CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

martedì 28 febbraio 2023

THE HEART OF ANDES (16)

 




















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e gli Iceberg


Prosegue con 


la Seconda parte (17) 








& ancora con... 


Macedonio (il giurista)





Confido che non avrò lettore continuato. Sarebbe colui che potrebbe causare il mio fallimento e spogliarmi della celebrità che più o meno inabilmente cerco di trafugare per qualcuno dei miei personaggi.

 

E questa di fallire è un’esibizione che non fa bene all’età.

 

Mi rimetto al lettore saltato (nel nostro caso anche in padella).

 

Ecco che hai letto tutto il mio romanzo senza saperlo, sei diventato lettore continuato e insaputo raccontandoti tutto disordinatamente e prima del romanzo. Il lettore saltato è il più esposto con me a leggere continuato.

 

Ho voluto distrarti, non ho voluto correggerti, perché al contrario sei il lettore saggio, poiché pratichi l’intraleggere che è ciò che lascia più forte impronta, secondo la mia teoria che i personaggi e i fatti solo insinuati, abilmente tronchi, sono quelli che più rimangono nella memoria.

 

Ti dedico il mio romanzo, Lettore Saltato; mi ringrazierai per una sensazione nuova: il leggere continuato. Al contrario, il lettore continuato avrà la sensazione di un nuovo modo di saltare: quello di seguire l’autore che salta.




A chi vorrà scrivere questo romanzo (Prefazione finale):

 

Lo lascio libro aperto: sarà forse il primo “libro aperto” nella storia letteraria, vale a dire che l’autore, desiderando che fosse migliore o almeno buono, e convinto che per la sua struttura sconquassata è una temeraria goffaggine nei confronti del lettore, ma anche che è ricco di suggestioni, lascia autorizzato ogni scrittore futuro di slancio e di circostanze che favoriscano un intenso lavoro, a correggerlo e a pubblicarlo liberamente, con o senza menzione della mia opera e nome. Non sarà poco il lavoro. Sopprima, emendi, cambi, ma, magari, che resti qualcosa.

 

In questa occasione insisto che la vera esecuzione della mia teoria romanzistica potrebbe compiersi solo scrivendo il romanzo di diverse persone che si uniscono per leggerne un altro, di modo che essi, lettori-personaggi, lettori dell’altro romanzo personaggi di questo, si profilino incessantemente come persone esistenti, non “personaggi”, per contraccolpo con le figure e immagini del romanzo da loro stessi letto.




Tale intreccio di personaggi letti e leggenti con personaggi solo letti, sviluppato sistematicamente, realizzerebbe un’uniforme costante esigenza della dottrina. Intreccio di doppio romanzo.

 

Lo dico per confessare che il mio libro è molto lontano dalla formula dell’arte di personaggi per mezzo della parola. Anche questa, dunque, resta come “impresa aperta”.

 

Lascio così date la teoria perfetta del romanzo, un’imperfetto esempio di esecuzione di essa, e un perfetto piano della sua esecuzione.

 

Si noti che c’è una vera possibilità nell’addossarsi della duplice trama, per cui otterrei mediante un’alchimia coscienziale un’assunzione di vita per il personaggio-lettore, con accentuazione del nulla esistenziale del personaggio-letto, che è molto più personaggio proprio per questo, che accentua il suo franco non essere con un’enfasi di inesistenza che lo purifica e esalta lungi da ogni promiscuità col reale; e nello stesso tempo ripercuote l’assunzione di esistenza del personaggio leggente nel lettore reale, che per controfigura del personaggio svanisce di esistenza lui stesso.




Questo confusionismo deliberato è probabilmente di una fecondità coscienziale liberatrice; lavoro di genuina artisticità; artificiosità feconda per la coscienza nel suo effetto di fragilizzare la nozione e certezza di essere, da cui procede l’universale intimidazione dell’ugualmente assurda e vacua nozione verbale del non-essere. Non c’è altro che un non-essere: quello del personaggio, quello della fantasia, quello dell’immaginato. L’immaginatore non conoscerà mai il non essere.

