CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

domenica 29 settembre 2013

GENTE DI PASSAGGIO (71)
















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Gente di passaggio (70)

Prosegue in:

Gente di passaggio (72) 

...e la saggezza dei libri:

Forse per questo divenni viandante

... e la storia vidi sfilare

così in un lontano mare ti voglio portare

.... e la creazione del mondo narrare....











Noi stettemo poco dopo le parole del cavaliere a montare
a cavallo, e la sera ci fermammo ad un borgo detto Erce
assai buono.
L'osteria bene assettata, e per ostessa trovammo una gen-
til fanciulla. Ponemmoci a cena Luca, Borso, ed io, e secon-
do me fummo trattati bene ed appena ebbemo finita la cena
che venne il famiglio di Borso con un maniscalco del luogo,
e disse al padrone che aveva fatto mettere un ferro nuovo
al cavallo, e che dasse al maestro quattro crazie.
Questo Borso era il più iracondo uomo che io praticassi mai
e sebbene faceva al presente l'esercizio di mandatario e tra-
matore diceva essere stato soldato e tagliava e' nugoli, e udi-
to quello gli diceva il famiglio non avvertendo che era vicino
ad Italia a una giornata , e che quivi intendevano tutti l'italia-
no......




come lui, cominciò a saltare, e bestemmiare divotamente con
dire che ammazzerebbe, e taglierebbe, e che aveva ad esser
lui l'utriaca de tedeschi, e sempre aveva la mano sulla spada,
in modo che il maniscalco, e certi altri che v'erano risponden-
do certe poche parole in loro lingua si partirono.
Borso rimase sempre sbuffando, e diceva al famiglio che non
voleva gettare i denari , e che bisognava mostrare il viso agli
uomini come aveva fatto lui, e stando in su queste parole u-
dimmo per la villa suoni di Tamburo.
Io pensai lo facessero per festa, sendo Domenica, ma pre-
sto comparvero nella stanza, dove eramo i circa cento Fanti
armati come se avessero a combattere, con corsaletti, alabar-
de, e schioppetti, ed uno se n'accostò a me, e mi disse non
dubitassi.
Messer Luca ed io paurosi aspettavamo il fine di questa co-
sa. Borso era diventato tutto pallido e tremante, e cosi lo
presero, e con grida, e tumulto la condussero dicendo volerlo
darlo nelle mani del capitano di Tirolo, perchè aveva bestem-
miato Cristo.




Io veduto questo feci dire all' oste per un tedesco avevo meco,
che Borso era uomo nobile mandato all' Imperatore dal marche-
se di Mantova per faccende importanti, e che non si poteva ne-
gare che fosse un poco collerico, ma che guardassero che l'Im-
peratore non avesse per male quello avevano fatto, e che chi e-
ra mandato a lui, esso lo poteva gastigare, e non era convenien-
te fosse castigato dai popoli.
L'oste udito il mio Tedesco andò a parlare agli altri del Borgo, ed
in effetto la notte Borso stette in prigione. La mattina lo rendero-
no dicendo che lo concedevano a noi; ne so se quest'atto fece ri-
mutare Borso, perche io giudicandolo uomo da non potere conver-
sarsi seco mi partii la mattina senza aspettarli , e mi posai a Ma-
rano, che è un borgo come un grosso castello.




L'oste mi tenne bene, e ne' più de' luoghi buoni dela Magna quelli
che fanno l'osteria sono ricchi in modo possono trattare bene chi
va a torno.
Dopo mangiare capitò nell'osteria uno ciurmatore, e giuocolatore
di bagattelle che aveva gran seguito di gente, e sebbene parlava
italiano adoprava più le mani che la lingua, di sorte che ragunò
con questa sua articella qualche somma di crazie ; quello facessi
non dico perchè noi altri siamo tanto usi a vedere simili cose che
scriverle saria superfluo, ne aveva in tutto finito di raccorrei de-
nari, e rassettare le sue bagattelle che sopraggiunsero quivi for-
se dodici famigli e con furia lo legarono , e lo menarono.
Domandai l'oste della causa dissemi: tu cavalcherai per Allema-
gna, e la troverai piena di denaro al contrario di quello che voi
credete in Italia, e questo intervienile perchè noi Alemanni ab-
biamo gran considerazione di curare che del Paese non eschino
denari per conto alcuno.
Costui era qui, e conquesti modi li portava via , ed ancorché
fossino pochi venne a notizia del Borgomastro, e vi ha provve-
duto in questo modo........

(G. Osti, Attraverso la regione trentino-tirolese nel Cinquecento)














sabato 28 settembre 2013

GENTE DI PASSAGGIO (69)




































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Il poeta guerriero (68)

Prosegue in:

Gente di passaggio (70)





Dal Testo di Vettori: viaggio in Alamagna


Viaggio di andata: da Bussolengo a Trento































Stetti la sera a Ossolengo e la mattina per tempo su una barca
passai l'Adice e, su per la valle d'esso, verso Trento cominciai
a cavalcare.
El fiume dell'Adice è molto rapido e grosso, e massime quando
le neve si struggono. Ero ito circa miglia sette e trovai la Chiu-
sa che è un luogo in su l'Adice el quale e' Veniziani guardano,
perché è passo forte.
L'Adice ha in quel luogo da ogni banda le ripe tagliate et alte,
dalla man destra è solo tanta via che duoi cavalli insieme han-
no fatica d'andarvi.
Questo luogo è' Veneziani hanno chiuso con due porte, l'una di
sopra e l'altra di sotto; e nelle rotture del monte hanno fatto cer-
te piccole stanzette, dove possino stare fanti a difendere dette
porte.
Et a qualunque passa a piè o a cavallo fanno pagare un dazio e
di questo emolumento pagano dette guardie. Passai quel luogo
e, pure in su l'Adice, al Borghetto mi fermai, dove trovai uno o-
ste tedesco molto piacevole.
E per essere il caldo grande et il luogo fresco, vi stetti molte o-
re a piacere. Era venerdì, e però l'oste provvide di più sorte
pesci dell'Adice.




