CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

sabato 29 giugno 2024

INCOMPRENSIONI CULTURALI

 








Che il silenzio sia una forma di comunicazione in alcuni casi più efficace della parola non è un’idea nuova. I significati del silenzio, le sue applicazioni, la sua stessa forza persuasiva erano ben noti agli antichi che non di rado si sono interrogati sulla sua essenza e sulle sue funzioni.

 

Il silenzio come difesa, il silenzio come parola, il silenzio come paura, il silenzio come tracotanza, il silenzio come prescrizione.

 

Si potrebbe continuare a lungo perché il silenzio, al pari della parola, è espressione diretta di uno stato d’animo in stretto rapporto con le reazioni del corpo e obbedisce all’esigenza, più spesso intima ma talvolta anche corale, di manifestare emozioni, trasmettendole mediante una afonia carica di significati. Questa natura ossimorica del silenzio ha dato origine, nella copiosa letteratura sull’argomento, a una serie innumerevole di espressioni denotanti la dualità contraddittoria del concetto stesso: ‘parlar tacendo’, muta eloquentia, ‘il silenzio parlante’, ‘eloquenza del silenzio’, ‘la voix du silence’, ‘spoken and acted silence’, ‘un langage sans voix’, e via dicendo.




Tutti questi ossimori traducono lo sforzo di definire il silenzio, che è sì assenza di parola, ma che al tempo stesso può avere tutte le valenze e le funzioni della parola, così come in musica le pause possono avere valore al pari dei suoni. Scrive Mario Brunello in un volumetto sul ruolo del silenzio nella sua esperienza musicale:

 

‘Scoprii il potere del silenzio e il silenzio mi fece scoprire di essere musicista ... Scoprii che il silenzio è il vero palcoscenico della musica e che lì avevo trovato la mia voce e un modo di comunicare’.

 

Il silenzio o è una scelta o è un’imposizione. Nel primo caso le motivazioni possono essere le più varie, ma di natura prevalentemente soggettiva; nel secondo caso l’affermarsi di una volontà superiore (degli dèi, del legislatore, dei sacerdoti, di un vincitore o d’altri) costringe ad un mutismo subìto, ma che non di rado raccoglie anche il consenso del silente.




Consideriamo per esempio il silenzio rituale sul quale molto si è discusso e sul quale quando, analizzando i vari gradi del silenzio nella preghiera nell’antica Grecia, si può affermare che nelle preghiere silenziose attestate dalle più antiche fonti non vi è mai l’intendimento di soddisfare un bisogno intimo religioso.

 

Il silenzio legato alla ritualità può essere imposto nell’ambito del sacrificio, prima delle libagioni; può obbedire alle esigenze della segretezza; può essere proclamato da un araldo, diventando esso stesso atto rituale. Nei riti di purificazione il silenzio – come tratto di marginalità – gioca un ruolo importante perché designa l’allontanamento e l’estraniamento del colpevole dai rumori e dalle voci della città.

 

Il silenzio dei barbari muove un’attenta analisi di un passo delle Trachinie e da un brano di Strabone per evidenziare la rappresentazione negativa che del linguaggio dei barbari davano i Greci: ‘aglossia’ assoluta e radicale nel primo caso dovuta a una anomalia fisica degli organi fonatori dei barbari nel secondo caso. Le conclusioni sono importanti per la storia dei rapporti tra Greci e barbari perché l’incomprensibilità delle voci e delle parole tra gli uni e gli altri negli esiti a livello di comunicazione equivale, di fatto, al silenzio.




Il discorso in questo caso si complica perché investe l’alterità del non-greco che non comprende e non sa parlare la lingua greca, ma che può supplire con vari tipi di gestualità alla difficoltà di comunicazione.

 

Clitemestra si rivolge alla silente Cassandra, prigioniera di guerra di Agamennnone, invitandola a usare, al posto delle parole, cenni di mano. Vi sono poi barbari che hanno scelto e subito un processo di ellenizzazione così avanzato – compreso l’uso della lingua – da perdere l’identità di barbari, come gli Sciti Tossari e Anacarsi. Il linguaggio è, infatti, una delle principali componenti dell’identità culturale dell’Hellenikon ed a chi non parla greco viene escluso il contatto con gli interlocutori greci.

 

Vediamo, a questo punto, un brevissimo frammento di Pindaro (fr. 229 Maehl.) che apre uno squarcio su un’altra categoria di persone costrette al silenzio: i vinti.

 

‘I vinti sono incatenati al silenzio e non osano andare incontro agli amici’.




Il poeta tebano parla degli atleti sconfitti negli agoni, che sono condannati al silenzio e non osano incontrare gli amici. Ma ben più grave è la vergogna della sconfitta per i prigionieri e i perdenti in caso di guerra. Come in tutte le epoche il silenzio è la cifra che li contraddistingue. Creso, fatto prigioniero da Ciro e costretto a salire sul rogo carico di catene, tace in un lungo silenzio e alle domande degli interpreti persiani, che vogliono sapere perché ha pronunciato per tre volte il nome di Solone, oppone un ostinato mutismo.