 

Se la nostra sensibilità, che è tutta la Realtà e tutto ciò che siamo, tutto ciò che c’è ed è, avesse cessazione, e cessazione sarebbe quindi la nostra supposta inesistenza anteriore alla nascita come la supposta inesistenza susseguente alla morte, cioè, sia la cessazione che cessa con la nascita che quella che comincia con la morte — se un giorno cessassimo di esistere... non lo sapremmo mai, non è vero?




 Qualcosa che non accade nella sensibilità, nel sentire - che è l’unico modo possibile dell’Essere, al di fuori di esso non c’è nulla; mai è esistito qualche cosa che non fosse, lei tutta, un mero sentire - non accade né è, in alcun modo. E poiché nulla che non sia un sentire può essere un avvenimento della sensibilità, la cessazione della sensibilità non sarebbe un fatto della sensibilità, poiché essendo tutto sensibilità ciò che non accade in essa non accade in alcun modo. Non c’è possibilità che un giorno notiamo di non esistere. Per parlare della vita bisogna esistere, e per parlare o pensare al nulla, anche. La morte non è il nulla, ma nulla è. Non esiste l’opposto della vita; il suo contrario non esiste.

 

Ma potremmo sapere se un tempo siamo stati morti, se poi ricominciassimo ad esistere?

 

Il non esistere non sa nulla; l’esistere può sapere il non esistere?

 

C’è qualche cosa che non sia mai stata un presente per il pensiero, che non abbia mai potuto essere pensata presentemente e che tuttavia il pensiero possa pensarla come ricordo o come idea, senza esser mai stata immagine o percezione attuale, senza esser mai stata un’attualità per il pensiero?




Tale sarebbe l’intrigo del pensiero del nulla; la morte non ha mai avuto attualità nel pensiero, poiché pensare è esistere, e d’altra parte perché qualcosa possa essere pensato speculativamente, è previo che almeno una volta questo qualcosa e il pensiero siano stati simultanei.

 

Il sonno, il deliquio sono queste situazioni supposte di inesistenza (poiché colui che nulla sente nulla è) seguite da esistenza. E dato che d’altra parte nulla esiste se non è sentito, ed esiste solo mentre viene sentito, se qualcuno per un istante non sentisse nulla, in quell’istante si sarebbe verificata la perfetta inesistenza del mondo (mondo e sensibilità sono due nomi di una stessa cosa). Se per un minuto io non esistessi, il mondo durante quel minuto sarebbe cessato. Sarebbe un minuto senza mondo.

 

Credere in un istante senza mondo, in una durata del non sentito, del non sentire, significa credere nella realtà del Tempo.




Non è l’insistente, ma impretenziosa visita del nitido, intero e senza doppiezza, dell’irreprimibile e non annunciato Sogno - dalla venuta non propagandata e non ostacolabile, sottile e irrecuperabile la sua partenza, assoluto nel suo cessare come fatale nel suo avvento, privo di precursioni e di tracce, assoluto, totale sempre, come l’Essere di cui è la più chiara nozione, e sempre intaccante, mai insignificante - ad averci procurato preoccupazione, perplessità, ma la Realtà che pretendendo di essere qualcosa di più di ciò che è e più del Sogno, che è intero e concluso in sé quale vuol essere, si è fatta problematica e bisognosa di documento.

 

Essa pretende due categorie: ordinamento causale tra i suoi fenomeni, il che è empiricamente verificabile o invalidabile (senza compromettersi con l’induzione, cioé solo per quanto riguarda il Passato), e sostanzialità, vale a dire, autonomia rispetto all’eventualità di essere sentita o meno, vale a dire autoesistenza di fronte alla Sensibilità. Tale è la condizione di cose che ha creato, non certamente la Realtà ma i pensatori o la Speculazione, che si sono indotti a una trascendenza dell’esternalità e che proseguendo in questa ricerca di essenze sono giunti al noumeno come sostanza della Materia e della Soggettività, col che la Realtà e la Sensibilità sono divenute fantasmali, limitate alla categoria di Sogno Primo; i sogni sarebbero il Sogno Secondo. Sia dunque la Realtà la messa in questione, non il Sogno, che è la semplice verità di se stesso.