Partendomi, e cavalcando sempre lungo l'Adice, arrivai a Rove-
reto, castello de' Veniziani, e scavalcai a una osteria nel borgo
verso Trento.
L'oste mi ricevé volentieri e, mentre che li cavalli s'assestavano,
mi disse: "Uomo da bene, tu m'arai escusato se io non ti tratte-
rò come sono solito trattare li altri pari tuoi. E' forestieri soleva-
no alloggiare in questa osteria che in altra che fussi di qua a
Roma; ma ti voglio dire la causa perché la casa, come vedi, in
gran parte è guasta e le masserizie sono sute tolte et ogni cosa
è ito in ruina.
Con la esperienzia conobbi nell'osteria non esser cosa alcuna;
mangiai male, e dormì' peggio e, non che letto, non vi trovai
una tavola da distendermi, ma, essendo gran caldo, passai la
notte il meglio potetti.
E seguendo la mattina il cammino, giunsi a tre ore a Trento, la
quale è piccola città posta in sull'Adice, ma molto abundante
perché, ancora che sia tra monti, ha tra essi qualche miglio di
piano che produce assai grano e vino; e nelli monti sta il bestia-
me.




Signore della città, et in temporale e spirituale, è il Vescovo; e
lui piglia l'entrate delle gabelle e d'ogni altra cosa. Lo Imperato-
re, come Duca d'Austria e conte di Tirolo, vi mette un capitano,
el quale tiene le chiavi delle porte e fa eleggere al capitolo de'
canonici il vescovo, come pare a lui, perché sempre lo vuole
confidente, perché il luogo è di grande importanza in sul confi-
ne d'Italia et Alamagna, benché sia posto in Italia: perché il
fiume del Lavis, di là da Trento cinque miglia, divide l'Italia d'-
Alamagna, secondo dicono quelli del paese.
La città non è forte né di mura né di sito, et è circumdata da
monti alti, de' quali chi fussi signore presto diventerebbe patro-
ne della città.
Arrivai, come ho detto, a Trento a buona ora e tutto il giorno
mi fermai....
Havevo lasciato come a dì 4 di luglio arrivai a Trento in saba-
to; e vi stetti tutto il giorno. E come accadeva in quelli tempi
che si diceva che lo Imperatore voleva passare in Italia, li uo-
mini erano molto curiosi investigatori chi passassi in Alamagna.
Per questo vennono a me il giorno molti lombardi, che erono
in Trento, per sapere chi fussi o dove andassi.
Tra li altri vi venne un prete fiorentino, chiamato prete Tomma-
so, il quale per altri tempi avevo conosciuto. E li feci grata ac-
coglienza e più d'una ora stetti con lui a ragionare di varie cose.

(G. Osti, Attraverso la regione trentino-tirolese nel Cinquecento,
& Viaggio in Alamagna di F. Vettori)













martedì 24 settembre 2013

LA FUGA DI OSVALDO (67)
















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Nell'Alchimia della vita (66)

Prosegue in:

Il poeta guerriero (68)












Nel tumultuoso regno di Federico 'Tasca vuota' si inserisce, dominante, la
figura singolarissima del massimo poeta atesino (colui che è amato sopra
ogni altra cosa dal fiero popolo.... tirolese..., scusate l'emozione....): O-
svaldo di Wolkenstein.
Nacque nel 1377 (c'è qualche dubbio su questa data...) alla Trostburg (Ca-
stel Forte) che domina oggi l'abitato di Ponte Gardena.
Nella loro eccellente opera sulla letteratura tedesca, tradotta magistral-
mente da Gustavo Balsamo Crivelli, Vogt e Koch ne tracciano il seguente
interessante profilo:




"Nato da una nobile famiglia tirolese, egli si mise in viaggio, fin da
quando aveva 10 anni, con tre soldi in tasca, per vedere il mondo.
E in qualità di valletto, di cuoco, di mercante, di pellegrino, di can-
tore e di cavaliero, correndo avventure, torneando in diverse spe-
dizioni terrestri e marittime, se ne andò poi dalla Russia sino alla
Spagna, dall'Arabia e dalla Persia sino alla Scozia ed alla Svezia.
Egli ha così attraversato impetuosamente la vita, facendo il diavo-
lo a quattro, poetando e cantando.
Infatti anche in casa, quando ebbe con i fratelli diviso i terreni (in
millesimi) non riuscì a trovare quiete. Assembrato spesso con l'im-
peratore Sigismondo, così negli spassi come nella politica e nelle
spedizioni guerresche, difese apertamente e segretamente gli in-
teressi di questo sovrano e della nobiltà tirolese, che aspirava alla
diretta dipendenza dall'Impero e venne così a trovarsi col suo feu-
datario Federico in rapporti ostili che gli fruttarono, col mutarsi
della fortuna, un duro carcere, prima che finissero con una risolu-
zione pacifica.
Ma a questi casi si inframmezzan le avventure d'amore e le arden-
ti passioni dell'uomo che non ebbe mai posa: ricerca e felicità d'a-
more, gravi affanni fisici e spirituali, che a lui prepara, con una tri-
ste prigionia, la perfidia di una donna già amata e in una descrizio-
ne pittorescamente umorista i piccoli dolori del padre di famiglia
nelle sue quattro pareti".




