CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

domenica 26 febbraio 2023

il Racconto della Domenica, ovvero, L'INNOMINABILE ATTUALE











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circa gli Iceberg







Il mondo secolare è pronto a seguire ogni sorta di teorie, soprattutto se dichiarano di avere fondamento nella scienza. Ma ci sono anche le rivelazioni, che non sa come trattare, perché stenta a riconoscerle. Simone Weil aveva quella capacità e la esercitava senza lasciarsi intimidire dalla storia: 

 

Il Vangelo è l’ultima e meravigliosa espressione del genio greco, come l’Iliade ne è la prima.

 

Per giungere ad affermazioni come questa, il presupposto era che la Grecia e i Vangeli fossero due rivelazioni, indipendenti e non discordanti. Per mostrare come avveniva quel riconoscimento, la Weil ricorreva alla metafora della percezione di una scatola cubica:

 

Non c’è punto di vista dal quale la scatola abbia l’apparenza di un cubo: si vedono sempre solo alcune facce, gli angoli non sembrano retti, i lati non sembrano uguali. Nessuno ha mai visto, nessuno vedrà mai un cubo. Per ragioni analoghe, nessuno ha mai toccato né mai toccherà un cubo. Se si gira intorno alla scatola, si genera una varietà infinita di forme apparenti. Nessuna di queste è la forma cubica.




Al tempo stesso sappiamo benissimo che la forma cubica costituisce l’unità di tutte quelle forme mutevoli. E ‘anche la loro verità’, aggiungeva la Weil, che considerava questo un dono divino, per cui nella nostra sensibilità era già ‘racchiusa una rivelazione’. Da questa rivelazione si poteva passare a cogliere tutte le altre. Perciò l’Iliade poteva essere una rivelazione a cui si collegava il Vangelo – o anche la Bhagavad Gītā. Sembrerebbe un’evidenza.

 

Ma per il mondo secolare la scatola cubica non c’è.

 

Homo saecularis non è così contrario alle religioni in sé. Le religioni somigliano molto alle ideologie – e con queste ultime è abituato ad avere a che fare ogni giorno. Chi dice di essere cristiano non deve essere molto diverso da chi dice di essere vegetariano. Sono tutti gruppi, comunità, confraternite. Si può essere comunisti – come anche culturisti. Ogni scelta va rispettata. Sono tutte minoranze. Nicchie. Quel che l’Homo saecularis invece non riesce a cogliere è il divino.

 

Non sa situarlo.

 

Non rientra nell’ordine delle cose.

 

Delle sue cose.




Divino e sacro: che cosa accade se qualcuno che non è incline a professare una qualsiasi religione riconosce quelle due parole e ne ha esperienza, non meno intensa di quella di un fedele? Dovrà ammettere che quelle due parole indicano qualcosa che sussiste in sé, ancor prima e al di fuori di ogni culto. E già questo invita a squarciare l’involucro protettivo e soffocante costituito dalla superstizione della società.

 

Il divino è ciò che Homo saecularis ha cancellato, con cura, con insistenza. Lo ha anche espunto dal lessico di ciò che è. Ma il divino non è come una roccia, che tutti inevitabilmente vedono. Il divino deve essere riconosciuto. E il riconoscimento è l’atto supremo verso il divino. Atto sporadico, momentaneo, non trasponibile in uno stato. ‘Incessu patuit dea’, il divino è come il passo di una dea, che si fa avanti e subito va oltre. Il divino è uno scintillamento discontinuo, che rinvia a qualcosa di compiuto e continuo.

 

Per Homo saecularis tutto questo era evanescente e contrario alla fisiologia che aveva elaborato in se stesso. Era vano, ormai, rivolgere i propri desideri in quella direzione. Fra tutte le varietà di Homo saecularis solo i membri della Società degli Amici del Crimine, raccontati da Sade, sapevano attuare desideri precisi, circostanziati e inequivocabili.




 Tutto il mondo secolare e democratico si fonda sul libero arbitrio e sulla fede nella scienza. Ma la scienza non dà alcun segno di credere all’esistenza del libero arbitrio. Anzi, sulla base di argomenti ed esperimenti diversi, lo nega. La vita pubblica, al tempo stesso, va avanti come se ciò non fosse. Altrimenti i sistemi giudiziario, amministrativo, politico, economico si bloccherebbero all’istante. Il dilemma è così grave da non essere riconosciuto.

 

A partire da Libet fino a Wegner e a Chun Siong Soon, gli esperimenti a cui ci si riferisce usualmente per suffragare la negazione del libero arbitrio riguardano decisioni, come quella di premere o non premere un certo pulsante. Ma il momento della decisione motoria è solo uno spicchio del continuum cosciente.

