CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

domenica 17 marzo 2024

SCRIVERE LA STORIA

 




















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d'una medesima 


lunga Storia  


Prosegue con: 


una Scienza nuova 


& con origine e 


evoluzione 


del totalitarismo







Quando l’uomo prende consapevolezza del proprio sé, la socialità dello Stato tende ad interpretare l’individuo nella logica di una immutata simmetria. Quindi se vi è una natura manifesta e nascosta nella sua progressione, la possiamo rilevare nella volontà di perseguire attraverso la - conservazione - e nel paradosso del suo opposto - la rivoluzione -.

 

La finalità e l’intento atto all’istinto della cancellazione, quindi facilmente asservibile nel senso genetico della specie, ma mai evoluzionistico nelle finalità che vorrebbe perseguire. Perché, appunto, ad uso e consumo anche essa, a una stretta cerchia di probabili o improbabili cospiratori al soldo della moneta d’oro di Achab.

 

Mentre la democrazia, che si riconosce attraverso lo stretto passo del rifiuto, della protesta, della rivolta, non deve rimanere vittima ed ostaggio di una nuova e più terribile forma totalitaria, che come sempre disconosce poi le esigenze del singolo individuo. Spesso si è transitato per questi vicoli ciechi, per queste trappole culturali. L’inganno in esse potrebbe essere un danno maggiore per l’uomo e le sue probabili costruzioni evolutive.




L’eliminazione fisica, materiale e spirituale di una intera cultura, di un dissenso, di un presunto male incarnato atto ad appagare una natura rivolta alla violenza. Perché immagine della violenza. In quanto l’uomo vive nel suo riflesso, ed abbisogna sempre di una vittima da immolare, per il bene dell’intera umanità. E nello stesso tempo per perseguire ideali giusti per l’intera comunità, che seguendo un tale progetto purga il mondo dal male.

 

Il male esteriore, scatenando il male interiore nella più barbara violenza.

 

Quindi in questa lunga disquisizione storica per porre l’accento nella sua continuità, nel suo manifestarsi anche quando essa, la Storia, è convinta di operare per giuste ragioni e per giuste cause. Per il bene della causa comune che può nascondersi anche nella falsa morale di un codice disciplinare ad uso non del lavoratore, ma di colui che attraverso il lavoro sfrutta e perseguita ma soprattutto nega la verità.

 

Se taluni hanno acceso il fuoco del patibolo, è vero che qualcun altro lo ha permesso, qualcuno che non ammette il dissenso, l’eresia. Poi la mano del boia può essere quella del Santo Uffizio o la Gestapo, poco cambia, ai fini della storia stessa.




Però per l’interesse della storia è importante cercare e mostrare i comuni denominatori che la caratterizzano. Anche nei suoi gesti più banali, che nel micro cosmo della socialità in cui vengono vissuti rappresentano il macro cosmo della cultura su cui poggia l’intero edificio.

 

E raccontare l’intero edificio, ed i suoi inganni perpetrati negli anni e nei secoli, è scrivere, non riscrivere la storia…

 

Il paragone storico non distorce il tema o il racconto, del povero disgraziato. In cuor mio, ed attraverso l’esercizio della storia, io vedevo e vedo queste immagini. Mi appariva un profugo, un perfetto, un rifugiato… qualcuno che cercava disperatamente un appello di fronte ad una sentenza già scritta dalla storia.

 

Nel ricordo del suo volto scavato, nel quadro delle tinte dei suoi lineamenti, dalla musica delle sue parole, dal dolore del deambulare del suo parlare e perdersi per interminabile sentieri nei boschi dove non smetteva mai di raccontare e raccontarsi, io nella fitta ragnatela del suo disquisire, vago nello spazio della geografia dei miei ricordi.




Di tutti i ricordi di cui l’intera umanità dovrebbe essere depositaria e custode per una evoluzione che non permetta ciò che io vedo, di cui anche io soffro, di cui anche io talvolta ed in silenzio senza farmi vedere, piango.

 

Così vedo il condannato e il carnefice, l’eretico ed il persecutore, l’anarchico ed il monarca, l’artefice e lo stato che lo caccia e bracca, lo scienziato e il prete, ed infine la natura e l’uomo che la vuole piegare alla sua inutile ragione. La galleria dei volti che si sovrappongono, a quello del mio povero amico sono molti,… troppi.