 

A credito o discredito del Sogno gli si distingue o oppone la Realtà.




Con le definizioni di effettivo, esterno, reale o trascendentale, si enuncia un sistema o una serie di stati considerati originari - e inoltre sostanziali, persino per i noumenisti, che quando si tratta di confrontare sogno e veglia dimenticano che nella loro tesi sogno e veglia sono ugualmente fantasmi del noumeno - dei quali i sogni o immagini vengono considerati copie o contraffazioni.

 

E secondo Schopenhauer sembra che Hobbes abbia insinuato per la prima volta le circostanze in cui una scena resterebbe per sempre inclassificabile, se reale o sognata. Si rifletta che tale accadimento si può verificare spesso nella nostra esistenza (poiché le circostanze che si limita a insinuare Hobbes sono: scena di un accadimento che non necessita di conseguenze percettibili, e cadere addormentato all’improvviso durante il giorno, per stanchezza e vestito, in una poltrona) e si giudichi quanto di fantasia, paura o mistero, come lo si voglia sentire, corre col tessuto del nostro quotidiano essere, nell’ordito delle nostre ore, che ci accontentiamo di considerare reali e che forse sono continuamente rubate ai sogni.

 

Che succede con la privazione professionale, in Letteratura, delle parole? Sembra che, o senza di esse non si possa effettuare alcuna soperchieria, o che senza di esse non ci sia altra via che Pensare, avere idee, possedere verità, sapere; bisognerebbe rassegnarsi a pensare e a giudicare con serietà e ad esprimere con semplice efficacia.




Bisogna reinventare il refuso, perché questa decadenza della letteratura universale deve derivare dal fatto che si portano al tipografo gli scritti già battuti a macchina, ossia riveduti. I letterati dovrebbero commissionare macchine speciali che di tanto in tanto, nello scrivere alcune delle parole più usuali, ad esempio alla decima volta che in un componimento apparisse la parola “finestra”, la macchina creativamente e automaticamente scrivesse “violetta”. Chissà che non si ottenga una resurrezione della grande arte letteraria, delle grandi messi metaforiche e aggettivali.


Nascere è una beffa: arriviamo e già ci sono altri. In quantità così immensa che in senso stretto è peggio essere uno di loro che non essere.

 

Può non piacermi nulla. Ma se lo dico; se dico: “niente voglio, desidero, mi piace (ennuyé de tout)”, c’è già qualcosa che è un piacere per me, che mi piace e per il cui gusto resto nell’esistenza: dirlo; poiché ogni agire è per il piacere o per un minor dolore: dire è un piacere, è un movimento volontario. È un piacere dire che ormai non c’è più piacere per me.

 

Bisogna insegnare a credere, ma più ancora a non credere.




Perché in ognuno ci sia un po’ di bontà verso tutti, è necessario che non si creda che ce ne sia molta. L’uomo che si strugge per l’umanità e anche per la propria patria, è una menzogna: la verità e ciò che serve e basta perché tutto vada bene, è amare molto se stessi, la propria famiglia e i propri amici, un po’ i vicini e la città, un pochino il proprio paese, quasi niente l’umanità, e niente del tutto la Specie, l’umanità di un’altra epoca.

 

L’Umanità già nel 1913 andava verso le seguenti Totalità:

 

Totale Urbanismo, fino alla soppressione di ogni Natura e Meteorologia.

 

Totale Proletarismo, vale a dire che nessuno consumi nulla di ciò che produce, vale a dire mercantilità, baratto totali.

 

Macchinismo.

 

Trust Universale: un solo Padrone al Mondo. Totale Istruzione Pubblica: sarebbe la madre e padre-surrogato, vietando che i genitori insegnino qualcosa ai figli.




 Totale Diplomismo: persino per ignorare qualcosa, chi non avesse diploma verrebbe perseguito, come oggi i guaritori; adesso si può ancora ignorare senza diploma: un giorno questo sarà permesso solo con un diploma speciale.