 

Che cosa avviene in uno stato di immobilità, come quello di chi si trova seduto in una poltrona o è insonne o contempla o sta leggendo una pagina?

 

La scienza può offrire solo risposte di due tipi: neuroni che sparano cariche elettriche o eventi subatomici. Ma come stabilire che questi eventi accadano qualche millisecondo prima della loro controparte cosciente, se non sappiamo in che cosa consiste tale controparte?




E come potremmo comunque tradurre in termini di coscienza quegli eventi neurali?

 

Attraverso quali tramiti?

 

Ogni volta sarebbe un tragitto dove il punto di partenza è definibile con alta precisione, mentre rimarrebbe immancabilmente nebuloso il punto di arrivo.

 

In una riunione accademica di alto livello si dà per sottinteso che non vi siano credenti ma che tutti aspirino a essere decenti. Nessuno appartiene a una confessione (salvo eccezioni che rientrano nell’ambito dell’eccentricità), ma tutti condividono alcuni princìpi elementari di comportamento e di giudizio. Una voragine però si spalanca appena si comincia a indagare su che cosa siano fondate quelle condivisioni. E nessun altro gruppo sociale si appella così spesso alla libertà (di ricerca, di pensiero), mentre al tempo stesso è compatto nel negare il libero arbitrio.

 

Ci sono frasi letali, che dicono molto più di ciò che vorrebbero dire. Così, nell’epilogo della synopsis del suo prossimo libro, Chalmers annuncia il vicino futuro con uno squillo di tromba: ‘Mind starts bleeding into the world’. ‘La mente comincia a stingere sul mondo’, ma anche ‘La mente comincia a sanguinare sul mondo’. Il primo è il significato inteso da Chalmers. Il secondo è ciò che accade.




Per i teorici della realtà virtuale, un cruccio costante è stabilire quale differenza vi sia fra realtà virtuale e realtà comune. Searle ha osservato che un uragano virtuale non bagna – e in un primo momento l’osservazione può sembrare dirimente. Gli fu risposto che, come le parole possono avere molteplici significati, così gli uragani virtuali possono distinguersi da quelli comuni, pur rimanendo uragani nell’esperienza di chi li subisce. 

 

Ma sono modeste soddisfazioni. Il vero spartiacque è un altro. La realtà virtuale è concentrata a combattere un solo nemico: Ananke, la Necessità. La sua mira è eluderla, vanificandola. Finché un giorno... In quel giorno, forse non troppo lontano, anche un attentato virtuale potrà far sanguinare la mente sul mondo.

 

Con il suo protuberante visore, destinato a essere miniaturizzato, come tutto, e alla fine sostituito con chip endocranici, il frequentatore della realtà virtuale, anche detta realtà aumentata, è un discendente diretto del turista che va in cerca di esperienze estreme. Entrambi operano una sospensione temporanea dell’irreversibile. Il primo sa che può togliersi in ogni momento il visore, l’altro che un certo giorno tornerà a casa. Sospendere l’irreversibile implica sfuggire all’entropia.

 

Il giovane Buddha seguì la via inversa.




Lasciò la casa del padre, che sembrava irraggiungibile dal mutamento, per incontrare l’irreversibile nel suo triplice volto di malattia, vecchiaia, morte. Fu quella, per lui, la realtà aumentata. Ma il Buddha disse solo che era la realtà tathā, ‘così’. E insegnò a vedere la tathatā, ‘l’essere così’ di ciò che è.

 

Se l’intelligenza è stata assorbita in algoritmi non coscienti che però funzionano in modo più efficace della mente – descrizione abbreviata della rivoluzione informatica –, è facile immaginare, come passo successivo, che la coscienza subisca qualcosa di simile. Ma appunto qui si incontra qualche ostacolo imprevisto.

 

L’intelligenza può essere concepita come una successione di stati discreti, simulabili in linea di principio anche all’esterno della mente.

 

Ma la coscienza?




Qui, nonostante il profluvio di scritti che ne trattano, è inevitabile giungere a una osservazione paralizzante: nessuno sa di che cosa è fatta la coscienza. E non solo non lo sappiamo, ma ogni apparato che dovrebbe avvicinarci a saperlo, come per esempio la fMRI o la microscopia tridimensionale, non fa che accrescere il nostro senso di inadeguatezza. Eppure siamo convinti che la coscienza sia un’entità presente nella totalità degli umani, anche se avremmo qualche difficoltà a provarlo, mentre per l’intelligenza siamo in grado di offrire una quantità di verifiche.

