CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

domenica 7 giugno 2020

una grande invenzione ovvero: IL TRICICLO VELOCIMANO (33)




















Precedenti capitoli:
















Della depressione 

(prima e dopo i Ciukki)  [32/1]


Sottinteso che prosegua in...:

















Bicicletta (34)













Il Decimonono secolo, che può   veramente dirsi benemerito nella storia dei popoli, poiché vide sorgere ed affermarsi le maggiori e le più utili concezioni del genio umano, comprende certamente tutto il periodo storico del ‘velocipedismo’.

Il ciclismo, nel senso preciso della parola, venne assai più tardi, e si affermò come sport e come abitudine solo dopo l’invenzione della bicicletta. L’invenzione del ‘velocipiede’, per quanto ci è noto, data da tempo relativamente non lontano. Nulla ci conforta a ritenere che nei tempi antichi alcuno abbia avuta l’idea di creare un veicolo direttamente posto in azione dalla forza muscolare dell’uomo, né gli archeologi hanno voluto darsi fino ad oggi pensiero di ricercare nella notte dei tempi la prova ipotetica di un simile avvenimento, affatto trascurabile da molti punti di vista, e soprattutto da quello… archeologico.




E poiché nessuno papiro fino a noi giunse e nessun venerabile monumento rimase ad attestare l’esistenza di un ‘velocipiede’ assiro o egizio, o semplicemente greco o romano, noi dobbiamo pure, risalendo a traverso i tempi, arrestarci a poco più di due secoli da oggi, al 1693, per ritrovare la prima notizia attendibile di una velleità a ribellarsi al tardigrado destino che la misura impose all’homo sapiens, mentre tanti altri animali della creazione nacquero e nascono dotati di mezzi sufficienti a concedere loro naturalmente una facile e  notevolissima rapidità di moto.

E se dalla antica invidia dell’uomo primitivo per l’aquila dal volo maestoso e per la gazzella agilissima possono aver tratto origine, a traverso infinite creazioni e trasformazioni, anche il pallone dirigibile e l’aeroplano che già oggi afferma la meravigliosa possibilità di un principio che sovrasta – è veramente il caso di dirlo – alla vita intensa del ventesimo secolo, è non meno certo che nella istoria del ‘velocipedismo’ il primo timido tentativo può essere paragonato anche alla più modesta delle attuali biciclette come la catapulta e lo specchio ustorio agli odierni formidabili mezzi di offesa e di distruzione.




Nel 1300-1600 poche ed incerte sono le notizie che risalgono a quell’epoca. Si tratta generalmente di vetture primitive a forza di braccia, con bastoni o rudimentali congegni di corde e leve. Certo è che i primi tentativi non sopravvissero ai loro inventori specialmente per l’enorme peso e l’eccessiva complicazione. Tuttavia nella biblioteca di Wolfenbuttel, in Germania, si conserva un manoscritto, che farebbe risalire fino al XIV secolo, e che descrive una specie di ‘velocipiede’ a quattro ruote, guidato per mezzo di un manubrio. 

E nella cronaca della città di Meiningen esumata dal dott. Schozer, si ricorda che al 9 di gennaio del 1447…

 Venne per la Kalchsthor fino al mercato, e di nuovo se ne andò, una carrozza perfetta nelle sue parti, non tirata da cavallo o da bue; essa era coperta, e dentro vi si vedeva il ‘maestro’ che l’aveva costruita e che con meccanismo interno la dirigeva.




Del 1625 abbiamo, più che una memoria, una leggenda. Secondo l’inglese Henry Fetherstone, il gesuita Ricius avrebbe discesa la riva del Gange, da Chinchiang-fu a Checkiang-ham-tcheu, a cavalcioni di un apparecchio da lui inventato, composto di tre ruote ineguali complicate con leve e barre.

Una cronaca di Norimberga ricorda pure che verso il 1649 un tal Hans Hautsch abbia inventato un congegno mosso da ingranaggi che percorreva duemila passi l’ora e poteva arrestarsi e mettersi in moto a capriccio di chi lo guidava. Si dice pure che tale congegno sia stato venduto a Stoccolma al principe Carlo Gustavo e che l’inventore abbia provvista anche una berlina di gala, del sistema medesimo, alla Corte Danese.