 

Totale Democrazia, ossia Governo Assoluto della Maggioranza.

 

Alienazione della totale attività: “full time”: non consumare nulla del proprio lavoro, fino a farsi soffiare il naso e portare il cibo alla bocca dalla mano di un altro.

 

Totale Giornalismo: nessuno sa quando pioverà o ci sarà la rivoluzione e cosa si deve fare, se non il Giornale.

 

Totale Cinema: ogni individuo paga un’imposta per ogni giorno che non va al Cinema.

 

Totale Standardizzazione: non ci sono gusti personali.

 

Ogni cinquant’anni la plebe ha bisogno di vedere gli aristocratici occupati in lavori umilianti, e soprattutto le contesse o gran dame.

 

E ha ragione, perché gli aristocratici dovrebbero sacrificarsi un po’ e darle qualche agio; ma essendo sopravvenuta la banalità, né l’operaio vuol lavorare né l’aristocratico preoccuparsi della catastrofe che si avvicina.

 

L’umanità ha bisogno dello Spettacolo, ogni cinquant’anni. Allora un aristocratico transfuga -per beghe con la sua classe - diserta ed è il capo della plebe.

 

Se non ci fosse la morte, non ci sarebbero battaglie.

 

Se un congresso scientifico o politico annunciasse di aver scoperto il trattamento e il sistema di vita dell’immortalità - salvo accidenti traumatici o tossici - a questa notizia si disperderebbero tutti gli eserciti del mondo, dato che l’individuo accetta di morire perché sa che morirà.

 

La cosa più geniale che esista consiste forse nel credere, con adozione, nella morte: prendere per sé, senza preferirla, la cessazione. Forse la morte uccide di malavoglia chi di buona voglia, ma senza preferirla, muore; chi dimostra di trovare lo stesso gusto nel morire che nel dormire, sgonfia la morte di tutta la sua eternità. La credenza nell’immortalità è molto poco geniale paragonata a questo.


(PROSEGUE VERSO LA PATAGONIA)



 





domenica 26 febbraio 2023

il Racconto della Domenica, ovvero, L'INNOMINABILE ATTUALE











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circa gli Iceberg







Il mondo secolare è pronto a seguire ogni sorta di teorie, soprattutto se dichiarano di avere fondamento nella scienza. Ma ci sono anche le rivelazioni, che non sa come trattare, perché stenta a riconoscerle. Simone Weil aveva quella capacità e la esercitava senza lasciarsi intimidire dalla storia: 

 

Il Vangelo è l’ultima e meravigliosa espressione del genio greco, come l’Iliade ne è la prima.

 

Per giungere ad affermazioni come questa, il presupposto era che la Grecia e i Vangeli fossero due rivelazioni, indipendenti e non discordanti. Per mostrare come avveniva quel riconoscimento, la Weil ricorreva alla metafora della percezione di una scatola cubica:

 

Non c’è punto di vista dal quale la scatola abbia l’apparenza di un cubo: si vedono sempre solo alcune facce, gli angoli non sembrano retti, i lati non sembrano uguali. Nessuno ha mai visto, nessuno vedrà mai un cubo. Per ragioni analoghe, nessuno ha mai toccato né mai toccherà un cubo. Se si gira intorno alla scatola, si genera una varietà infinita di forme apparenti. Nessuna di queste è la forma cubica.




Al tempo stesso sappiamo benissimo che la forma cubica costituisce l’unità di tutte quelle forme mutevoli. E ‘anche la loro verità’, aggiungeva la Weil, che considerava questo un dono divino, per cui nella nostra sensibilità era già ‘racchiusa una rivelazione’. Da questa rivelazione si poteva passare a cogliere tutte le altre. Perciò l’Iliade poteva essere una rivelazione a cui si collegava il Vangelo – o anche la Bhagavad Gītā. Sembrerebbe un’evidenza.

 

Ma per il mondo secolare la scatola cubica non c’è.