Osvaldo fu davvero così come i due studiosi lo descrivono, una specie
di terremoto permanente.
Era più che undicenne quando giunse alla corte dell'Imperatore e gra-
zie alla sua appartenenza ad una delle famiglie notevoli del tempo ot-
tenne d'essere assunto come valletto.
Partecipò ancor giovanissimo alla guerra contro i Turchi e fu fatto pri-
gioniero. Con uno dei molti strattagemmi, che dovevano reiterarsi nel-
la sua vita movimentatissima, fuggì e riparò in Danimarca, giusto in
tempo per partecipare ad una seconda guerra e raccogliervi allori ed
esperienza.




Dalla Danimarca affrontò per la prima volta il mare trasferendosi in
Inghilterra, ove si mescolò ai pasticci con quei cani degli Scozzesi...
Ma dal Lussemburgo l'imperatore Sigismondo, figlio di Carlo IV, lo
richiamò dalle sue 'distrazioni scozzesi' per partecipare ad una Cro-
ciata in Palestina.
Era ormai amicissimo dell'Imperatore, e dopo avere assistito alla sua
incoronazione quale re di Ungheria, lo seguì passo per passo nelle con-
trade del vicino oriente.
Alla battaglia di Nicopoli le speranze cristiane naufragarono e lo stes-
so Sigismondo riuscì a stento a sottrarsi alla cattura. Narra così la sto-
ria che Sigismondo e Osvaldo poterono, con qualche fatica, porre ma-
no ad una imbarcazione e raggiungere Costantinopoli....




La leggenda narra invece di un Osvaldo rimasto solo o quasi solo sul
campo di battaglia, raggiungere le sponde del Mar di Marmara, butta-
re in mare una botte vuota e attraversare con questo strano mezzo lo
specchio d'acqua sino a raggiungere la salvezza sulla (botte..) opposta!
Ma a queste pagine di leggenda si sovrappone una cronaca non meno
romanzesca.
Tornato al castello paterno, incontra una donna, Sabina Jeger Vela, de-
stinata ad esercitare una influenza fatale sulla sua esistenza. Se ne in-
namora e la donna lo attira nel suo castello vincolandolo con lacci dora-
ti.




E' il periodo in cui Osvaldo nella forzata inerzia dà il via al suo prepoten-
te estro poetico. Alla corte di Sigismondo e nei suoi viaggi aveva appre-
so ben dieci lingue, imparato a suonare la viola e raccolto un mondo di
impressioni e di suggestioni.
Già era noto come menestrello di alto valore. Presso Sabina, egli com-
pone le sue più belle rime e canzoni d'amore che di anno in anno si fan-
no più malinconiche, travagliato com'è dalla passione per la donna e dal-
l'ansia di moto e di libertà.
Finalmente Sabina capisce che egli è come un uccello in gabbia e lo la-
scia partire.




Torna in Egitto, va sino a Gerusalemme, sale in pellegrinaggio il Monte
Sinai, percorre tutta l'Arabia e quindi torna ancora una volta alla Trost-
burg ove giunge appena in tempo ad abbracciare il babbo morente.
Poiché le disgrazie non vengono mai sole, subito dopo la morte del pa-
dre, il Poeta apprende che Sabina non lo ha atteso ma ha sposato un
ricco mercante incontrato nel bel mezzo della grande selva....
Per Osvaldo, anima romantica, è un fiero colpo e riparte subito da quel-
la terra desideroso di dimenticare.
Soggiorna a lungo presso i Visconti di Milano, indi torna in Alto Adige
per contrarre matrimonio con una giovane di squisita bellezza, Marghe-
rita, e con lei raggiunge la corte di Sigismondo.




Ma sull'Alto Adige si addensano le nubi, Federico Tascavuota, dopo le
sue disavventure al Concilio di Costanza, ha fatto ritorno a Merano e in-
tende contendere alla nobiltà i privilegi che essa nobiltà ha ottenuto nel
periodo in cui Federico era stato scomunicato e bandito dall'impero.
Da questo duello ad armi corte nasce la lega degli Elefanti, e che contrap-
pone al Duca tutta o quasi tutta la nobiltà atesina.
Per Osvaldo non v'è dubbio di scelta.
Federico è nemico tenace dell'Imperatore, di quel Sigismondo di cui O-
svaldo è amico e protetto. Federico tende ad annullare la nobiltà altoate-
sina per fare dell'Alto Adige un dominio incontrastato degli Asburgo.




Osvaldo è invece favorevole ad una diretta dipendenza della terra fra i
monti dell'Impero. Il poeta guerriero lascia Castel Hauenstein ove, di ri-
torno dal Portogallo si era ritirato con la moglie, depone la viola e la pen-
na d'oca, per dar piglio alla spada.
Osvaldo è fra gli alfieri della Lega. E' l'eroe della difesa di Castel del Gri-
fo e di questo avvenimento lascia un poema di rara bellezza ed efficacia
descrittiva....
(Prosegue....)











domenica 22 settembre 2013

L' ORO RILUCEVA (65)



































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Gnosi Pagana (64)

Prosegue in:

Nell'alchimia della vita (66) &

Corpo Ermetico











Scopo essenziale dell'alchimia è scoprire l'elisir o 'pietra filosofale', capace
di tramutare il piombo e altri metalli vili in oro e in argento.
Nella ricerca di questo elisir gli alchimisti passavano anni a lavorare con
fornelli e laboratori sempre più complessi, tentando di affinare, sublimare,
fondere o trasformare altrimenti i loro vari ingredienti chimici.
Così facendo, portarono molti miglioramenti negli strumenti della sperimen-
tazione; i loro fornelli e alambicchi, per esempio, contribuirono alle tecniche
della futura sperimentazione scientifica...