Sembra al contrario veramente storico il tentativo di certo dott. Richard, francese, medico alla Rochelle, nato nel 1645 e morto nel 1706, vittima della sua medesima invenzione. L’illustre Ozanam, membro della  Academie Royale des Sciences, citava, in un suo rapporto alla Accademia medesima una sorta di macchina, sufficientemente pesante, che aveva in compenso il difetto di non potersi muovere che se un terreno liscio e piano.

Della moderna automobile questo apparecchio può dirsi precursore – ben che azionato dalla sola forza umana – poiché la storia dice che esso finì fracassato, in fondo a una ripida discesa, in uno col suo inventore.

Vogliamo riportare testualmente la descrizione di questa macchina, data da Ozanam nella relazione citata:

Un valletto, collocatosi sulla parte posteriore della vettura, la spingeva avanti appoggiando i piedi alternamente su due pezzi di legno, collegati a due ruote che agiscono sull’asse della vettura stessa.




Si ha poi una vaga nozione di uno Stefano Farfler o Tarflersh orologiaio d’Aldorft che nel 1703, essendo sciancato, avrebbe costruito per recarsi alla chiesa una specie di ‘triciclo velocimane’. Si dice che l’arcivescovo abbia concesso molte indulgenze al pio inventore. Ma anche questa notizia deve accogliersi con ogni riserva, non essendo essa provata o suffragata da disegni o documenti attendibili.

Bachaumont ricorda pure i  tentativi fatti da altri, in Francia, al principiare del XVIII secolo, con vetture e congegni diversi, mossi dalla sola forza muscolare dell’uomo, e narra che allora gli inventori richiesero al Reggente il permesso di farne…. una esposizione! Il permesso fu loro negato, ma non per questo diminuirono le smanie e il numero degli inventori, imbevuti di false teorie e legati alla utopia dei congegni inutili, complicati e pesanti.




Nondimeno, sotto Luigi XVI, qualche altro parto mostruoso e informe degli inventori poté, se bene fuggevolmente interessare la frivola Corte di Versailles. Altre esperienze, in questo volger di tempo, si sarebbero fatte in Italia: a Genova, Padova e Bologna; però nessun nome e nessuna memoria precisa pervenne sino a noi. L’Inghilterra, che tanta parte e tanto cospicua ebbe poi nella costruzione dei velocipedi, ricorda la macchina di certo John Vevers, ed altri minori e trascurabili tentativi.

D’altronde, di tutte queste curiose invenzioni nulla è rimasto. Nulla che potesse dirsi utile e geniale, non un avantreno articolato e libero, non un ingranaggio, non un principio di meccanica anche rozza e infantile che la scienza moderna abbia potuto, sia pure trasformandolo e migliorandolo, studiare e applicare!




Ogni pagina della storia del velocipedismo, nel primo periodo storico, dimostra luminosamente l’assoluta esattezza di un assioma principe della scienza meccanica, oggi da tutti riconosciuto: una invenzione non vale e non dura che per la sua semplicità.

Tutti i tentativi che abbiamo finora numerati ci presentano solo dei veicoli a tre, quattro o più ruote. La costruzione di macchine a due ruote collocate l’una dietro l’altra veniva a sopprimere molti dei gravi inconvenienti dei precedenti modelli, quali l’eccessivo peso e i numerosi attriti, ed apriva la via a quella serie di modificazioni per cui i velocipedi giunsero alla perfezione odierna.

A chi per primo sia venuta questa idea non è ben certo.




I célerifères, le draisiennes e gli hobby-horses ne rappresentano però indubbiamente le prime applicazioni. Il periodo veramente storico ha pertanto inizio nel 1790, con la creazione di un nuovo tipo di macchina che tutti gli autori sono d’accordo nel ritenere il capostipite del velocipedismo. Ne fu inventore, a quanto si afferma e si ripete, un signor de Livrac o de Civrac, francese, che la battezzò celerifero.

I celeriferi si componevano di due ruote di legno poste l’una dietro l’altra e collegate mediante spranghe su cui era appoggiato una specie di rozzo cavalluccio, o un leone; il cavaliere lo inforcava e a forza di spinte alternate dei piedi sul terreno riusciva a mettere in moto la pesante macchina di legno. L’equilibrio era in certo modo ottenuto appoggiandosi con le mani alla testa del cavallo o del leone: si dice tuttavia che le cadute non mancassero. Per lungo tempo il celerifero non subì altri cambiamenti che quello d’aver trasformato il nome in velocifero (mentre era detto ‘velocipede’ la persona che lo montasse), e lo ritroviamo nelle caricature degli ultimi anni della rivoluzione francese, e sotto l’Impero.