 

Homo saecularis non è così contrario alle religioni in sé. Le religioni somigliano molto alle ideologie – e con queste ultime è abituato ad avere a che fare ogni giorno. Chi dice di essere cristiano non deve essere molto diverso da chi dice di essere vegetariano. Sono tutti gruppi, comunità, confraternite. Si può essere comunisti – come anche culturisti. Ogni scelta va rispettata. Sono tutte minoranze. Nicchie. Quel che l’Homo saecularis invece non riesce a cogliere è il divino.

 

Non sa situarlo.

 

Non rientra nell’ordine delle cose.

 

Delle sue cose.




Divino e sacro: che cosa accade se qualcuno che non è incline a professare una qualsiasi religione riconosce quelle due parole e ne ha esperienza, non meno intensa di quella di un fedele? Dovrà ammettere che quelle due parole indicano qualcosa che sussiste in sé, ancor prima e al di fuori di ogni culto. E già questo invita a squarciare l’involucro protettivo e soffocante costituito dalla superstizione della società.

 

Il divino è ciò che Homo saecularis ha cancellato, con cura, con insistenza. Lo ha anche espunto dal lessico di ciò che è. Ma il divino non è come una roccia, che tutti inevitabilmente vedono. Il divino deve essere riconosciuto. E il riconoscimento è l’atto supremo verso il divino. Atto sporadico, momentaneo, non trasponibile in uno stato. ‘Incessu patuit dea’, il divino è come il passo di una dea, che si fa avanti e subito va oltre. Il divino è uno scintillamento discontinuo, che rinvia a qualcosa di compiuto e continuo.

 

Per Homo saecularis tutto questo era evanescente e contrario alla fisiologia che aveva elaborato in se stesso. Era vano, ormai, rivolgere i propri desideri in quella direzione. Fra tutte le varietà di Homo saecularis solo i membri della Società degli Amici del Crimine, raccontati da Sade, sapevano attuare desideri precisi, circostanziati e inequivocabili.




 Tutto il mondo secolare e democratico si fonda sul libero arbitrio e sulla fede nella scienza. Ma la scienza non dà alcun segno di credere all’esistenza del libero arbitrio. Anzi, sulla base di argomenti ed esperimenti diversi, lo nega. La vita pubblica, al tempo stesso, va avanti come se ciò non fosse. Altrimenti i sistemi giudiziario, amministrativo, politico, economico si bloccherebbero all’istante. Il dilemma è così grave da non essere riconosciuto.

 

A partire da Libet fino a Wegner e a Chun Siong Soon, gli esperimenti a cui ci si riferisce usualmente per suffragare la negazione del libero arbitrio riguardano decisioni, come quella di premere o non premere un certo pulsante. Ma il momento della decisione motoria è solo uno spicchio del continuum cosciente.

 

Che cosa avviene in uno stato di immobilità, come quello di chi si trova seduto in una poltrona o è insonne o contempla o sta leggendo una pagina?

 

La scienza può offrire solo risposte di due tipi: neuroni che sparano cariche elettriche o eventi subatomici. Ma come stabilire che questi eventi accadano qualche millisecondo prima della loro controparte cosciente, se non sappiamo in che cosa consiste tale controparte?




E come potremmo comunque tradurre in termini di coscienza quegli eventi neurali?

 

Attraverso quali tramiti?

 

Ogni volta sarebbe un tragitto dove il punto di partenza è definibile con alta precisione, mentre rimarrebbe immancabilmente nebuloso il punto di arrivo.

 

In una riunione accademica di alto livello si dà per sottinteso che non vi siano credenti ma che tutti aspirino a essere decenti. Nessuno appartiene a una confessione (salvo eccezioni che rientrano nell’ambito dell’eccentricità), ma tutti condividono alcuni princìpi elementari di comportamento e di giudizio. Una voragine però si spalanca appena si comincia a indagare su che cosa siano fondate quelle condivisioni. E nessun altro gruppo sociale si appella così spesso alla libertà (di ricerca, di pensiero), mentre al tempo stesso è compatto nel negare il libero arbitrio.