 

Chi non ha coscienza della storia non può scorgere nulla in quel grande panorama della nostra esperienza comune, chi non ha amor per la natura e la cosa creata non può scorgere nessun quadro, nessuna luce, nessuna pennellata nell’universo della vita.

 

Non può né piangere né sorridere di fronte alla sua grandezza confusa per altro nel meschino panorama di quella fumosa città.

 

Ed il mio parlare ed ascoltare, sono quadri di storia che si materializzava al nostro umile cospetto.




Mi sento impotente di fronte all’oltraggio di tutte le umiliazioni che subiamo, di tutte le violenze che la nostra secolare quiete deve accettare in nome di una nuova e più terribile dittatura. Sarei fuggito assieme a lui, e probabilmente il nostro parlare senza voce, come solo coloro che veramente parlano possono, devono avergli dato quest’ultimo suggerimento.

 

Combatto contro una sentenza millenaria, antica quanto l’uomo, avrei discusso con il suo ed il mio demone, avrei parlato con il suo ed il mio Dio, ma l’uomo o tutti gli uomini sembravano non più ascoltarci nella nostra prigionia e lenta agonia.

 

Una sentenza che poteva essere di volta in volta …una croce o una lancia nel bel mezzo di un campo nemico. La differenza di fronte al male, alla massa e alla guerra di tutti i giorni, è poca cosa.

 

È poca cosa è vero, ed anche qui non scorgo una contraddizione, ma bensì una nuova simmetria della storia. Più lui parla, più la mia mente cerca appigli su cui aggrapparmi per scalare l’impervia parete. Ogni tanto, al suo raccontare, al suo parlare, fisso dei chiodi sulla liscia parete, che mi deve apparire inconquistabile. E sempre in cuor mio fui deciso allora come adesso, per quanto l’impresa può apparire disperata, a conquistarne la cima.




 Non credo che il disgraziato, l’amico, la vittima, può aver salvezza in mezzo a quel mare, però voglio raccontare, descrivere, e partecipare tutti dell’antico male nell’incapacità del ricordo e nel voler ricordare. Voglio denunciare la mancanza di memoria, la smemoratezza, che la storia segretamente sta ripercorrendo inesorabilmente. Cerco ogni volta di comporre i pezzi dell’intricato mosaico della mia Chiesa. E per quanto, i più, lo avrebbero fatto passare per pazzo, io ravviso nella lucida configurazione dei fatti, un ben preciso disegno criminoso.

 

Il tempo, ma solo il tempo e la pazienza, mi diedero ragione.

 

Ma intanto il misfatto, l’inganno, il campo, il rogo, il processo, la tortura erano stati perpetrati. Inesorabilmente, quando lui parlava io vedo e vivevo tutte quelle immagini. La mia rabbia è repulsione, sconcerto, nausea. Non vi è pagina di letteratura e storia che non fosse stata scritta sul suo volto, sulla sua schiena.




E spesso quando mi appariva privo di parola, perché la tortura del giorno era stata più inclemente, le lacrime mi bagnano il viso, e difficilmente riesco a riconoscere la strada, ed il viale alberato che spesso percorrevamo assieme. Talvolta anche i colori mi sfuggono, e provo in senso di vergogna e smarrimento. Lo avrei voluto nascondere nel bosco, costruirgli un castello, tanto era ed è pura la sua ingenuità nei confronti della vita. La sua ingenuità lo rendevano e rendono il bersaglio, la preda, la vittima, l’agnello per l’ingordigia del male del mondo.

 

Ed io lì a rappresentare il mondo e sentirmelo raccontare, e poi a vergognarmi di esso. Non avrei creduto che i miei stimati consimili fossero capaci di tanto, talvolta troppo. Volevo non credergli, ed ero sicuro che ogni sua verità sarebbe stata puntualmente recisa come un ramo di un albero, da una nuova inquisizione. Ogni miracolo cancellato da una beffa, di chi non crede a nulla eccetto la verità di questa nuova cultura, di questo fumo che sale lento, di questi telefoni, di queste macchine, di queste merci.