Come l'astrologia, l'alchimia si basava su principi filosofici formulati nel mo-
do più chiaro e autorevole da Aristotele, e sviluppati dalla Scolastica.
Di particolare importanza era la nozione che tutta la materia sia riducibile a
quattro elementi (terra/aria/fuoco/acqua), ulteriormente riducibili alla 'ma-
teria prima'.
Se tutti i metalli erano composti dagli stessi elementi fondamentali in varie
 proporzioni, perché non dovrebb'essere possibile ricombinare gli elementi
in modo da ottenere altre e superiori forme di materia (qualcosa di molto
analogo si sta tentando ancor oggi con i moderni mezzi a disposizione, ma
i risultati ottenuti in codesti nuovi laboratori alchemici è espressione dell'In-
forme in cui si origina non più il Golem, ma il nuovo Frankestein, e come
lui tutti i drammi riconducibili alla 'Informe' natura del suo 'corrotto' creato-
re....)?




Questo il sogno dell'alchimista.
Gli scritti alchimistici sono spesso oscuri e velati di simbolismo. Di questa
oscurità ci dà esempio un testo classico rivendicato dagli alchimisti come
cosa propria: la 'Tavola smeraldina', serie di detti criptici che sarebbero
stati incisi su una lastra di smeraldo e scoperti nella tomba di Ermete Tri-
smegisto:

'Come tutte le cose furono mediante la contemplazione di una sola,
così tutte le cose nacquero da quest'unica mediante un singolo atto
di adattamento.
Padre di essa è il Sole, madre è la Luna.
Il Vento la portò nel suo grembo, la Terra è la sua nutrice.
Essa è la generatrice di tutte le opere prodigiose in ogni luogo del
mondo.
Il suo potere è perfetto'.
(non stiamo parlando di certo dell'ultimo modello di cellulare palma-
re sesto arto Increato e Forgiato nel nuovo laboratorio alchemico...)




Gli scritti europei di astrologia e alchimia raggiungevano probabilmen-
te nel XV secolo un pubblico abbastanza vasto, ma di rado erano desti-
nati alle masse.
Al contrario, gli autori di questi scritti spesso si sforzavano di restrin-
gere il loro pubblico. Ciò vale specialmente per gli alchimisti, ma anche
gli astrologi a volte indossavano il manto della segretezza.
La grande opera astrologica di Alberto Magno, 'Lo specchio dell'astro-
nomia', ammonisce solennemente di tenere segreto il suo insegnamen-
to, e per ovvie ragioni 'Picatrix' insiste in modo ossessivo sullo stesso
punto.




E' questo un tema comune delle opere di magia in genere. Nel suo trat-
tato sulle gemme, Marbodo di Rennes dice che se il volgo venisse a
conoscenza dei loro poteri misteriosi, il valore dei misteri diminuirebbe.
Ruggero Bacone cita questo testo e altri a favore del mantenimento del-
la segretezza, e suggerisce vari modi di preservare il carattere occulto
della conoscenza sulla natura.
Chi scrive di queste cose dovrebbe usare frasi enigmatiche, inventare
parole e alfabeti segreti, mescolare insieme più lingue diverse, abbre-
viare il più possibile, eccetera.
La segretezza della magia era anche materia di leggende: Alexander Ne-
ckham (1157-1217), per esempio, racconta che Aristotele fece seppel-
lire con sé alcune delle sue opere più sottili, in un sepolcro così ben na-
scosto che nessuno l'ha trovato; forse quei libri potrà leggerli l'Anticri-
sto, quando verrà.




Gli scrittori medievali usavano il termine 'occulto' in riferimento ai pote-
ri nascosti della natura e non per indicare branche speciali del sapere,
o 'scienze occulte'.
Quest'ultimo termine è tuttavia utile, anzitutto come una sorta di abbre-
viazione per 'scienze attinenti ai poteri occulti', ma in secondo luogo co-
me caratterizzazione di quel sapere, che era riservato a pochi e celato
ai molti.
Coloro che studiavano queste cose studiavano poteri nascosti, e a vol-
te (non sempre) tenevano celata la loro conoscenza di tali poteri.
Gli autori di testi alchimisti dicono costantemente che le loro opere non
devono cadere nelle mani sbagliate.
Il trattato 'Sull'alchimia' attribuito ad Alberto raccomanda di non rivela-
re i segreti dell'arte a nessuno (perché in tal modo il volgo ignorante
ne trarrebbe le ragioni non della saggezza ma della più vile stoltezza),
e particolarmente agli 'sciocchi' o più volgarmente gli 'idioti', che falli-
ranno nei loro sforzi e, delusi, inviederanno coloro che cercano e rie-
scono (fino a carpire o derubare, o peggio, pretendere la saggezza mai
da loro coltivata...).




Thomas Norton insiste ancora di più su questo punto.
L'arte dell'alchimia è sacra e va insegnata oralmente, sotto il suggello
di un 'solennissimo e terribile giuramento', e i suoi segreti più profondi
non devono mai essere messi per iscritto.
A un certo punto Norton teme di dire troppo, e aggiunge:

'Mi trema il cuore e la mano, quando scrivo di questa cosa segretissi-
ma'.

L'alchimista, invecchiando, può confidare il suo sapere a un allievo a-
datto, ma a uno soltanto. Altrimenti (come già espresso) i malvagi si
impadroniranno di questo sapere e lo useranno non solo per turbare
la pace della natura, ma anche per rovesciare i suoi schemi precosti-
tuiti....
E di conseguenza rovesciare i Sovrani Legittimi ( a favore del male..),
siano essi Profeti o Monarchi, Re dei Cieli o della Terra.

(Kieckhefer, La magia nel Medioevo)

(Prosegue....)