 

La coscienza è la barriera invisibile contro cui cozza l’informazione.

 

È l’unico smacco che dovrà accettare quella potenza abituata a propagarsi in ogni direzione. E ovviamente pronta a continuare a farlo, a dispetto di ogni smacco.

 

Anche se amputati del senso del divino, i transumanisti sentono una acuta attrazione verso ciò che il religioso, nella varietà delle sue manifestazioni, prometteva. Ed era sempre una qualche specie di salvezza. Questa però non deve più lasciarsi contenere in una forma rituale, ma diventare palpabile. Penoso equivoco – manipolare l’invisibile. Che sfugge e si ritrae.




Con l’apparizione dei transumanisti, i secolaristi hanno svelato quella che da sempre era la loro mira: non accantonare il religioso, ma incorporarlo, usandolo ai propri fini. Era questo il loro piano occulto, che ora finalmente può diventare esplicito, grazie al soccorso della tecnologia. Prima mancavano i mezzi.

 

A distanza di un secolo esatto, si è passati dal dadaismo al dataismo, da Dada a Big Data. E c’è chi sostiene che Big Data soppianterà Sapiens e lo trascinerà come un fuscello nel maestoso flusso informatico. Allora saremo vicini a sapere quasi tutto ciò che non ci importa sapere. Mentre ulteriori algoritmi certamente sapranno trarne profitto.

 

Non è escluso che il dataismo venga considerato un giorno un caso di farneticazione, come la dottrina del Reverendo Jones. Ma quel giorno non è vicino. Non solo una larga parte di ciò che accade si muove in quella direzione, ma una non piccola parte degli umani gradisce che così sia. Evidentemente c’è qualcuno che agogna una nuova ‘religione’ e si sente appagato se gli viene detto che ‘il valore supremo di questa nuova religione è il “flusso di informazione”’. A questo punto Homo saecularis, con i suoi nobili valori umanistici, si sentirà obsoleto come una beghina dei tempi antichi.




Dada fu il momento della sconnessione universale, rivendicata e perseguita attraverso una sistematica abrasione del significato (e questo corrispondeva a una sconnessione in atto, che si stava compiendo negli anni 1914-1918). Dataismo è il momento della connessione coatta, che sopprime tutto ciò che le sfugge e dove ogni soggetto diventa un fiero e irrilevante soldatino di silicio in un esercito di cui tutti ignorano dove si trovi – e se vi sia – lo Stato Maggiore.

 

Homo diventa enormemente più potente se simula se stesso, imitandosi in modo incompleto e difettoso. Se invece riuscisse a produrre copie identiche, rimarrebbe qual è. Ed è questa una sua suprema stranezza. La macchina di Turing è così potente perché imita il processo mentale come se fosse una successione di stati discreti, mentre così non è. E Turing stesso lo ha precisato.

 


Parola-cardine in questo ambito è simulazione. Tanto più significativo appare se, fra i transumanisti, c’è chi la sostituisce con emulazione, sviluppando addirittura, come Randal Koene, un ‘emulation project’. L’intenzione della mossa è eufemizzante, perché così si riesce a cancellare il connotato di falsità inscindibilmente connesso alla simulazione. Ma di fatto il caso si aggrava, invece di alleggerirsi, perché l’emulazione spinge alla massima evidenza il carattere competitivo dell’imitazione. E con ciò la sua implicita violenza. L’emulo è il più temibile nemico, perché la sua mira è di sostituirsi a chi gli fa da modello, non assoggettandolo ma eliminandolo.

 

Su questi dogmi, secondo Harari, si fonda la religione del dataismo: ‘Gli umanisti pensavano che le esperienze avvengono in noi e che dovremmo trovare all’interno di noi stessi il significato di tutto ciò che accade, infondendo così significato nell’universo. I dataisti credono che le esperienze sono prive di valore se non sono condivise e che non occorre – anzi non si può – trovare significato all’interno di noi stessi. Occorre soltanto che registriamo e connettiamo la nostra esperienza al grande flusso di dati, e gli algoritmi scopriranno il suo significato e ci diranno che cosa fare’.




 Harari, al pari di Bentham, appartiene a quegli esseri che hanno il dono di dire con brutale chiarezza ciò che molti altri non sanno di pensare già – e non oserebbero formulare. A tali esseri si deve gratitudine, perché permettono di sapere con esattezza con che cosa ci si trova a trattare.