Nel 1800 abbiamo ricordate – e la data e l’avvenimento meritano veramente di esserlo – le prime corse velocipedistiche, fatte con celeriferi, ai Campi Elisi di Parigi. La cronaca parla di vere e proprie scommesse; la modernità si avvicinava evidentemente a gran passi, con i bookmakers e i totalizzatori… 

(Prosegue con la Bicicletta!)













sabato 6 giugno 2020

LA GRANDE 'DEPRESSIONE' (italiana) & L'INCONTRO CON I CIUKKI (31)




















Precedenti capitoli dei...:

Cercatori d'oro (29/30)


Prosegue con...:












L'incontro con i Ciukki (32)














La mattina di martedì 9 agosto 1887, mentre penetrava con passo lento nella campagna subito fuori Verona – oggi quell’area è stata mangiata dalla città – lo sguardo stanco del comandante Giacomo Bove fu richiamato dai lunghi lari di gelsi che delimitavano i campi di stoppe.

…Con il passo indebolito dalla malattia superò il fosso con un salto e atterrò nella terra nuda, di proprietà della cascina Casetta del conte Giovanni Pellegrini. Di fronte, come tirata da un righello, partiva la lunga sequenza dei gelsi.

Si mise a camminare contandoli uno per uno.

Uno, due, tre, cinque, nove.

Finché scelse il suo.

E lo toccò con il palmo della mano, come per presentarsi. Il vento leggero tra i rami faceva tremare allegramente le foglie. Si sbottonò il cappotto color caffelatte, si tolse il cappello e lo appese a un ramoscello nella parte bassa della pianta. Si accomodò appoggiandosi delicatamente al tronco. La corteccia del gelso è dura, bruna e fessurata, sembra lava solidificata. La sentì dietro la schiena.




E attese qualche istante.

Chissà quanto?

Per lui dovrà essere stata un’eternità. Il tempo, si sa, non unisce sempre uguale a se stesso: le attese lo dilatano. E questa era l’attesa delle attese. Infilò la mano destra nella tasca della giacca. Cavò fuori un pacchetto di lettere tenute da uno spago. Le contò facendole passare a una a una, di costa, sul pollice. Cinque. Sì, ci sono tutte, pensò. Osservò anche le due fotografie e di sua moglie Luisa, con al fianco la figlioletta adottiva di otto anni Maddalena Giuseppina. Poi ripose ogni cosa ordinatamente nella tasca.

Lì le avrebbero trovate.

Tutto era calmo. Oltre il volo di una farfalla, la campagna infuocata esplodeva nella forza vitale dell’estate. Il canto degli uccellini che volteggiavano intorno alla chioma del gelso si mischiava al primo frinire delle cicale del giorno. Presto sarebbe esploso il caldo. Estrasse dalla tasca la rivoltella. La guardò. Tolse la sicura. Sparò in aria per provare. E la puntò alla tempia destra.




Nessuno udì i due colpi di pistola che deflagrarono nel silenzio… Fu diverse ore dopo, verso mezzogiorno, quando il sole spioveva a picco, che qualcuno si accorse.

Un contadino che passò sui campi ad oriente dalla cascina casetta fu attratto da una macchia chiara alla base dei filari di gelso. Si avvicinò incuriosito. E di colpo si fermò! Sgomento! Poi corse da dove era venuto per dare l’allarme. I primi ad accorrere furono due carabinieri a cavallo. Il contadino tornò con un medico, alcuni curiosi e il fattore a servizio del conte Pellegrini. Ben presto intorno al gelso macchiato di sangue si assiepò una dozzina di persone.

Non fu difficile definire l’identità dell’uomo, né ricostruire i fatti che lo avevano condotto alla morte, dovuta inequivocabilmente a quel foro rosso sulla tempia destra.

Anche a quest’uomo in tasca avevano trovato cinque lettere e due fotografie che ritraevano una donna giovane ed elegante, che portava una crocchia spessa come una fune sulla nuca.

