CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

giovedì 23 febbraio 2023

GLI ICEBERG (14)













Precedenti capitoli...:



 





circa i Terremoti  (11/3) 


Prosegue con la....:









Musica del silenzio e


il rumore del nulla  (15)  


& Misticismo 


o Realtà Universale 


& nel cuore delle Ande  (16/7)







I giorni tra gli iceberg trascorsero lentamente…

 

Stavo lassù nella cabina, sul ponte, oppure andavo a prua, o salivo in plancia con il binocolo e l’album da disegno…

 

Gli iceberg erano come Frammenti che passavano galleggiando: una geografia diversa, pensavo, da quella che avevo imparato leggendo e crescendo (un panorama in cui pochi possono comprenderne la bellezza nascosta  vera Natura delle cose in questo mondo a riverso raccontato…).

 

Gli iceberg creano uno sconosciuto senso di spazio perché l’orizzonte si ritrae da loro e il cielo ascende, dietro, senza linee di comprensione (e dalla medesima ed uguale comprensione possiamo dedurre i comportamenti della Materia assente al vero paesaggio della Natura, ma ora taci e ascolta!).




È questa prospettiva che incuteva paura alle famiglie dei pionieri non meno dei nuovi e vecchi esploratori e avventurieri. Ragion per cui come far comprendere al dotto quanto all’ignorante suo servo ed allievo la bellezza se non attraverso la metafora dell’Arte qual Natura intera?

 

Gli iceberg… dunque…




Quando l’artista scompare in un progressivo smarrimento di ‘ego’, e la vera autrice dell’Opera detta è la Terra: la ‘luce’ è come una creatura, una parte viva e integrante dell’intera scena!

 

Il Paesaggio è luminoso, imponente, reale!

 

Cessa di essere semplicemente simbolico, come lo è in Europa.

 

…Al vertice del suo successo di pubblico e di critica, nel 1859, Frederic Edwin Church, uno dei più eminenti luministi, s’imbarcò per il lago al largo della costa di Terranova, voleva disegnare gli iceberg, i quali gli sembravano la materializzazione della luce in Natura. I piccoli schizzi che aveva realizzato dal vero hanno una meravigliosa intimità, Church rende tanto la monolitica imperscrutabilità degli iceberg quanto l’aspetto logoro e tormentato che hanno quando arrivano a sud, nel Mare del Labrador. Osservando attentamente un disegno eseguito il primo di luglio, notai che Church vi aveva tracciato sotto, a matita, le parole:

 

strano sovrannaturale.




Il quadro ad olio che ricavò dagli schizzi fu chiamato Gli iceberg. È così imponente che l’osservatore ha quasi la sensazione di potervi entrare, com’era appunto l’intenzione dell’artista. In primo piano v’è uno zoccolo di ghiaccio, parte di un iceberg che riempie quasi tutto il quadro e si erge bruscamente sulla sinistra. A destra, lo zoccolo di ghiaccio inondato diventa parte d’una grotta scavata dall’acqua. Al centro, nella distanza, c’è una baia in bonaccia, che si apre sulle acque oceaniche più scure a sinistra, e queste continuano verso un orizzonte tempestoso e altri iceberg più lontani. Sullo sfondo, dall’altra parte della baia, domina un’alta muraglia di ghiaccio e di neve che si estende completamente a destra del quadro. Nell’aria dell’oceano, in alto, aleggia una nebbia ondulata. Le ombreggiature e le forme degli iceberg sono tracciate con mano esperta ed i colori, per quanto leggermente abbelliti, sono veri…

 


Vi sono due stranezze in questo paesaggio divenuto molto famoso, la prima, quando fu presentato a New York il 24 aprile 1861, la reazione fu meno entusiasta di quanto si aspettasse l’artista; ma Gli iceberg differiva dal resto delle sue opere per un dettaglio cruciale:

 

non vi era traccia d’esseri umani.

 

Convinto di aver forse commesso un errore, Church riportò l’opera nel suo studio e aggiunse in primo piano un rottame d’un naufragio, una parte dell’albero maestro con la relativa coffa. Poi il quadro fu presentato a Boston, dove non ebbe un’accoglienza migliore da quella ricevuta a New York. Soltanto quando arrivò a Londra i critici e il pubblico si entusiasmarono. La Gran Bretagna con la sua lunga storia di esplorazioni artiche apprezzava assai più il soggetto dell’opera.