 

(Giuliano Lazzari, Storia di un Eretico) 

 

UNA NUOVA PIU’ COMPIUTA SCIENZA: 

 

Stiamo seguendo i frammenti di una biografia, la quale sicuramente proviene da documenti ben precisi, dei quali al momento siamo sprovvisti, per cui ci dobbiamo adeguare alla prassi storica, di attenerci ai vari testi in uso per diagnosticare sia il male che la sua inarrestabile pretesa; di certo l’inganno non meno della persecuzione regnano incontrastate, e sicuramente non solo adottate nei confronti di  Pavel, in quanto il presentimento, un rigido comune clima, sia per ciò concernente il regno degli zar, quanto le successive rivoluzioni, dell’imminente arresto, disponevano un simmetrico stato d’animo (circa il male diagnosticato e contratto), come una imminente annunziata Apocalisse della morte, contro le forze del Bene, rappresentate più che egregiamente dal nostro ‘Filosofo-teologo-scienziato’, preso non solo come esempio, suo malgrado, ma altresì evidenziato nel vasto repertorio ‘geologico-stratigrafico di una e più Geografie, con le caratteristiche che più ne evidenziano i panorami ammirati, siano questi ben scorti nelle descritte agricole pianure e catene montuose (date simmetricamente da una determinata politica) che le contraddistinguono; siano questi dedotti da ‘invisibili-visibili’ catene montuose che ne precludono l’accesso, donde i benefici Fiumi irrigano la costante paziente semina.




E dove si  celebra e/o consuma, non più la vita, ma il dramma inerente alla vasta interpretazione cui assoggettato il suo frutto di cui il paziente lavoro, deturpato da una insana corrotta deleteria demagogia, più o meno politica, più o meno cattolica; più o meno quinquennale-capitalistica-economica, giacché sappiamo bene che le decime erano tributo dovuto anche al clero, il quale godeva di un sempre più grande potere, e non solo terreno, ma anche, e simmetricamente, inquisitoriale sulle controllate inquisite, ed in ultimo, curate Coscienze.

 

Anche in questo caso, abbiamo ‘cura’ di una vasta Coscienza, di una elevata Cima, la quale nello stupore della sconosciuta protratta conoscenza circa l’elevata consumata esistenza, per ugual ghiacci fiumi e vasti panorami dalla cui Anima dovrebbe nascere ogni, non dico pretesa, ma subordinato Sentiero di Conoscenza circa il clima e la bellezza che da questa Cima l’umano ingegno simmetrico alla sua (elevata) Natura, ispira, quale morale e miglior principio alla sue pendici, dell’esistenza e comprensione della stessa.


(PROSEGUE)







venerdì 15 marzo 2024

JULIUS










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di una Lettera 


e i latrati dei cani  


Prosegue con il 


disperso








Josef Mazzini viaggiava spesso da solo e molto a piedi. Ma non è che, perché camminava, il mondo gli sembrasse piccolo, anzi, diventava sempre più grande, tanto che alla fine egli scomparve in esso.

 

Mazzini, un camminatore trentaduenne, andò disperso nelle lande glaciali di Spitsbergen nell’inverno artico dell’anno 1981. Si trattò senz’altro di un lutto privato: un disperso, uno in più, nulla di particolare. Ma quando uno scompare senza lasciare resti tangibili, qualcosa che si possa incenerire, inabissare o sotterrare, allora lo si deve prima far lentamente sparire per sempre nelle storie che si iniziano a raccontare su di lui dopo la sua scomparsa.

 

A questi racconti nessuno è sopravvissuto.




Mi ha spesso turbato il fatto che l’inizio nonché la fine di ogni storia, che uno riesca a seguire abbastanza a lungo, a un certo punto si perdano nell’estensione cronologica, ma poiché è sempre impossibile dire tutto quello che c’era da dire e poiché un secolo deve bastare per spiegare un destino, io inizio dal mare e dico: era una limpida e ventosa giornata di marzo dell’anno 1872 sulla costa adriatica. Forse anche allora i gabbiani, simili ad aquiloni di filigrana, si libravano nel vento sopra la banchina e nel cielo blu spaziavano i candidi brandelli di un fronte di nuvole lacerato dalle turbolenze della stagione novella, non lo so.