 

Ci sono frasi letali, che dicono molto più di ciò che vorrebbero dire. Così, nell’epilogo della synopsis del suo prossimo libro, Chalmers annuncia il vicino futuro con uno squillo di tromba: ‘Mind starts bleeding into the world’. ‘La mente comincia a stingere sul mondo’, ma anche ‘La mente comincia a sanguinare sul mondo’. Il primo è il significato inteso da Chalmers. Il secondo è ciò che accade.




Per i teorici della realtà virtuale, un cruccio costante è stabilire quale differenza vi sia fra realtà virtuale e realtà comune. Searle ha osservato che un uragano virtuale non bagna – e in un primo momento l’osservazione può sembrare dirimente. Gli fu risposto che, come le parole possono avere molteplici significati, così gli uragani virtuali possono distinguersi da quelli comuni, pur rimanendo uragani nell’esperienza di chi li subisce. 

 

Ma sono modeste soddisfazioni. Il vero spartiacque è un altro. La realtà virtuale è concentrata a combattere un solo nemico: Ananke, la Necessità. La sua mira è eluderla, vanificandola. Finché un giorno... In quel giorno, forse non troppo lontano, anche un attentato virtuale potrà far sanguinare la mente sul mondo.

 

Con il suo protuberante visore, destinato a essere miniaturizzato, come tutto, e alla fine sostituito con chip endocranici, il frequentatore della realtà virtuale, anche detta realtà aumentata, è un discendente diretto del turista che va in cerca di esperienze estreme. Entrambi operano una sospensione temporanea dell’irreversibile. Il primo sa che può togliersi in ogni momento il visore, l’altro che un certo giorno tornerà a casa. Sospendere l’irreversibile implica sfuggire all’entropia.

 

Il giovane Buddha seguì la via inversa.




Lasciò la casa del padre, che sembrava irraggiungibile dal mutamento, per incontrare l’irreversibile nel suo triplice volto di malattia, vecchiaia, morte. Fu quella, per lui, la realtà aumentata. Ma il Buddha disse solo che era la realtà tathā, ‘così’. E insegnò a vedere la tathatā, ‘l’essere così’ di ciò che è.

 

Se l’intelligenza è stata assorbita in algoritmi non coscienti che però funzionano in modo più efficace della mente – descrizione abbreviata della rivoluzione informatica –, è facile immaginare, come passo successivo, che la coscienza subisca qualcosa di simile. Ma appunto qui si incontra qualche ostacolo imprevisto.

 

L’intelligenza può essere concepita come una successione di stati discreti, simulabili in linea di principio anche all’esterno della mente.

 

Ma la coscienza?




Qui, nonostante il profluvio di scritti che ne trattano, è inevitabile giungere a una osservazione paralizzante: nessuno sa di che cosa è fatta la coscienza. E non solo non lo sappiamo, ma ogni apparato che dovrebbe avvicinarci a saperlo, come per esempio la fMRI o la microscopia tridimensionale, non fa che accrescere il nostro senso di inadeguatezza. Eppure siamo convinti che la coscienza sia un’entità presente nella totalità degli umani, anche se avremmo qualche difficoltà a provarlo, mentre per l’intelligenza siamo in grado di offrire una quantità di verifiche.

 

La coscienza è la barriera invisibile contro cui cozza l’informazione.

 

È l’unico smacco che dovrà accettare quella potenza abituata a propagarsi in ogni direzione. E ovviamente pronta a continuare a farlo, a dispetto di ogni smacco.

 

Anche se amputati del senso del divino, i transumanisti sentono una acuta attrazione verso ciò che il religioso, nella varietà delle sue manifestazioni, prometteva. Ed era sempre una qualche specie di salvezza. Questa però non deve più lasciarsi contenere in una forma rituale, ma diventare palpabile. Penoso equivoco – manipolare l’invisibile. Che sfugge e si ritrae.




Con l’apparizione dei transumanisti, i secolaristi hanno svelato quella che da sempre era la loro mira: non accantonare il religioso, ma incorporarlo, usandolo ai propri fini. Era questo il loro piano occulto, che ora finalmente può diventare esplicito, grazie al soccorso della tecnologia. Prima mancavano i mezzi.