 

La seconda stranezza è che il quadro di Church ‘sparì’ per 116 anni.




Nel 1863 fu acquistato da Sir Edward Watkin, dopo la presentazione londinese, e venne appeso nella sua tenuta presso Manchester, chiamata Rose Hill, quindi venne ereditato dal figlio e fu poi venduto con il resto della proprietà; in seguito fu donato alla vicina chiesa di Saint Wilfred, ma venne restituito a Rose Hill perché di dimensioni troppo grandi.

 

Prima del 1979 Rose Hill era diventata un riformatorio; Gli iceberg, che era appeso senza cornice su una scala, era stato firmato (impropriamente) da uno dei ragazzi del riformatorio (ignaro - ed ignari - del valore che questo rappresentava, il riformatorio del resto è anch’esso un ampio quadro in rappresentanza della propria società tradotta anche in ‘socialità’; un aspetto cioè, altrettanto paesaggistico della società qui dedotta e rappresentata, ma noi come l’artista volgiamo l’occhio al Paesaggio astenendoci al riformatorio espressione di una determinata natura propriamente umana….); ed i proprietari bisognosi di fondi per il riformatorio l’offrirono in vendita; il quadro così tornò a New York ed il 25 ottobre 1979 fu venduto all’asta per due milioni e mezzo di dollari, il prezzo più alto pagato per un dipinto negli Stati Uniti sino a quel momento.




La decisione di aggiungere a Gli iceberg l’albero maestro spezzato attesta senza dubbio l’intuito commerciale di Church ma anche qualcosa di più complesso: e questo giudizio è nel contempo troppo cinico e troppo semplicistico.

 

Per quanto ci sforziamo, in ultima analisi possiamo ricavare ben poco senso dalla natura senza far ricorso a sistemi del genere. Sia che si tratti di spoglie affermazioni della presenza umana come l’albero cruciforme di Church, oppure degli strumenti intangibili e metaforici della mente, noi portiamo i nostri mondi nei paesaggi che ci sono estranei (oppure i quali non comprendiamo talché diventano orridi incomprensibili alieni pazzeschi…), allo scopo di chiarirli ai nostri stessi occhi.

 

È difficile che potremmo fare diversamente, corriamo il rischio di trovare la nostra autorità finale nelle ‘metafore’, anziché nella Terra. Indagare le complessità di un paesaggio lontano, dunque significa provocare pensieri circa il proprio paesaggio interiore ed i paesaggi familiari della memoria: la Terra ci sprona (assieme alla Natura che la compone) a comprendere noi stessi. 




Molti occidentali hanno pensato ad un confronto con le cattedrali quando hanno cercato una metafora per gli iceberg, e credo che le motivazioni siano più profonde delle ovvie corrispondenze delle linee e della scala. È  una cosa legata alla nostra passione per la luce (chi vive o vegeta nel torpore della ‘materia’ poco o nulla comprende, scorge solo un iceberg ed una strana Natura parente ed affine alla pazzia di una vita o un’opera malmente e nebbiosamente descritta giacché per taluni il ghiaccio è solo ciò che affiora da un bicchiere stracolmo di ciò che doppiamente s’intende per Vita…)…

 

I primi iceberg che avevamo visto, appena a nord  dello Stretto di Belle Isle, inclinati e sventrati dall’oceano, sembravano immensamente tristi, sfiniti da qualche  calamità  sconosciuta. Li  abbiamo superati.  Più  a  nord cominciarono a sembrare dei ritardatari caduti  dietro un esercito, alla deriva, egocentrici, nell’acqua, cupi e  immensi. Era come se  fossero stati portati giù da un  mondo di miti, un Götterdämmerung di rumore e  catastrofe.

 

Pezzi  caduti della  luna.