  

venerdì 20 settembre 2013

L' INFORME














Prosegue in:

L'informe (2)









Vrieslander stava intagliando una marionetta.
- Lei ci ha decisamente isolati dal mondo esterno, Josua,
disse Zwakh rompendo il silenzio,
- da quando ha chiuso la finestra nessuno ha più detto una paro-
la.
- Poco fa, vedendo ondeggiare i cappotti in quella maniera, pen-
savo a com'è strano quando il vento muove cose inanimate,
si affrettò a rispondere Prokop, quasi a scusarsi del suo silenzio.
- Fa un effetto così singolare quando degli oggetti che di sotto
giacciono immobili prendono a un tratto a svolazzare intorno.
Non è così?
Mi trovai una volta a guardare in una piazza completamente de-
serta, dei grossi pezzi di carta di giornale, senza che mi potessi
accorgere in altro modo del vento, al riparo com'ero di una casa,
i quali turbinavano in forsennate girandole incalzandosi l'un l'al-
tro, come se si fossero giurati di distruggersi a vicenda.
Un istante dopo parvero acquietarsi, ma d'improvviso una nuova
esasperata frenesia li travolse ed essi ripresero la loro stizzosa
e insensata ridda all'intorno andandosi a cacciare tutti insieme
in fondo a un cantone, donde si dispersero daccapo come inva-
sati, per sparire alla fine esausti e sconfitti dietro un angolo.




Solo un grosso giornale non riuscì ad andare con gli altri e rima-
se sul selciato aprendosi e chiudendosi pieno d'odio, come se a-
vesse il fiato mozzo e boccheggiasse.
Un nero sospetto mi sorse allora; non poteva essere che anche
noi mortali si sia o peggio potremmo divenire come quei fogli di
carta?
Forse che un invisibile, inafferrabile 'vento' non spinge anche
noi di qua e di là e fa che le nostre azioni sian quelle che sono e
non altre, mentre noi, ingenui, crediamo di disporre di un tutto
nostro libero arbitrio?
E se la vita in noi null'altro fosse che il turbine misterioso di un
vento? Se non fosse quel vento di cui la Bibbia dice: non sai on-
de egli viene, non sai dove è diretto?... Non sognamo noi, a vol-
te, di affondar la mano in acque profonde e di acchiappar pesci
d'argento, mentre nient'altro è accaduto se non che una corrente
d'aria fredda ha accarezzato le nostre mani?




- Prokop, lei si mette a parlare come mastro Pernath, che le suc-
cede?
disse Zwakh guardando il musicista con diffidenza.
- La storia del libro Ibbur, che si stava raccontando poco fa, pec-
cato che lei sia arrivato tardi e non l'abbia sentita, l'ha messo in
uno stato d'animo meditativo,
osservò Vrieslander.
- La storia di un libro?
- Di un uomo per meglio dire, di un uomo che ha portato un libro
e aveva un'aria strana. Pernath non sa come si chiami, dove abiti,
che cosa volesse; inoltre dice che per quanto il suo aspetto avesse
qualcosa di speciale che l'ha molto colpito, non è possibile dare di
quell'aspetto un'idea adeguata,
Zwakh drizzò le orecchie.
- Strano molto strano,
disse dopo una pausa,
- lo sconosciuto era per caso senza barba e aveva gli occhi obliqui?
- Credo,
risposi,
- cioè... ne sono sicurissimo. Allora lo conosce?




Il burattinaio scosse la testa.
- Semplicemente mi ricorda il 'Golem'.
Il pittore Vrieslander lasciò cadere il coltello con cui era intento
a intagliare:
- 'Golem'? Ne ho già sentito parlare molto. Sa qualcosa sul Go-
lem, Zwakh?
- Chi può dire di saper qualcosa sul Golem?
rispose Zwakh alzando le spalle.
- Vien di solito relegato nel campo delle leggende, fino a quan-
do nelle nostre viuzze non avviene qualcosa che di colpo lo fa
rivivere. Per un po', allora tutti quanti non fanno che parlare di
lui, e circolano le più iperboliche e mostruose dicerie. Si gon-
fiano, si gonfiano sino all'inverosimile e alla fine si dissolvono
alla loro stessa incredibilità.
L'origine della storia rimonta al diciassettesimo secolo, pare.
Si vuole che un rabbino avesse costruito, seguendo certe istru-
zioni della Cabala andate perdute, un uomo artificiale, il cosid-
detto Golem, perché lo aiutasse a suonar le campane della sina-
goga e facesse ogni sorta di lavori pesanti.




Non se sarebbe però uscito un uomo davvero, ma solo un es-
sere animato da un'oscura e semicosciente vita vegetale, e an-
che questo soltanto durante il giorno e in virtù di un magico bi-
gliettino che gli veniva messo dietro i denti, onde si alimentas-
se alle spontanee energie sideree dell'universo.
E quando una sera, prima della preghiera consueta, il rabbino
dimenticò di togliergli dalla bocca il sigillo, il Golem sarebbe
caduto in un delirio furioso, aggirandosi nell'oscurità delle stra-
de e distruggendo quanto gli capitava sottomano.
Alla fine il rabbino gli si sarebbe gettato contro, riuscendo a
strappare il pezzo di carta dalla bocca del Golem, che sarebbe
piombato di schianto senza vita al suolo.
Di lui non restò che il corpiciattolo d'argilla che ancor oggi vien
mostrato nella vecchia sinagoga.
(Prosegue....)












mercoledì 18 settembre 2013

UNA RISATA LI SEPPELLIRA' TUTTI QUANTI



































Prosegue in:

Ho compassione di queste creature limitate












Nel giugno del 1918 fui arruolato nell'esercito dello Zio Sam per la ....
Prima guerra mondiale.....
Ero soldato semplice a 30 $ la settimana, e fui assegnato alla fanteria.
In quei giorni la mia paga si era alzata fino a 250 $ la settimana, e Joe
Schenk mandò generosamente ai miei genitori 25 $ la settimana per
tutto il tempo che rimasi nell'esercito.
Ero nella Quarantesima Divisione, soprannominata la Divisione del
Sole.
....Un giorno o due dopo partimmo in nave per la Francia.
Devo dire di aver sempre viaggiato in modo più comodo di quello.
Dormimmo in amache appese tre per lato, su quattro livelli, una so-
pra l'altra. I pidocchi e le zecche, che avremmo avuto modo di co-
noscere intimamente in seguito, erano già a bordo, ben pasciuti e
navigati...da un pezzo..... (anzi proprio non se volevano andare,
si sta così bene in quella bella nave....).



