 

Si racconta comunque che, quel giorno, Carl Weyprecht, un sottotenente di vascello di linea dell’imperial-regia Marina austroungarica, abbia tenuto un discorso davanti alla capitaneria di porto di quella città che gli italiani chiamano Fiume e i suoi abitanti croati Rijeka. Di fronte a uomini di mare e a un pubblico misto raccoltosi nel porto, egli parlò delle minacce dell’estremo nord.




Sono stato a lungo persuaso che durante il discorso di Weyprecht sia cominciata a cadere improvvisa una pioggia primaverile: una pioggia nella cui ebbrezza mitigatrice alcuni dei marinai in ascolto poterono smarrirsi senza sospettare che sarebbero partiti, essendo infatti spaventati dalle immagini evocate dal sottotenente. Weyprecht descriveva un mondo lontano, nel quale un freddo sole estivo orbitava per mesi intorno ai naviganti senza mai tramontare; in autunno, però, cominciava a imbrunire finché su quelle contrade calavano le tenebre della notte polare e un indicibile rigore, che si protraevano ugualmente per parecchi mesi.

 

Weyprecht parlò dell’immensa solitudine di una nave che, serrata nella morsa della banchisa, andava alla deriva in un mare ancora inesplorato, in balia dell’arbitrio delle correnti e delle pressioni glaciali che spaccavano strati di ghiaccio pesanti tonnellate, sollevando e ammassando uno sull’altro innumerevoli blocchi ghiacciati fino ad altezze impressionanti. Una violenza che spesso aveva schiacciato anche i ventri armati delle golette e delle fregate come fossero modellini in compensato.




Il cigolio e lo stridio della risacca del Mare Polare Artico rappresa dai ghiacci poteva talvolta risvegliare, nel navigante che solcava quelle regioni, le angosce più recondite, ma egli doveva comunque rimanere per anni in quel mondo, imprigionato tra muraglie di pack e senz’altro conforto che la propria forza d’animo.

 

Ma ecco che il discorso di Weyprecht prese inaspettatamente una piega che fece apparire tutti gli orrori sotto una luce diversa e che dovette aver perlomeno colpito alcuni marinai al punto da indurli a presentarsi più tardi al signor sottotenente nella capitaneria di porto:

 

La desolante monotonia di un viaggio artico, la noia mortale della notte eterna e la terribile intensità del freddo sono i luoghi comuni, passibili di infinite varianti, con i quali la civiltà è solita compatire i poveri naviganti delle regioni polari. Ma si deve compatire solo colui che, memore dei piaceri abbandonati, non è in grado di resistere, colui che, compiangendo la crudeltà della propria sorte, conta i giorni che ancora lo separano dall’ora del ritorno. Questi fa meglio a rimanersene a casa dove, al tepore della stufa, può lasciarsi solleticare dal vagheggiamento di ignote sofferenze, forse esagerate dall’immaginazione. Per chi invece è interessato al creato e alle sue evoluzioni, l’atrocità del freddo non è tale da non essere sopportabile, né la lunga notte è così lunga da non aver mai fine. La noia, però, la prova solo colui nel quale essa è connaturata e che non è in grado di trovare un’occupazione che distolga lo spirito dall’affliggente vessazione del cupo meditare.




Nel cantiere Teklenborg und Beurmann di Bremerhaven, sotto le sue direttive era stata costruita una nave, concludeva Weyprecht, la Admiral Tegetthoff, una goletta a tre alberi, 220 tonnellate di stazza, dotata di una macchina a vapore ausiliaria e perfettamente attrezzata contro il ghiaccio.

 

La Admiral Tegetthoff sarebbe salpata in giugno facendo rotta su Capo Nord e di lì avrebbe continuato a veleggiare verso tramontana, nell’inesplorato mare a nordest dell’arcipelago russo di Novaja Zemlja. Chi dunque, tra i marinai presenti, fosse sano, non temesse il Mare Glaciale e fosse disposto ad abbandonare ogni consuetudine e affetto per due anni e mezzo era invitato a presentarsi presso la capitaneria di porto per prender parte all’imperial-regia spedizione polare artica austroungarica. Egli, Weyprecht, avrebbe avuto il comando della Admiral Tegetthoff; a terra, però, la suprema autorità sarebbe stata esercitata dal suo collega il tenente Julius Payer.