Più a nord si fermarono nei loro viaggi con maggiore  forza. Erano monolitici; le loro mura, torreggianti e  scoscese, suggerivano il Palazzo Potala a Lhasa in Tibet,  un’architettura montuosa di contemplazione ascetica.  Passavamo in mezzo a loro, separati da loro da non più  di mezzo miglio. Camminavo da un lato all’altro della  nave, chiedendomi come qualcosa di così imponente nel suo suggerimento di  vita potesse essere avvicinato così  da vicino, eppure sembrare così remoto. Era come  stare su un dirigibile al largo dell’Annapurna e dell’Everest nell’Himalaya.

 

La suggestione della vita intorno a loro non era  un’illusione. Le foche e gli stormi di uccelli marini erano  attratti dal branco di pesci nelle acque ricche di nutrienti  alla loro base, una risalita guidata dal deflusso di acqua  dolce dall’iceberg, che si riversava nell’acqua più leggera  dell’oceano salato. Con il  mio  binocolo  potevo  seguire  le sciarpe di acqua di disgelo turchese che si  dispiegavano a 400 piedi verso il mare.




Di tanto in tanto mi allontanavo dalla finestra di  tribordo per  fare uno schizzo o per osservarli con  il binocolo. Mi sono alquanto meravigliato del  comportamento della  luce  attorno  agli  iceberg  quanto  del loro austero e implacabile procedere attraverso  l’acqua.  Hanno  preso  il  loro  colore dal sole,  dalle  nuvole  e  dall’acqua.  Ma  prendevano  anche  le  loro  dimensioni  dalla  luce: quanto  più  forte e  diretta era,  tanto maggiore era il contrasto la superficie del  ghiaccio,  del ghiaccio stesso con il  mare.  E  tanto  più  finemente  incise erano  le  superfici  opache  delle  loro  pareti.  Più  blu è il cielo,  più  luminoso  è  il  loro  contorno  contro  di esso.

 

Ho scritto le parole per le tinte: i  grigi delle colombe  e delle perle, del fumo. Isolato col mio binocolo,  l’alto  bastione di un iceberg simile a una cattedrale gotica sembrava  staccarsi  come un muro di talco umido. Un  altro era arrotondato dolcemente, come una fronte  umana contro il  cielo, ed era butterato e rigato, il  disegno della pancia lacerata di  un capodoglio.  Paesaggi  fluttuanti, orografici: sezioni  spezzate  da  una catena  montuosa: creste innevate, valli  di  circhi,  cime  aguzze. Le ripide pareti  spesso cadevano a strapiombo sul  mare, come peci di granito, le loro superfici sfaccettate  come giada grezza,  o più grossolane, come ossidiana  abrasa.




Dove le pareti entravano nell’acqua, la risacca le  batteva,  creando  caverne,  grotte  e  ponti  di  ghiaccio,  rafforzando  l’impressione  di  scogliere  marine. Sulla  linea di galleggiamento il ghiaccio luccicava color  acquamarina  contro  le  sue  pareti  bianco-grigie.  Dove  l’acqua  di  disgelo  aveva  riempito  le  fessure  o  creato  degli  stagni,  le  pozze  e  le  vene  erano  di  un  blu  latteo  o  sfumavano  in  un  blu  marino  più  luminoso,  a  seconda  dello  spessore  del  ghiaccio.  Se  l’iceberg  si  era  fratturato  di  recente,  la sua  nuova faccia brillava  di  un  blu  verdastro:  i  verdi  nelle  facce  più  vecchie  e segnate dalle intemperie erano più grigi. Al  crepuscolo  il  ghiaccio assumeva i colori del sole: rosa, gialli  rossastri, viola acquosi, rosa tenui. Il  ghiaccio  rifletteva  la luce e la intrappolava nei suoi angoli e bordi  cristallini,  dove si  intensificava.

 

Il carico di rocce, ghiaia, limo e sabbia che gli  iceberg  portano dentro di sé riga i loro fianchi; mentre si  sciolgono, salgono più in alto nell’acqua e i detriti  nella  loro acqua bassa creano una serie di segni di linea di  galleggiamento.  Mentre  si  fratturano  e  si  inclinano,  i  modelli dei segni della linea di galleggiamento si  incrociano ad angoli dispari e si inclinano ancora verso  il cielo.