Scendemmo a un porto inglese il cui nome, per quanto ne so, è an-
cora un segreto militare della Prima guerra mondiale. Da lì fummo
portati a quello che gli inglesi chiamavano un campo di riposo, il più
clamoroso caso di errore di denominazione dai tempi del dottor Je-
kyll e Mr Hyde.
Dopo due giorni ci portarono a un altro campo di riposo.
In tutti e due i campi gli inglesi ci dettero la stessa sbobba tre volte
al giorno. Il fatto era che, già dalla prima volta, non ci era piaciuta.
Il pranzo comprendeva: un pezzetto di formaggio giallo grande co-
me due pezzi del domino, una galletta durissima e una tazza di tè
senza zucchero, latte o limone (scoprimmo poi che alla loro mensa
gli ufficiali di casta si nutrivano di prodotti biologici in una terra ari-
da peggio del deserto...).
































Dopo un giorno al secondo campo, ci imbarcammo su una nave
che ci portò oltre la Manica nell'amata Francia, sempre un posto
fantastico eccetto quando vi è in corso una guerra.
La nave era così piena che facemmo la traversata in piedi. C'era
posto a sedere, ma era usato da altri soldati che vi stavano in pie-
di, gli 'alti ufficiali di casta' avevano le loro cabine prenotate già
da tempo....
Sbarcammo e marciammo per otto miglia verso un altro campo.
C'era una cosa che non sono mai riuscito a capire del terreno fran-
cese in quella guerra. In Francia dovunque marciassimo sembrava
di andare in salita. Era vero sia che arrivassimo al campo sia che
ce ne allontanassimo.
Camminare con scarponi chiodati troppo grossi può avere sul cer-
vello umano un effetto più forte di quanto credano gli psicologi.






















Nei campi di riposo francesi dormivamo in tende circolari con i
piedi al centro e le teste vicine alle correnti d'aria esterne. Ci
veniva detto di non aprire gli zaini se non per tirare fuori le co-
perte.
Pensavo che questo ci avrebbe consentito di trovare più veloce-
mente un riparo in caso di attacco aereo.
Era l'inizio di un'esperienza che non ho mai dimenticato.
Durante i miei sette mesi da soldato in Francia ho dormito tutte
le notti eccetto una sul pavimento di mulini, fienili e stalle. C'è
sempre una corrente d'aria vicino a terra in posti come quelli,
e mi venne presto un raffreddore che mise in pericolo il mio u-
dito.
In quella guerra vedemmo poco più che pioggia e fango.
Ma non è quella la ragione per cui mi ricordo così bene del pri-
mo giorno che splendeva il sole. Quel pomeriggio avevo trovato
delle more lungo la strada, e mi ero arrampicato su un muretto
di  pietra per prenderle. Mentre mi sporgevo mi accorsi di qual-
cuno alle mie spalle.



















Guardandomi tra le gambe vidi le mollettiere di cuoio di un uf-
ficiale e la punta del suo bastone da marcia. Mi irrigidii, mi girai
e mi misi sull'attenti. Era un maggiore.
- Come eri!!,
disse.
Mi avevano insegnato che 'Come eri' voleva dire che dovevo
immediatamente ricominciare a fare ciò che avevo smesso al
comando 'ATTENTI!!'.
Poiché mi stavo sporgendo a cogliere more quando ero stato
interrotto dal maggiore, ricominciai a coglierle. Non avevo pen-
sato che quel maggiore privo di fantasia sarebbe rimasto lì, col
mio sedere all'altezza della faccia. E mentre lui urlava e sbraita-
va io continuai a mangiare more.....
(La cosa lo imbestialì a tal punto, che pur godendo gli ottimi ser-
vigi della mensa ufficiali, fece in modo che nessuno doveva man-
giare more...quando si è in guerra, e la sua 'guerra' ai frutti di
bosco è una cosa piuttosto seria....).
(Buster Keaton, Memorie a rotta di collo)




Prosegue in:

conveniva esser muti in quegli anni duri &

e far due soldi di conto ad ogni tramonto










martedì 10 settembre 2013

ABITANTI DI GOVERNI E MONDI SCONOSCIUTI (59)














Precedente capitolo:

Un Eretico risponde ad un Papa (58)

Prosegue in:

Frate Girolamo vescovo di 'Carafa' (60)











Il cuore agitato da mille angosce, dopo la scena della notte (non meno del
teatro del giorno), mi levai la mattina del quinto giorno che già suonava la
prima, quando Guglielmo mi scosse rudemente avvertendomi che tra poco
si sarebbe riunite le due legazioni.
Guardai fuori dalla finestra della cella e non vidi nulla. La nebbia del giorno
prima era diventata una coltre lattiginosa che dominava incontrastata il pia-
noro.
Appena uscito vidi l'abbazia come non l'avevo ancora vista prima di allora;
solo alcune costruzioni maggiori, la chiesa, l'Edificio, la sala capitolare si
stagliavano anche a distanze, sia pure imprecise, ombre tra le ombre, ma
il resto dei casamenti era invisibile solo a pochi passi. Pareva che le forme,
delle cose e degli animali, sorgessero all'improvviso dal nulla; le persone
sembravano emergere dalla bruma dapprima grigie come fantasmi, poi via
via e a fatica riconoscibili.