Mentre le cose sull’Adriatico seguivano così il loro pigro corso, venendo concordati i salari nonché predisposte le partenze, a Vienna un comitato polare composto da esponenti dell’aristocrazia, e primariamente il conte Hans Wilczek che nutriva una forte passione per l’avventura, provvedeva al finanziamento di questa spedizione e intanto il tenente Julius Payer scriveva in Sudtirolo: 

 

Caro Haller, sono lieto di averti finalmente rintracciato e che tu mi abbia così prontamente risposto.

 

Intendo realizzare un viaggio della durata di due anni e mezzo in regioni molto fredde nelle quali non esiste anima viva se non orsi bianchi e dove il sole splende ininterrottamente per diversi mesi per poi scomparire del tutto per altrettanti mesi.

 

Faccio, per l’appunto, una spedizione artica:

 

1. Ti pago, senza ritenuta alcuna, il viaggio da Sankt Leonhard fino a Bremerhaven, dove ci imbarcheremo.

 

2. Tu dovresti entrare in servizio alla fine di maggio, periodo nel quale dovrai giungere a Vienna.

 

3. Dovrai rimanere con me due anni e mezzo.

 

4. Provvederò io stesso al tuo vestiario, alle armi e al vitto e riceverai, oltre a speciali ricompense per particolari prestazioni, un minimo di 1000 fiorini in banconote, parte dei quali potrai già riscuotere alla tua partenza. Caro Haller, ti prego di cercare un altro alpinista: deve essere una persona corretta, affidabile, laboriosa e, per quanto immense possano essere le privazioni, non deve mai perdere l’entusiasmo e la tenacia, deve inoltre essere un buon cacciatore e riceverà quanto te. Al ritorno ti verrà donato anche un bel fucile Lefaucheaux (doppietta e retrocarica).

 

Scrivi quindi subito e cerca in ogni caso un’altra persona della quale tu possa garantire che sia adatta.

 

Dovremo affrontare freddo e perigli, ti spaventa? Ho già felicemente superato due viaggi del genere e ciò che faccio io lo puoi fare anche tu.

 

Il tuo amico Payer 

(Christoph Ransmayr)




 


JULIUS

                      

 

  

Io era già inconsciamente educato al culto dell’Eguaglianza dalle abitudini democratiche dei due miei parenti e dai modi identici che essi usavano col patrizio e col popolano: nell’individuo essi non cercavano evidentemente se non l’uomo e l’onesto. E le aspirazioni alla libertà, ingenite nell’animo mio, s’erano alimentate dei ricordi di un periodo recente, quello delle guerre repubblicane francesi, che suonavano spesso sulle labbra di mio padre…

 

Assieme alle Storie di Livio e di Tacito non meno quelle di Giuliano che il mio maestro di Latino mi faceva tradurre, e della lettura di alcuni vecchi giornali da me trovati semi-nascosti dietro ai libri di medicina paterni, fra i quali ricordo alcuni fascicoli della Chronique du Mois pubblicazione girondina dei primi tempi della Rivoluzione di Francia.

 

Ma l’Idea che v’è un so’ che di guasto nel mio paese contro il quale bisognava lottare, l’Idea cioè che in quella lotta io avrei potuto far la mia parte, non mi balenò sino al giorno che ebbi modo di incontrare dei veri oppositori.

 

O meglio, ora che ricordo uno solo di loro!


 



Per il vero procedeva - e non certo volava sulle note di un più elevato Pensiero, giacché se ciò lo tenta e sprona nel naturale desiderio se pur immobile nella medesima certezza di un cacciatore, o critico, del nuovo antico progresso per sempre assiso nel palchetto concesso sulla vasta platea; dirigersi - come dicevo - verso una più che calcolata cella e non più guerra, penso che questa eterna condizione l’abbia abdicata ai suoi nemici i quali sanno ricavarne giusto margine di profitto in ogni Impero ove si è imprigionati, non più verso l’esilio, ma cella ove ogni Manoscritto vittima della secolar grammatica con cui posto all’Indice di una Storia interdetta.  