 

A distanza di un secolo esatto, si è passati dal dadaismo al dataismo, da Dada a Big Data. E c’è chi sostiene che Big Data soppianterà Sapiens e lo trascinerà come un fuscello nel maestoso flusso informatico. Allora saremo vicini a sapere quasi tutto ciò che non ci importa sapere. Mentre ulteriori algoritmi certamente sapranno trarne profitto.

 

Non è escluso che il dataismo venga considerato un giorno un caso di farneticazione, come la dottrina del Reverendo Jones. Ma quel giorno non è vicino. Non solo una larga parte di ciò che accade si muove in quella direzione, ma una non piccola parte degli umani gradisce che così sia. Evidentemente c’è qualcuno che agogna una nuova ‘religione’ e si sente appagato se gli viene detto che ‘il valore supremo di questa nuova religione è il “flusso di informazione”’. A questo punto Homo saecularis, con i suoi nobili valori umanistici, si sentirà obsoleto come una beghina dei tempi antichi.




Dada fu il momento della sconnessione universale, rivendicata e perseguita attraverso una sistematica abrasione del significato (e questo corrispondeva a una sconnessione in atto, che si stava compiendo negli anni 1914-1918). Dataismo è il momento della connessione coatta, che sopprime tutto ciò che le sfugge e dove ogni soggetto diventa un fiero e irrilevante soldatino di silicio in un esercito di cui tutti ignorano dove si trovi – e se vi sia – lo Stato Maggiore.

 

Homo diventa enormemente più potente se simula se stesso, imitandosi in modo incompleto e difettoso. Se invece riuscisse a produrre copie identiche, rimarrebbe qual è. Ed è questa una sua suprema stranezza. La macchina di Turing è così potente perché imita il processo mentale come se fosse una successione di stati discreti, mentre così non è. E Turing stesso lo ha precisato.

 


Parola-cardine in questo ambito è simulazione. Tanto più significativo appare se, fra i transumanisti, c’è chi la sostituisce con emulazione, sviluppando addirittura, come Randal Koene, un ‘emulation project’. L’intenzione della mossa è eufemizzante, perché così si riesce a cancellare il connotato di falsità inscindibilmente connesso alla simulazione. Ma di fatto il caso si aggrava, invece di alleggerirsi, perché l’emulazione spinge alla massima evidenza il carattere competitivo dell’imitazione. E con ciò la sua implicita violenza. L’emulo è il più temibile nemico, perché la sua mira è di sostituirsi a chi gli fa da modello, non assoggettandolo ma eliminandolo.

 

Su questi dogmi, secondo Harari, si fonda la religione del dataismo: ‘Gli umanisti pensavano che le esperienze avvengono in noi e che dovremmo trovare all’interno di noi stessi il significato di tutto ciò che accade, infondendo così significato nell’universo. I dataisti credono che le esperienze sono prive di valore se non sono condivise e che non occorre – anzi non si può – trovare significato all’interno di noi stessi. Occorre soltanto che registriamo e connettiamo la nostra esperienza al grande flusso di dati, e gli algoritmi scopriranno il suo significato e ci diranno che cosa fare’.




 Harari, al pari di Bentham, appartiene a quegli esseri che hanno il dono di dire con brutale chiarezza ciò che molti altri non sanno di pensare già – e non oserebbero formulare. A tali esseri si deve gratitudine, perché permettono di sapere con esattezza con che cosa ci si trova a trattare.

 

Rispetto al vecchio Bentham, che non era particolarmente forte nel dubbio, il nuovo Bentham riesce a incorporare il dubbio nella sua dimostrazione. Dopo aver descritto l’inevitabile sfociare del tutto nel ‘flusso cosmico dei dati’, Harari lascia cadere, come niente fosse, un’osservazione letale:

 

nel giro di venti anni, forse scopriremo che gli organismi non sono affatto algoritmi.