Nato nei paesi nordici non ero nuovo a quell'elemento, che in altri momen-
ti mi avrebbe ricordato con qualche dolcezza la pianura e il castello della
mia nascita.
Ma quella mattina le condizioni dell'aria mi parvero dolorosamente affini
alle condizioni dell'anima mia, e l'impressione di tristezza con cui mi ero
svegliato si accrebbe a mano a mano che mi appressavo alla sala capito-
lare.
A pochi passi dalla costruzione vidi Bernardo Gui che si accomiatava da
un'altra persona (in prima fila una faccia nota alla storia...) che a tutta
prima non riconobbi o non volli riconoscere. Come poi mi passò accanto,
mi accorsi che era Malachia.
Si guardava intorno come chi non voglia essere scorto mentre commette
un delitto: ma ho già detto che l'espressione di quest'uomo era per natu-
ra quella di chi celi o tenti di celare, un inconfessato segreto.




Non mi riconobbe, e si allontanò.
Io, mosso dalla curiosità, seguii Bernardo e vidi che stava scorrendo con
l'occhio delle carte (per questo per tutta la durata del suo 'intervento' tut-
ti gli dicevano ... Letta?.... Letta?.... Letta?....), che forse Malachia gli a-
veva consegnato.
Sulla soglia del capitolo chiamò con un gesto il capo degli arcieri, che sta-
va nei pressi, e gli mormorò alcune parole. Poi entrò. Io gli tenni dietro.
Era la prima volta che ponevo piede in quel luogo, che al di fuori era di
modeste dimensioni e sobrie fattezze; mi avvidi che era stato ricostruito
in tempi recenti sulle spoglie di una primitiva chiesa abbaziale, forse di-
strutta in parte da un incendio.




Entrando da fuori si passava sotto un portale alla moda nuova, dall'arco
a sesto acuto, senza decorazioni e sovrastato da un rosone. Ma, all'inter-
no, ci si trovava un atrio, rifatto sulle vestigia di un vecchio nartece.
Di fronte si parava un altro portale, con l'arco alla moda antica, il timpa-
no a mezzaluna mirabilmente scolpito. Doveva essere il portale della chie-
sa scomparsa.
Le sculture del timpano erano altrettanto belle ma meno inquietanti di quel-
le della chiesa attuale. Anche qui il timpano era dominato da un Cristo in
trono; ma accanto a lui, in varie pose e con vari oggetti tra le mani, stava-
no i dodici apostoli che da lui avevano ricevuto il mandato di andare per il
mondo a evangelizzare le genti.




Sopra la testa del Cristo, in un arco diviso in dodici pannelli, e sotto i pie-
di del Cristo, in una processione ininterrotta di figure, erano rappresentati
i popoli del mondo, destinati a ricevere la buona novella.
Riconobbi dai loro costumi gli ebrei, gli arabi, gli indiani, i frigi, i bizantini,
gli armeni, gli sciiti, i romani.
Ma, frammisti a loro, in trenta tondi che si disponevano ad arco sopra l'-
arco dei dodici pannelli, stavano gli abitanti dei mondi sconosciuti, di cui
appena ci parlano il 'Fisiologo' e i discorsi dei viaggiatori.




Molti di loro mi risultarono ignoti, altri ne riconobbi: a esempio i bruti con
sei dita per mano (e dodici borse da viaggio), i fauni che nascono dai ver-
mi (esseri senza forma né anima...) che dicesi formarsi tra la corteccia e
la polpa degli alberi, le sirene (esseri multiformi dalle multiformi posizioni
anche in atti osceni in luoghi sacri alla democrazia...) con la coda squamo-
sa (dal sole estivo...), che seducono i marinai della (folle) nave, gli etiopi
dal corpo tutto nero (neri anche nelle intenzioni...), che si difendono dal-
la vampa del sole scavando caverne sotterranee, gli onocentauri, uomini
sino agli zoccoli delle loro zoccole e asini di sotto, i ciclopi con un occhio




solo (che guardano e scrutano tutto...) della grandezza di ogni scudo ru-
bato, Scilla con la testa e il petto di bambina e il resto da uomo adulto, il
ventre di lupa e la coda da delfino (ogni quattro gradini monta un politi-
co), gli uomini pelosi dell'India che vivono nelle paludi e sul fiume Epig-
maride, i cinecefali che non possono dir parola senza interrompersi e ab-
biare (a loro il Leone d'oro è grato per il futuro trono..), gli sciapodi,
che corrono velocissimi sulla loro unica gamba e quando si vogliono ri-
parare dal sole si sdraiano e rizzano il gran piede come un ombrello, gli
astromati della Grecia privi di bocca (cacciati dai più fieri Germani...),
respirano dalle narici e vivono solo d'aria (dei già detti Germani Reali.),




le donne barbute d'Armenia (estinte) e quelle di Turchia molto richieste
nelle grotte del centro di Roma, hanno la bocca nel ventre (ben volumi-
noso) e gli occhi sulle spalle (si guardano la borsa frutto del loro ultimo
guadagno..), le donne mostruose del mar Rosso, alte dodici piedi, coi
capelli che arrivano al calcagno, una coda bovina in fondo alla schiena
e zoccoli di cammello (sono accompagnate sempre da un boccale di bir-
ra...).....

Questi e atri prodigi erano scolpiti su quel portale.........
(Prosegue....)