L’ultima lettera delle cinque, aperta, indirizzata alla Pubblica sicurezza di Milano. La parola ‘Milano’, sulla busta, era stata però cancellata da due righe a matita e corretta con ‘Verona’.

Evidentemente c’era stato un cambio di programma.

Uno dei carabinieri si sentì autorizzato ad esaminarne il contenuto lì sul posto.

Lesse.

‘Ringrazio Dio di avermi spinto al triste passo. Meglio il Nulla che Niente!’.




Alla fine della lettera il carabiniere si imbatté in un post scriptum aggiunto a matita. Così recitava con tono sorprendentemente ironico, che lasciò ulteriormente di stucco i presenti:

‘Aneddoto: quando ieri mattina andai a prendere la rivoltella, da un armaiolo della città, mi disse: - Signore, con quest’arma ammazzerebbe un bove -. Fatalità! Ed io sono Bove’.




Tre anni dopo la sua morte gli esperti locali deliberarono la linea del percorso per un tracciato (alpinistico) a lui dedicato….

Il giorno della sua morte, invece…, ecco arrivare in bicicletta un giovane dall’aria attenta e circospetta, che non sarebbe passato inosservato. Lo conoscevano tutti in città. Era l’inviato dell’Arena.

Il suo nome era Emilio Salgari…

Leggiamo nella stessa Arena…

Tra i primi ad accorrere sul corpo esanime alle porte di Verona fu Emilio Salgari, all’epoca giovane reporter dell’Arena.

Davanti a sé, quella mattina, Salgari si ritrovò l’uomo che lui stesso avrebbe voluto essere e nel quale si sarebbe immedesimato per il resto della vita viaggiando con la fantasia nei luoghi più remoti del pianeta.




Bove aveva navigato su tutti gli oceani, mentre Salgari – come ben noto - non si muoverà mai dalla sua fumosa stanzetta adibita a studio. Eppure Salgari, come Bove, si farà chiamare ‘Capitano’ e ‘Lupo di mare’. E dichiarerà in un’intervista rilasciata a un giornalista:

‘Ho viaggiato molto, arrivando fino allo Stretto di Bering’, proprio lo stretto attraversato per la prima volta da Giacomo Bove.

E non è finita…

Bove era stato uno dei primi italiani a conoscere e descrivere il lussureggiante incanto di Labuan e del Borneo? Salgari ambienterà proprio lì i suoi romanzi più fortunati.

Bove era rimasto intrappolato nell’inverno artico?

Salgari scriverà almeno sei romanzi sui ghiacci del Polo Nord.

Bove aveva esplorato la Patagonia e si era spinto giù in Terra del Fuoco? Ed ecco uscire il romanzo La stella dell’Araucania ambientato esattamente in quegli stessi luoghi.




L’immagine di Bove inseguirà Salgari fino al suo stesso suicidio. Avvenuto, anch’esso, fuori da una grande città, Torino, sotto gli alberi di Villa Rey, tagliandosi il ventre con un rasoio.

Dopo fruttuose ricerche da parte dello studioso salgariano Cristiano Calcagno, sono emerse sorprendenti coincidenze tra il ‘vero’ Capitano (Bove) e il ‘finto’ Capitano (Salgari). Corrispondenze e analogie che abbondano in modo impressionante, come in un gioco di specchi contrapposti.

Bove era nato in Piemonte ed era morto a Verona: Salgari era nato a Verona e morto in Piemonte.

Salgari era nato ad agosto e morto a fine aprile: Bove era morto ad agosto ed era nato a fine aprile.

L’uno l’opposto dell’altro.

Entrambi finiti a vivere per un certo periodo nel quartiere di Sampierdarena a Genova, in case tra loro vicine. Ma il ‘vero’ Capitano era alto, slanciato, di presenza imponente, un uomo charmant abituato a usare francesismi a tutto spiano, come la moda del tempo suggeriva.















mercoledì 3 giugno 2020

CERCATORI D'ORO (27)



































Precedenti capitoli:

Verso il ghiacciaio... (26)

Prosegue in:
















Cercatori d'oro (28)













Ho fatto un secondo viaggio lungo lo Stickeen in agosto e dopo aver lasciato Telegraph Creek, ho incontrato un commerciante allegro che mi ha assicurato, incoraggiandomi, che stavo andando nella regione più meravigliosa del mondo, che…

