest svaporò nel sole brutale e nello sconfinato, inquietante spazio vuoto della
prateria.
Invece di sentirsi parte del paesaggio, Parkman ebbe l'impressione di esserne respinto, minacciato.
Il caldo divenne 'torrido, quasi insopportabile'; le immense tempeste elettriche che in continuazione si aggiravano all'orizzonte erano fenomeni sinistri, terrificanti; il nobile bufalo (quando finalmente riuscirono a vederlo) apparve 'spettacolo in
verità poco attraente, con la criniera ispida e i resti spelacchiati del mantello invernale che si staccavano a brandelli dal dorso dell'animale in fuga'; i cactus si contorcevano 'come serpenti sul ciglio dei burroni'.
Vista non molto migliore offrivano gli esemplari umani, commercianti di pelli che vivevano in luride tende ingombre di pellami con flaccide donne indiane.
Parkman ne vide una nascosta nei recessi del suo 'tepee', che pareva la personificazione dell'ingordigia e dell'indolenza.
In verità gli indiani delle pianure, lungi dall'incarnare le virtù di una aristocrazia naturale e dal respingere l'arrogante e perniciosa intrusione dell'uomo bianco, parvero a Parkman esibire la miseria dei bianchi in forme ancor più squallide e irrimediabili.
I Pawnee odiavano i Crow che diffidavano dei Dakota
che erano nemici degli Arapahoe:
un'interminabile catena di sopraffazioni in un deserto abbandonato da Dio.
Finì ancor prima di cominciare, dunque, il suo idillio con l'Ovest.
Era venuto in cerca delle sorgenti dell'America e aveva trovato il deserto:
anticamera non del paradiso, ma dell'inferno.
La delusione quasi lo uccise.
Quando il racconto raggiunse la pista dell'Oregon i membri della Massachusetts
Historical Society ascoltarono un autoritratto che destava orrore e pietà: un uomo
avvilito dall'impotenza, distrutto dall'infermità, divorato dal rimorso, che 'ciondola-
va sulla sella da quanto era debole e dolente.
Credeva che il sole lo avesse accecato, la nausea gli squassava lo stomaco, la
febbre gli imperlava la fronte. A Ovest il miraggio di un Walhalla che costantemen-
te svaniva oltre l'orizzonte, a est la ritirata, la sconfitta: lui nel mezzo, stranito para-
lizzato. Lungo la pista vide una catasta di vecchi mobili abbandonati: 'rottami di
vetusti tavoli dai piedi ad artiglio, incerati e tirati a lucido, o di massicce scrivanie
di quercia', oggetti che un tempo erano migrati dall'Inghilterra nel New England,
e di là erano stati trasportati nell'Ohio o nel Kentucky, e poi trascinati ancora più
a ovest, sotto la spinta di chissà quale illusione, fino al giorno in cui l'amato cimelio
...era stato gettato via, pezzo di legno disseccato e reso contorto dal sole impietoso
della prateria.
Di tutte le pagine della 'Oregon Trail' nessuna quanto questa immagine fa pensare
a un autoritratto.
Perkman tornò a casa in uno stato che alternava repentinamente e senza motivo
momenti di attività maniacale a momenti di completa prostrazione. Al turbinio
selvaggio che s'era impadronito del suo cervello si aggiungeva in generale disordi-
ne del sistema nervoso che mise a dura prova la sua integrità come mai prima di
allora.
Non riusciva a cavar nulla dalle note della 'Oregon Trail'.
Furono gli amici Shaw e Charles Eliot Norton a completarne la stesura, sì che
l'opera risulta ancora più cinica, artificiosa e ostile all'Ovest che se l'avesse scritta
lui stesso. Ciò nonostante un anno dopo, nel 1848, Parkman decise di iniziare la
sua attività di storico con una cronaca indiana: la storia non dei miserabili soprav-
vissuti che aveva incontrato all'Ovest, ma dell'ultima grande rivolta di Pontiac
contro le ingerenze anglo-francesi.
Con quell'opera avrebbe dimenticato gli incubi della pianura aperta per rifugiarsi,
ancora una volta, nell'intricata, fresca penombra del bosco cospiratore. Era il
primo capitolo della sua grande bella epopea della foresta.
I dieci anni che seguirono furono i migliori e i peggiori della sua vita, gli inizi dell-
attività creativa. L'isteria si mescolava ai mali reali, l'ipocondria e l'insonnia ai
fantasmi della nevrastenia. Un'estate, nel pieno della calura, trovò tre rospi nel
giardino della sua casa a Jamaica Pound, 'morti arrostiti sotto le pietre dove a-
vevano cercato scampo: visse l'incidente con tale immedesimazione da restarne
sconvolto per un pezzo.
I familiari gli si stringevano attorno, facevano del loro meglio per circondarlo
di cure e proteggerlo da se stesso. Avevano in mente altri destini infelici nella
storia della famiglia.
Pure, ben poco di ciò che Francis Parkman scriveva lasciava intuire un uomo
smarrito ai confini dell'insania, in preda alla confusione. Dettate da lui stesso
faticosamente vergate a matita lungo i fili del suo 'telaio da scrivere', le sue pa-
gine erano di solito esaurienti, meditate, eleganti, a volte beffarde.
Nonostante le periodiche discese nell'inferno dell'angoscia, durante la stesura
di 'The Conspiracy of Pontiac' Parkman ebbe la sensazione di essere riuscito
a tenere a bada il 'Nemico', come chiamava la belva sconosciuta che si aggi-
rava furtiva nelle foreste della sua mente.
E quando avvertì che il Nemico stava per circondarlo, truppe fresche accor-
sero in suo soccorso. Nel 1850 conobbe e sposò Catherine Scollay Bigelow.
L'idillio ebbe breve durata.
Nel 1857 morì il figlioletto di quattro anni.
La moglie si spense l'anno seguente, lasciando un'altra bambina, confinandoli
alla deriva tra i marosi dell'isteria.
(S. Schama, Le molte morti del generale Wolfe)
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