(U. Eco, Il nome della rosa)








 

domenica 8 settembre 2013

UN PAGANO RISPONDE AD UN CRISTIANO (57)















Precedente capitolo:

I Diavoli della montagna (moderna geografia alpina) (56)

Prosegue in:

Un Eretico risponde ad un Papa (58)













Dopo secoli un Pagano risponde ad un cristiano circa il problema della Pace.
Dopo secoli frettolosamente cancellati da un certo fervore religioso ed intol-
lerranza storica.
Dopo secoli di un credo mai (e) istinto nel sapere dei nostri animi.
Dopo secoli di verità troppo spesso cancellata a beneficio di altro.
Dopo secoli dal nostro Pitagora....
La pace ed il benessere cui aspirano tutti i Pagani è ugual costruzione ed u-
gual fine a cui aspirano i suoi seguaci, con la differenza sostanziale, circa il
Tempio cui mirano con ugual intento, essere una costruzione cui tutti debbo-
no e possono maturare, al di fuori di quelle motivazioni cui il confine Filoso-
fico ed Eretico, a Lei quanto a me noto, ci distingue, in tale breve disquisi-
zione.
La mia, e dei pochi scampati dalla storia, non è falsa demagogia, è un dato
di fatto: costruire la pace significa meditare al Dio della Verità e della Giu-
stizia, fondamento di ogni finalità e principio della Libertà e del Diritto.
Costruire la pace significa innnanzitutto privare le ragioni ed i motivi della
'materia' (principi di quei confini da taluni mal interpretati, poco sopra det-
ti...) cui taluni aspirano con l'abito e la maschera di una dubbia religiosità
la quale finge di disdegnare.
Significa innanzitutto scardinare taluni meccanismi che armano la guerra
e la ricchezza che da essa deriva.
Costruire la pace significa attenersi alla verità storica non meno di quella
scientifica e sottoporsi al suo giudizio senza falsare i suoi bilanci nei secoli.
Le parlo di quel Giamblico cui i natali sono individuabili in quella terra ra-
gione della sua attuale preghiera, dove Lei predica ugual motivi con secoli
di ritardo dalla Scienza (Teologica) e dalla storia, liquidando il Sapere con
poche 'battute' del suo Nazianzo, sostituendo così il vero con il principio
deleterio della calunnia.
Costruire la pace significa saper distillare acqua limpida dal Tempio di
Madre Natura non entro la facile alchimia dell'inganno o del Mito, ma co-
noscere ragioni motivi ed errori della storia.
Ragion per cui elevarla ad un probabile pulpito per la 'quaestio' che fa  for-
za sugli istinti umani, concedendo parola a coloro che furono ugual vittime
dell'inganno e dell'ingiustizia.
Secoli di fervore dogmatico-teologico sia Islamico quanto Cristiano, hanno
portato all'altare di ogni religione migliaia di morti ammazzati come l'agnel-
lo sulla croce sacrificato e poi pregato.
La storia ci insegna che dall'alto del ricco pulpito donde lei predica, per se-
coli si sono avvicendati (ancor oggi...) motivi, ingiustizie, tirannie, priva-
zioni da far impallidire qualsiasi persona con un minimo di istinto umano.
La storia ci insegna che tanto gli Spagnoli quanto i Gesuiti in nome loro e
della loro ricchezza approdarono nella Sua ricca America compiendo in po-
chi anni quanto neppure la più malvagia natura avrebbe potuto immagina-
re, quanto e per conto del più malvagio Dio ci si sarebbe potuti attendere.
La storia ci insegna di migliaia di persone perseguitate ed uccise in nome
dell'Uomo che sicuramente tante e troppe volte è sceso da quella croce co-
stretto da taluni religiosi che lo hanno esibito per i loro misfatti indegna-
mente.
La storia ci insegna che la povertà cui gli stessi pregavano ed aspiravano
come quell'Uomo, quel Dio, quell'Agnello, quel Profeta, quel Filosofo, quel
messaggero di verità predicava, è stata ugualmente umiliata derisa e cro-
cefissa in nome di una falsa e meschina religiosità. Eretici, da Voi furono
perseguitati, e con tal pretesto privati non solo della vita e della loro di-
gnità, ma anche di ogni loro avere, nelle alterne vicende monarchiche-re-
ligiose che non cambiano le finalità di quella storia..., straniera alla veri-
tà, per questo il Dio Straniero per essa troppe volte fu umiliato e poi sa-
crificato.
La storia ci insegna che per parlare e disquisire di pace è importante non
tanto una Crociata, un Pellegrinaggio, un Giubileo, ma saper indirizzare
quei principi fondamento dello Spirito Umano rimossi e cancellati dall'in-
tolleranza religiosa, nella costanza non di una falsa preghiera, ma di una
retta e giusta educazione. Anche se questa va a contrastare quella 'mate-
ria' cui la vostra Chiesa non ha mai rinunziato.
La demagogia della salvezza, di un credo, non abbisogna di un 'falso' con-
fessore Gesuita che lava piedi e gambe a reietti di una società corrotta,
ma motivare con un analisi introspettiva la verità di quel Profeta troppe
volte tradita dalla vostra religiosità.
L'amore non si costruisce nelle arene o negli stadi, ma nella corretta, giu-
sta ed imparziale libera motivazione pedagogica fondamento della liber-
tà di ogni giovane. Anche attraverso quella matematica teologica cui
Giamblico aspirava, non certo quella cui i moderni operatori della comu-
nicazione (e non solo...) mirano.
Attraverso la verità cui il suo Nazianzo ha gettato il falso seme della
prima discordia parente stretta della calunnia su cui ugual principi hanno
perseguitato e poi ucciso il vostro Profeta quanto un Pagano ispirato al-
lo stesso Dio.
Costruire la pace significa adoperarsi al conseguimento di quella retta
fede gnostica della coscienza e dello spirito a cui ognuno può e deve
aspirare, fuggendo ed impedendo innanzitutto, tutti quei principi mate-
riali che armano la guerra e calunniano e confondono la verità, motivan-
do uno spettacolo teatrale ben esibito per le stesse ragioni di una ma-
terialità ben celata e nascosta. Non è moralmente né giuridicamente
vero né onesto verso qualsiasi credente, digiunare dopo un ricco ban-
chetto, cui né Lei né la sua banca si sono risparmiati i segreti proventi
e dividendi (della storia).
(un Pagano)
(Prosegue...)