 

Ricordo questo esule contrario alla sua patria, si incamminava verso una perigliosa Cima, dacché meditai che anche lui deve avere un amore, lo stesso, per l’Uguaglianza e la Libertà ove sempre minacciata e reclusa.

 

In quel giorno ho meditato che avrebbe potuto scegliere l’esilio, ma costui il quale mi astengo nel nominare, si avviò alla calcolata reclusione per dimostrare che l’Ideale merita ancora Sacrificio.

 

Mi debbo ravvedere circa la paradossale condizione in cui posto dalla mia stretta cella il meditato egoistico Sacrificio, giacché costui avrebbe potuto comodamente contrastare l’avversato principio in ogni patria ove non gradito… il Tiranno…




Non volendo interpretando un paradossale soggetto (& sceneggiatura) con il dovuto abito di Scena grato ad ogni Tiranno… se pur avversato…

 

La condizione amletica del Primo Atto assume dovuta consistenza!

 

Il paradosso della sottile critica la abdichiamo alla rappresentazione storica…    

 

Ma come il sottoscritto - il soggetto facente parte della Memoria deve palesarne l’Ideale che al meglio la contraddistingue nella storia genetica di cui smemorata, e non più rinchiuso nell’egoismo dell’uomo, semmai indicare l’altrui delirio sfociato nel più vile egoismo, con cui ogni Tiranno cinge e confonde l’urgenza del proprio concetto di patria barattata e ancor più confusa al bene (o convenienza) individuale della propria personale ricchezza… nella correttezza della Scena posta…

 

Incaricata dallo sforzo di ogni Compagnia con l’Economia sovrintendere - per inteso e sottinteso - ogni palcoscenico interpretato - quindi - sfarzosamente rappresentato per il bene, almeno così dicono, del beneficio d’ogni singolo spettatore colmare e saziare la vasta platea.




La rappresentazione scenica della stessa richiede non più il libretto digitalizzato estraneo all’Atto, semmai il vecchio libretto in uso ad ogni Teatro ove non solo la grande lirica assume la propria alta espressione…, ma come già espresso, la stessa Scena colmare - in ogni Impero ove rappresentata con le innumerevoli repliche - la grande lacuna di cui la Verità povera e per sempre imprigionata.

 

Costui, dicevo, lo incontrai una mattina, andava a combattere la sua Guerra, senza odio alcuno eccetto la secolare volontà, affine alla mia, di poter indicare al mondo intero il Tiranno.

 

Ho meditato a lungo tal scelta, dacché individuata la patria comune di intenti ho offerto l’umile ricordo, giacché la ricchezza confusa in nome di un falso ideale scritto nell’economia, oggi più che ieri, nonostante le apparenze, regna incontrastata. Possiamo conoscere così i Tiranni, ed indicare ciò che al meglio li contraddistingue e divide ma quantunque unisce.

 

L’Ideale del falso progresso congiunge e mai divide, ed ogni finalità scritta nel presupposto dell’Economia ci suggerisce che la Tirannia mai sconfitta, regna solo la parvenza d’uno specchio deformato e illusorio, conferendo di rimando l’abito ben indossato coprire le nude membra di ugual immutato corpo.

 

L’immutato - in verità e per il vero - medito!




Giacché in quella patria ove l’Esule va combattendo la secolare guerra di un Pensiero per sempre imprigionato, regna altrettanta ugual dittatura donde proviene l’istinto motivato.

 

Dacché ne ho sinceramente meditato la Storia.

 

La Storia - per il vero - di determinati grandi Imperi, i quali, pur le travagliate vicissitudini, comporre Libri e Tomi con vaste Biblioteche custodirne - offenderne - se non addirittura celarne la Memoria ivi custodita; non hanno mai posto dovuta sufficiente attenzione al ragguardevole uso della ‘moda’ - specchiata e riflessa - nel corpo imbalsamato (nonché ibernato) e numerato, se pur convinto del cambio di ‘scena’, in realtà indossare medesimi costumi dal primo all’ultimo suo ‘atto’.