“lo spettacolo del fiume è pieno dei ‘mostri sacri’, i più selvaggi che la natura possa aver creato, superando tutti gli altri scenari sia naturali o artificiali, su carta o in qualsiasi museo esposti. E non preoccuparti delle provviste, perché il cibo cresce ovunque in prodigiosa abbondanza. Un uomo si è perso quattro giorni lassù, ma ha banchettato con verdure e selvaggina ed è tornato al campo in buone condizioni. Ed ecco il mio consiglio: vai piano e prendi con piacere  gli scenari che incontri”.




Da Wilson a Caribou, quattordici miglia, l’acqua non è visibile, sebbene il terreno quasi pianeggiante e muschioso abbia un aspetto paludoso. Al Caribou Camp, a due miglia dal fiume, vidi due bei cani, un Terranova e uno spaniel. Il loro proprietario mi ha detto che ha pagato venti dollari per la coppia e gli sono stati offerti cento dollari per uno di loro poco tempo dopo. Il Terranova, mi ha detto, pesca bene il salmone sulle increspature e potrebbe essere rimandato indietro per miglia per andare a prendere i cavalli. Il raffinato spaniel nero riccio ci aiuta a portare i piatti dal tavolo alla cucina, e a queste parole andò a prendere l’acqua come gli fu ordinato, prese il secchio e lo posò sul lato del fiume, ma non gli si poteva insegnare a immergerlo completamente. Ma il loro lavoro principale consiste nel trasportare rifornimenti da campo sulle slitte lungo il fiume in inverno. Si dice che questi due fossero in grado di trasportare un carico di mille sterline quando il ghiaccio è in discrete condizioni. Sono nutriti con pesce essiccato e farina d’avena bollita insieme.




Dease Creek, un bel ruscello che scorre lungo circa quaranta miglia e largo quaranta o cinquanta piedi, entra nel lago da ovest, attingendo le sue fonti da creste montuose erbose. Thibert Creek, delle stesse dimensioni, e McDames e Defot Creeks, con i loro numerosi rami, si dirigono insieme dalla stessa catena montuosa sulla divisione tra Mackenzie e Yukon e Stickeen.

Tutti questi flussi del Mackenzie si sono dimostrati ricchi d’oro. Le dighe, i canali e le chiuse per cinque o dieci miglia mostrano un’industria proficua e la quantità di ghiaia glaciale e forse pre-glaciale lavorata, enorme. Alcuni dei letti non sono diversi da quelli dei cosiddetti Dead Rivers della California. Parecchi antichi canali pieni di deriva su Thibert Creek, sono esposti e lavorati. Una parte considerevole dell’oro, sebbene per lo più grossolana, non avevo dubbi che provenisse da distanze considerevoli, come mostrano i massi inclusi in alcuni depositi.

I letti più profondi, sebbene noti per essere ricchi, non sono ancora lavorati a grande profondità a causa delle spese. Gli scavi che rendevano all’uomo meno di cinque dollari al giorno sono considerati senza valore. Una delle pepite trovata in uno di questi torrenti pesava quaranta libbre...

(J. Muir)




Due anni fa si pensava che le difficoltà di raggiungere il Klondike fossero di natura tale da precludere la probabilità o addirittura la possibilità che Dawson diventasse un luogo di abitazione permanente. Le prove dei Chilkoot e dei White Pass furono sfruttate dai giornali specializzati da un’estremità del continente all’altra, e i relitti dell’umanità, e in particolare delle migliaia di bestie che giacevano sparse lungo il sentiero – l’omaggio al Sahara trasformato in vergogna - furono appellati a una cupa testimonianza della barriera quasi insuperabile che separava l’uomo dall’oggetto della sua ricerca…




Poco dopo lasciata Sitka, e attraversata l’apertura del Cross Sound, la riva si stende diritta, senza insenature, sormontata dal più gigantesco bastione che la natura abbia mai costruito sul mare, la catena dominata dalle vette nobilissime del Crillon, Fairweather e La Pérouse. Il grande ghiacciaio Pacifie ne scende ad immergere la sua fronte nell’Oceano. E, dopo percorse poco più di 50 miglia, compare all’orizzonte, isolata, la vetta del Sant’Elia, che sorge a poco a poco dal mare come un bianco picco vaporoso.