 

Rispetto al vecchio Bentham, che non era particolarmente forte nel dubbio, il nuovo Bentham riesce a incorporare il dubbio nella sua dimostrazione. Dopo aver descritto l’inevitabile sfociare del tutto nel ‘flusso cosmico dei dati’, Harari lascia cadere, come niente fosse, un’osservazione letale:

 

nel giro di venti anni, forse scopriremo che gli organismi non sono affatto algoritmi.

 

La frase viene buttata lì con noncuranza, ma le sue conseguenze sono distruttive. Quindi il dataismo potrebbe essere uno di quegli errori che hanno vita lunga: ‘Molte religioni del passato hanno raggiunto una enorme popolarità e potenza nonostante i loro errori fattuali. Se il cristianesimo e il comunismo ci sono riusciti, perché non il dataismo?’. Rimane tuttavia difficile valutare il cristianesimo nei termini dei suoi ‘errori fattuali’.

 

Forse l’assenza di prove per la resurrezione della carne?




Ma i veri suggerimenti esoterici vengono in coda e sono acuminati: ‘Nel passato, la censura ha operato bloccando il flusso di informazione. Nel ventunesimo secolo, la censura opera sommergendo la gente con informazione irrilevante’. Teorema da cui discende un corollario: ‘Oggi avere potere significa sapere che cosa ignorare’. È una glossa a un nuovo Machiavelli – e come tale va presa sul serio.

 

Per la scienza non c’è ancora una definizione adeguata, onnicomprensiva di informazione – e tanto meno una definizione adeguata di coscienza. Sono due entità con cui chiunque ha in ogni istante a che fare, senza poter dire che cosa siano.

 

I rapporti tra informazione e coscienza possono anche essere visti come un episodio dell’alternanza, sovrapposizione, scontro fra discreto e continuo che perennemente si dà nell’intera natura. E, sotto specie di analogico e digitale, si presenta come carattere essenziale del nostro sistema nervoso. Lo aveva avvertito con la massima chiarezza von Neumann in quel piccolo libro, The Computer and the Brain, che è il Grifone sulla soglia della scienza dei calcolatori. Ma la questione si era posta ben prima.




Secondo Simone Weil, ‘a partire dalla Grecia, la scienza è una sorta di Dialogo fra il continuo e il discontinuo’. Dialogo inevitabile perché ‘il discontinuo e il continuo sono un dato della mente umana; che pensa necessariamente l’uno e l’altro; ed è naturale che passi dall’uno all’altro’. Ma è un Dialogo che può diventare anche guerra. E la guerra usa manifestarsi innanzitutto  come invasione di territori. Può avvenire allora qualcosa che ‘ripugna alla ragione, cioè che il discontinuo venga applicato a grandezze essenzialmente continue. Ed è appunto il caso del tempo e dello spazio’. Più di settanta anni dopo, la maggioranza dei fisici obietterebbe alla Weil su questo punto.

 

Ma c’è un altro territorio dove il discreto ha condotto una inarrestabile invasione, incontrando soltanto una scarsa resistenza: il territorio della mente, nonché quello della coscienza. Invasione accompagnata da imponenti risultati empirici, che operano nella vita di tutti. Ancora più radicale è stato il rivolgimento che di conseguenza si è prodotto nelle concezioni della mente e della coscienza, l’una e l’altra ormai annesse ai territori del discreto. È questo l’occulto spartiacque che segna la distanza fra il nuovo millennio e il precedente. E non vi sono segnali che l’impero nascente sia disposto a riconoscere di essere fondato su tale pervicace, letale fraintendimento.




L’informazione non può che essere discreta. La coscienza è una informe mescolanza del discreto e del continuo, ma la sua stessa informità la dispone dalla parte del continuo. Appartiene a un sostrato non autosufficiente, inciso da vari orifizi, attraverso i quali respira ed evacua, dipendendo in ogni istante dal mondo esterno. L’informazione è tendenzialmente autistica. Ha bisogno soltanto di una presa di corrente, quindi presuppone un ordine sociale tale da fornire energia in modo costante e sicuro. In ciò simile a quello che è il principale desideratum dei transumanisti: una vita indefinitamente prolungata, al fine di smussare ogni residuo sentimento tragico dell’esistenza. Vita che sarebbe occupata da un incessante turbine di bit, in ogni angolo della coscienza. Con i transumanisti, la società sperimentale si avvicina alla sua forma ultima e perfetta: non sperimentare soltanto su se stessa, in quanto entità onniavvolgente, ma su ciascuna delle sue componenti, per quanto minuscole. 

(R. Calasso)








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