 

Ben rilegato ed impaginato…

 

L’Esule come il medesimo che scrive, incarna un medesimo Tempo rappresentato e giammai mutato, il grande palcoscenico che andrà a calcare con la vasta platea talvolta digiuna circa la vera Storia, comporre l’immutato non più inscenato ma la deviata natura di cui l’uomo.

 

Alla fine della mia difficile e perigliosa Vita ne meditati la piccola statura!




Se pur gli interpretati diversi sussiste sempre medesima condizione o illogica natura contrastata; ed un ‘interprete’ dell’Ideale il quale ‘indossa’ - e non più da provato ‘attore’ -, il Dramma rappresentato ed incarnato quale forma di più elevata Natura la qual impone l’Opera inscenata, e non certo per proprio Egoismo affine alla ricchezza come ebbi a meditare, ma l’altrui corrotto privato egoistico delirio contrario ad ogni Natura trascesa ed interpretata dall’ideale umano.  

 

Un tempo antico avremmo potuto contraddistinguerlo con la Tragedia, nel quale si cercava di indicare ed interpretare al meglio la Tirannia detta.

 

In siffatto vasto Teatro ove il proscritto incontrato nella medesima ugual mattina avviarsi al compimento della Tragedia in ogni Impero rappresentata, i valori del Tempo  posto con le proprie rappresentazioni suddiviso in ‘atti’, indossati (giammai possiamo dire mascherati) con ‘costumi’ in vasti panorami per al meglio raffigurare le ‘scene’ rappresentate, ed altresì accompagnate da un orchestra sontuosa; medesime, statene certi attenti osservatori nonché prolissi custodi della Storia ivi rappresentata!

 

Dacché quel che ne risalta, oltre la mancanza di originalità ed intelletto, anche un apparente cambio di costumi ove la ‘Scena’ non riesce a mutare la Dottrina per sempre inscenata.




I monologhi di talune amletiche pretese poco comprese nella Follia rappresentata e tenuta ben reclusa per ciò cui intravede il regnante assiso al doppio spettacolo offerto dalla Compagnia: la Tragedia interpretata smaschera l’inganno e non più l’eterna pazzia per sempre imputata in siffatto Teatro.     

 

Il Teatro sì vasto ed impareggiabile in sontuosa rappresentazione, là ove regna ogni grande o piccolo Impero con il suo monarca o tiranno ben assiso al proprio secolare palchetto specchiarsi nell’Opera offerta, se sia uno Zar o un gerarca di partito regna più fitto mistero con cui accompagna l’inchino di proclami volti alla vasta platea che lo applaude ringraziandolo dell’immutata Scena; se ci fate caso, pur la Sinfonia unica impareggiabile con note di Libertà per ognuno, o Rivoluzionarie alternate da fanfare con grandi schiere di violini Controrivoluzionari; medesima in siffatto Teatro ove difficilmente potete scorgere il ‘povero’ Ideale di cui vi raccontavo in un mio ‘Manoscritto imprigionato’, il quale prende coscienza d’ogni falsa natura ivi e per sempre rappresentata.

 

Non men che ingannata! 


[PROSEGUE CON IL DISPERSO]








giovedì 14 marzo 2024

PRIMA LETTERA

 









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circa la Natura 


Prosegue con 


latrati di cani...  


& Julius







Egregio Assistente,

 

 

Sono effettivamente riuscito a penetrare in modo sistematico nell’esistenza di Suo fratello non senza una certa mancanza di riguardi e di sincerità che spaventa anche me stesso: in questi primi giorni mi è stato piuttosto facile star dietro a Suo fratello, anzi, a dir la verità le cose sono andate in modo tale che è stato lui a cercar continuamente la mia compagnia; questo io posso considerarlo un vero colpo di fortuna perché era stato proprio Lei a temere che Suo fratello si fosse completamente isolato e vi era anche la possibilità che io non riuscissi ad avvicinarlo.

 

A questo punto devo subito dire che nel suo complesso la situazione in cui qui a Weng ho trovato Suo fratello e l’ambiente del quale lui è completamente in balia e che è completamente in sua balia, come mi sembra, esercita su di me un fascino enorme che però sono in grado di controllare. Ritengo possibile e di conseguenza ovvio attenermi alla linea di chiara e calcolata razionalità a me prescritta nell’ambito da Lei indicatomi. (io infatti mi sento vincolato all’ultima conversazione avuta con Lei a Schwarzach).