 

La frase viene buttata lì con noncuranza, ma le sue conseguenze sono distruttive. Quindi il dataismo potrebbe essere uno di quegli errori che hanno vita lunga: ‘Molte religioni del passato hanno raggiunto una enorme popolarità e potenza nonostante i loro errori fattuali. Se il cristianesimo e il comunismo ci sono riusciti, perché non il dataismo?’. Rimane tuttavia difficile valutare il cristianesimo nei termini dei suoi ‘errori fattuali’.

 

Forse l’assenza di prove per la resurrezione della carne?




Ma i veri suggerimenti esoterici vengono in coda e sono acuminati: ‘Nel passato, la censura ha operato bloccando il flusso di informazione. Nel ventunesimo secolo, la censura opera sommergendo la gente con informazione irrilevante’. Teorema da cui discende un corollario: ‘Oggi avere potere significa sapere che cosa ignorare’. È una glossa a un nuovo Machiavelli – e come tale va presa sul serio.

 

Per la scienza non c’è ancora una definizione adeguata, onnicomprensiva di informazione – e tanto meno una definizione adeguata di coscienza. Sono due entità con cui chiunque ha in ogni istante a che fare, senza poter dire che cosa siano.

 

I rapporti tra informazione e coscienza possono anche essere visti come un episodio dell’alternanza, sovrapposizione, scontro fra discreto e continuo che perennemente si dà nell’intera natura. E, sotto specie di analogico e digitale, si presenta come carattere essenziale del nostro sistema nervoso. Lo aveva avvertito con la massima chiarezza von Neumann in quel piccolo libro, The Computer and the Brain, che è il Grifone sulla soglia della scienza dei calcolatori. Ma la questione si era posta ben prima.




Secondo Simone Weil, ‘a partire dalla Grecia, la scienza è una sorta di Dialogo fra il continuo e il discontinuo’. Dialogo inevitabile perché ‘il discontinuo e il continuo sono un dato della mente umana; che pensa necessariamente l’uno e l’altro; ed è naturale che passi dall’uno all’altro’. Ma è un Dialogo che può diventare anche guerra. E la guerra usa manifestarsi innanzitutto  come invasione di territori. Può avvenire allora qualcosa che ‘ripugna alla ragione, cioè che il discontinuo venga applicato a grandezze essenzialmente continue. Ed è appunto il caso del tempo e dello spazio’. Più di settanta anni dopo, la maggioranza dei fisici obietterebbe alla Weil su questo punto.

 

Ma c’è un altro territorio dove il discreto ha condotto una inarrestabile invasione, incontrando soltanto una scarsa resistenza: il territorio della mente, nonché quello della coscienza. Invasione accompagnata da imponenti risultati empirici, che operano nella vita di tutti. Ancora più radicale è stato il rivolgimento che di conseguenza si è prodotto nelle concezioni della mente e della coscienza, l’una e l’altra ormai annesse ai territori del discreto. È questo l’occulto spartiacque che segna la distanza fra il nuovo millennio e il precedente. E non vi sono segnali che l’impero nascente sia disposto a riconoscere di essere fondato su tale pervicace, letale fraintendimento.




L’informazione non può che essere discreta. La coscienza è una informe mescolanza del discreto e del continuo, ma la sua stessa informità la dispone dalla parte del continuo. Appartiene a un sostrato non autosufficiente, inciso da vari orifizi, attraverso i quali respira ed evacua, dipendendo in ogni istante dal mondo esterno. L’informazione è tendenzialmente autistica. Ha bisogno soltanto di una presa di corrente, quindi presuppone un ordine sociale tale da fornire energia in modo costante e sicuro. In ciò simile a quello che è il principale desideratum dei transumanisti: una vita indefinitamente prolungata, al fine di smussare ogni residuo sentimento tragico dell’esistenza. Vita che sarebbe occupata da un incessante turbine di bit, in ogni angolo della coscienza. Con i transumanisti, la società sperimentale si avvicina alla sua forma ultima e perfetta: non sperimentare soltanto su se stessa, in quanto entità onniavvolgente, ma su ciascuna delle sue componenti, per quanto minuscole. 

(R. Calasso)