È impossibile sapere quanta parte giace sott’acqua:  quattro quinti della sua altezza e sette ottavi della sua  massa è la regola generale del  marinaio. E la forma di  ognuno cambia al passaggio della nostra nave.  Appaiono nuove valli, pendii di neve battuta dal vento,  bastioni e guglie e scogliere colonnari.

 

Un giorno, bassi ponti di nubi cumuliformi in  direzione sud-est aprono un orizzonte a ovest e a nord.  Alla luce del sole splendente gli iceberg ora  brillano di un bianco accecante nell’acqua nera come vele illuminate dalla tempesta. Dopo un po’ gli iceberg vicino all’orizzonte rompono con la superficie dell’oceano per galleggiare bassi nel cielo azzurro pallido. Quattro o cinque  di  loro, miraggi  lontani,  che  sembravano non prendere sul serio il  momento. Torno, sorridendo,  a  quelli immediatamente prima di me, e rinnovo il mio misero schizzo in confronto alla maestosa bellezza.




Fisso per ore dalla finestra di tribordo queste  creature che non ho mai visto prima. Passano alla deriva  nel bel tempo sculacciato. Come sembrano  assolutamente immobili,  non  ortodossi  e  meravigliosi. 

 

La maggior parte degli iceberg dell’emisfero  settentrionale  si  stacca  dai  ghiacciai  occidentali  della  calotta glaciale della Groenlandia, nelle baie di Disko e  Melville.

 

Si spostano a nord nella corrente della Groenlandia  occidentale per un po’ e poi  vengono a sud lo stesso anno o l’anno successivo con la corrente canadese fino  al mare del Labrador.  Per quanto imponenti, gli  iceberg sono sminuiti dalle isole di ghiaccio, una specie di ghiaccio che si è formato lungo la costa settentrionale  della Groenlandia e  la costa  nord-occidentale dell’isola  di Ellesmere dalle piattaforme di ghiaccio che si  estendono al largo nelle  insenature dell’oceano (La  struttura e il comportamento del ghiaccio di  piattaforma  sono stati paragonati a quelli sia del ghiaccio glaciale che  del ghiaccio marino, anche se in senso stretto non lo è  nessuno dei due).




Nella banchisa polare, dove costituiscono basi di  deriva ideali e a lungo termine per la  ricerca scientifica. Sono strutturalmente solidi e le loro cime piatte, uniformemente ondulate come un tetto di lamiera, offrono una piattaforma di lavoro vicino alla  superficie  dell’acqua.

 

Estesi quasi quanto le isole di ghiaccio ma molto più  spessi sono gli iceberg tabulari, che si staccano interi dai  piedi di un ghiacciaio di marea.  Con un volume di  40 o  50 miglia cubiche, sono gli oggetti più grandi che  galleggiano nell’emisfero settentrionale. Altri tipi di  ghiaccio artico d’acqua dolce includono il ghiaccio che  si forma sui fiumi artici e sui laghi e stagni della tundra  (che possono congelare sul fondo in inverno), e le lenti  e le fette di ghiaccio macinato all’interno del  permafrost.  Questi ultimi influenzano la formazione di una  geometria  distintiva  delle  crepe del gelo nella tundra  chiamata  ‘terreno  modellato’ e sollevano i tumuli  emisferici, o bolle di gelo, chiamati pingos (Un noto  ammasso di circa 150 pingo, di età compresa tra 3000 e  5000 anni, sorge vicino  a  Toker  Point, appena ad est  della foce del fiume Mackenzie.).

 

Il ghiaccio marino che si forma sulla superficie  dell’oceano si comporta in modi meno prevedibili  rispetto al  ghiaccio  d’acqua dolce,  a  seconda  di  come  si forma e si altera e di  quanti  anni  ha.  La  sua  fisica  -  la distribuzione delle forze al suo interno, la gamma  della sua elasticità e plasticità, la qualità strutturale dei  suoi reticoli cristallini - è estremamente complessa.  ‘Quasi una sostanza sulla terra’, scrive uno scienziato,  ‘è  così docile, così inaspettatamente complicata, così  ingannevolmente  passiva’. 

(B. Lopez)









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