A questo punto vorrei sottolineare che io mi attengo in tutto e per tutto al nostro comune accordo riguardo al mio modo di procedere qui e perciò non dovrebbe mai sorgerLe il dubbio che io abbia affrontato questo compito partendo da falsi presupposti.

 

Sin dal primo momento ho cercato di mettere da parte completamente l’aspetto medico di questo caso limitandomi consapevolmente a restare sul piano puramente emotivo, considerando solo il ‘complesso comportamentale’ naturale e strettamente personale di Suo fratello.

 

Credo anche di aver trovato il mio metodo di ricerca scientifica – non medico-scientifica! – di aver trovato una delle vie per giungere alla scoperta di possibilità di osservazione parallele intersecanti intrecciate e reciprocamente corrispondenti, un metodo che, come spero, darà risultati utili.

 

L’unica difficoltà sta in questo: Suo fratello assorbe tutto il mio tempo e mi resta soltanto la notte (che in nessun caso può bastarmi) per scrivere i miei appunti e mettere nero su bianco, come programmato, l’atmosfera del suo mondo interiore e di quello circostante, per metterlo a confronto con le mie impressioni su di lui sotto angolature diverse anche se insufficienti, angoli visuali ‘ottusi o acuti’, per rendere giustizia in maniera almeno vagamente soddisfacente al carattere prospettico della mia visione sempre duplice di questo caso, per occuparmi di Suo fratello su una base per cosí dire documentaria – che a me pare incredibilmente labile e a momenti ‘inaffidabile’.




E nonostante questo fallimento incredibilmente fenomenologico e ripiegato su se stesso, mettere ordine in seno al suo ordine, creare un ordine contrapposto al suo. Io dunque scrivo di notte ciò che registro durante il giorno. Credo che nel caso di Suo fratello si tratti effettivamente dell’idea – che solo ora mi afferra – di uomo fantastico sospeso sull’abisso.

 

Il mio pensiero attraverso quest’idea va immediatamente al proprio scopo. Il vero problema è fino a che punto sia possibile penetrare l’incommensurabilità di Suo fratello. Ne consegue che Lei da me non deve aspettarsi altro che un resoconto incompleto che descriva in modo più o meno approssimativo la struttura superficiale di Suo fratello e che non oltrepasserà l’aspetto fosforescente – per quanto scrupolosamente descritto – di tale struttura superficiale e neppure le correnti (che probabilmente restano avvolte di tenebra) e le controcorrenti (trasformazioni) sottostanti, un resoconto insomma che si atterrà soprattutto a un’ottica lapidaria e che intendo poi consegnarle sulla base degli appunti che ho preso.




Un resoconto incompleto di una condizione di deprivazione incredibilmente labile e tale da doversi definire come totalmente deviante e ormai, mi sembra, non più correggibile. L’incarico che – qualunque ne sia stato il motivo – Lei ha affidato proprio a me, io lo devo intendere come un favore speciale, come un importante capitolo – già me ne rendo conto sin d’ora – della mia esistenza (che sta sempre più diventando una vera esistenza da medico), anzi di tutta la mia evoluzione.

 

Per quel che sono in grado di giudicare, questo incarico per me riveste un’importanza che – sotto certi aspetti – non è neanche prevedibile. Ma sarebbe un errore se davanti a Lei sin d’ora io recitassi la parte del praticante pieno di riconoscenza quando non è neanche stato fatto il primo passo in alcuna direzione... E questo incarico non è neppure ancora entrato nel primo stadio decisivo della realtà.

 

Contrariamente alla mia promessa non si aspetti di ricevere regolarmente posta da Weng.

 

Ecco un esempio di come suo Fratello dipinge i suoi ‘amati’ concittadini, in un modo assai bizzarro e frammentato da urla lancinanti di delirante dolore… Divenuto un ‘urlo’ un ‘latrato’ appena percepito nel silenzio prospettico di questa Natura che ispirauna strana e delirante Visione. Ode populisti latrati di cani abbaiare in notte ingorde nutrite da solo il Dolore!  


[PROSEGUE CON LATRATI... DI CANI...]