Si capisce quanto ne debbano essere stati impressionati i primi navigatori, e che essa sia la vetta dell’Alaska che ha più richiamato l’attenzione su di sé. Isolate da essa, verso est, vanno delineandosi e prendendo forma le altre punte maggiori del gruppo, l’Augusta, il Logan, il Cook, il Vancouver.




Il 3 Luglio, alle 3 112 pom., dopo dieci ore di marcia, avvolti sempre nella nebbia cieca, stanchi, bagnati, arriviamo alle Hitchcock, accolti da un volo di pernici bianche levatosi dai cespugli bassi che coprono il ripido pendio delle colline. La traversata del Malaspina è finita, e S. A. ha condotto la carovana proprio in porto, a pochi metri dalla fronte del Seward.

Piantiamo le nostre tende sulla neve (VII° Campo), nell’avvallamento fra il ghiacciaio e le colline, a 511 m. sul mare.

Il giorno dopo, 4 Luglio, è l’Independence day, e il Principe permette che gli americani incontrati lungo il cammino appartenenti ad un gruppo di studio  festeggino in riposo l’anniversario della loro libertà. In questi giorni li abbiamo conosciuti meglio; è un gruppo curioso di individui, che difficilmente si potrebbe riunire in un altro paese. Cinque sono studenti universitari di belle lettere, filosofia e scienze; quattro sono marinai, fra cui un professore di latino e greco, che è anche poeta, ed uno non ha professione fissa. Lavorano tutti bene e con zelo, completando l’opera attiva ed intelligente del loro capo, il sig. Ingraham, che fece più del suo dovere per la buona riuscita della impresa alla quale si era associato.

(Duca degli Abruzzi)




Oggi, e dal 6 luglio dell’anno scorso (1899), una ferrovia a vapore attraversa tutte le quarantadue miglia della pista del Passo Bianco, e il viaggiatore gode delle bellezze del paesaggio subartico tanto quanto gli piace il viaggio attraverso i Monti Alleghany a est, o delle praterie a ovest. Proseguendo verso Bennett sull’omonimo lago, praticamente alla testa della navigazione del possente fiume Yukon (altrimenti noto come Lewes), si impegna nel passaggio su uno dei numerosi piroscafi a vapore verso il fiume o verso nord, e con un cambio: alle Miglia Cañon e White Horse Rapids, dove c’è un portage di cinque miglia; per raggiungere Dawson dopo un viaggio delizioso nei cambi di scena e nelle novità che tale esperienza offre, nei quattro a sei giorni di percorrenza.




È un dato di fatto, quindi, che con un buon calendario delle partenze il viaggiatore da New York può fare il viaggio per Dawson in estate in dodici giorni, e in modo eccezionale anche in meno; e il viaggio è stato effettivamente compiuto in undici giorni e mezzo. Tale è il cambiamento da cui lo sforzo industriale ottenuto in meno di due anni ha potuto raggiungere.

Dawson del 1899 non è più la stessa cittadina del 1898, e molto meno di quello dell’anno precedente. Le migliaia di bateaux che in precedenza erano allineati contro il fronte del fiume, che comprendevano ogni tipo di imbarcazione dalla piccola canoa ai più grandi velieri, sono per lo più scomparse e al loro posto ora troviamo il forme aggraziate e ingrate di vari tipi di battello a vapore.




Non è raro trovare cinque o più di queste imbarcazioni legate contemporaneamente alla riva del fiume, e l’ampiezza e la maestosità delle barche del Mississippi guadagnano poco in confronto con alcune delle imbarcazioni più grandi del fiume Yukon.

I segnali sospesi richiamano l’attenzione sulle regine volanti del fiume, il re Bonanza, il canadese e la Sibilla, e migliaia si sono offerti per il risultato della corsa al bianco Horse Rapids. Quindi qui, come ai vecchi tempi del Mississippi, la lotta per la supremazia ha portato alla rapida accelerazione e allo sprigionamento prometeico dell’intera scatola del fuoco. Oltre un centinaio di nuovi arrivi dal Fiume furono registrati a Dawson durante la stagione quando le acque si liberano dal ghiaccio nel 1899.

(A. Heilprin)

    (Prosegue)