 

La linea di demarcazione tra grecità e barbarie, che in molti, noti esiti della cultura ellenica, soprattutto nel v e iv sec., si disegnava in maniera altrettanto netta, comportando, ad esempio, l’assimilazione dei barbari non solo agli animali e alle donne ma anche alle piante, nonché l’affermazione del diritto greco al dominio su di loro, schiavi di natura, passava anche attraverso la rappresentazione delle voci e dei suoni del mondo ‘altro’, che si rivela come una discriminante particolarmente significativa e funzionale sia alla propria autoidentificazione sia all’individuazione della figura del barbaro.




Né poteva essere diversamente, se la lingua figurava, insieme al sangue, alla religione, ai costumi, tra gli elementi etnico-culturali che in un famoso passo di Erodoto definiscono, in una sintesi magistrale, l’Hellenikon, l’identità greca. Una testimonianza in tal senso della percezione delle lingue non greche, radicale e ardita nel contenuto ed esasperata nell’ideologia che essa esprime, trova un’adeguata collocazione nello spazio scenico delle Trachinie di Sofocle, dove si inserisce in modo funzionale nel tessuto narrativo e coerente con le modalità di rappresentazione del mito trattato. 

 

[….] Dominante, in questi versi retoricamente costruiti, in modo parallelo e simmetrico, sulla doppia successione di tre membri, ciascuno contrassegnato da negazioni, è l’idea dell’attività di addomesticatore e civilizzatore di Eracle che costituiva un elemento di spicco nel ricchissimo dossier biografico dell’eroe, e che si era svolta nello spazio del mondo conosciuto, abitato da Greci e barbari: nulla indica una differenziazione riguardo al modo in cui Eracle sarebbe intervenuto in queste diverse aree, o riguardo alla ferocia degli avversari o alla resistenza da loro opposta nei luoghi visitati dall’eroe.




Si avrebbe quasi l’impressione di un’equivalenza perfetta tra i due ‘emisferi’, con identico fervore liberati dal loro comune stadio di primitiva ferinità, se non fosse per il rilievo assunto dal tratto dell’aglossia, fortemente individualizzante e caratterizzante della parte ‘altra’ del mondo rispetto a quella greca. L’espressione, che prospetta un’immagine inconsueta e abnorme, è retoricamente coerente con la facies iperbolica di tutto il monologo e a livello tematico si attaglia in modo perfetto alla dimensione marcatamente arcaica, pre-umana ed extra-umana, dominata da entità mostruose, dalla violenza ferina e dalla fisicità di scontri animaleschi, brutali e feroci, che tutta la tragedia evoca.

 

Con questa realtà aberrante, la barbarica terra senza lingua condivide uno statuto segnatamente inferiore rispetto sia ai parametri della normale fisiologia umana sia ai canoni del mondo civilizzato, caratterizzandosi come parte della terra abitata alla quale in modo radicale è negata tout court la possibilità di emettere suoni: una vera condanna al silenzio totale, una condizione esistenziale di assenza di voci, una esclusione senza deroghe dal processo di comunicazione, quindi dalle umane relazioni, un segno di discrimine totale e assoluto fra la terra barbara e quella greca.




Ben diverso, nel contesto del dramma, è di conseguenza il loro rispettivo rapporto con l’eroe che le ha purificate: è la Grecia, non certo la terra ‘senza lingua’, a soffrire e piangere per la fine imminente del protagonista assoluto della vittoria della civiltà sulla barbarie, ed è solo ai Greci che Eracle si rivolge, aspettandosi da loro il gesto pietoso di una morte che lo liberi dalle intollerabili sofferenze.

 

Strabone denotava tutti i popoli non greci come ‘coloro che avevano difficoltà di pronuncia ed emettevano suoni duri ed aspri’; essi venivano così ad essere scherniti per la ‘pronunzia’ che l’orecchio greco coglieva nei suoni da loro prodotti. Attraverso una fase successiva, in cui si registrava un uso altrettanto generalizzato, ma improprio, del termine, impiegato come una denominazione etnica indicante tutte le stirpi non greche contrapposte agli ‘Hellenes’, si arrivava alla scoperta, conseguente alla ininterrotta frequentazione greca con i barbari ed espressione di un’ottica relativistica, che le presunte difficoltà articolatorie dei non Greci erano dovute alle specificità dei loro idiomi, compresa una presunta paradossale difficoltà comprensiva degli stessi che ne regolano l’articolata grammatica pronunziata o tacitata; ed una limitatezza intellettiva seppur ‘diversa’ nella forma dei parlanti: termini che non possono non evocare l’aglossos gaia sofoclea, per la concretezza della rappresentazione, la categoricità dell’assunto e l’atteggiamento mentale nei confronti di questo specifico aspetto del mondo barbaro.




Tra le varie espressioni riferite, nel passo straboniano, al modo di parlare dei non Greci, là ove si stabilisce una connessione tra le diffcoltà fonatorie ed una presunta inadeguatezza fisica: un rapporto di interdipendenza reciproca che a un livello più generale non era sfuggito, ovviamente, all’indagine medica ippocratica e neppure alla riflessione propriamente filosofica, di Pitagora e Platone ad esempio, i quali ponevano in stretta relazione l’incapacità di parlare degli esseri viventi ritenuti privi di ragione e una condizione squilibrata del corpo.

 

Relativamente al trattato De audibilibus, di provenienza peripatetica e incentrato sui meccanismi di produzione e ricezione dei suoni, si apprende che le ‘voci’ erano avvertite come ‘spesse’, ‘pesanti’, ‘dense’ ‘inarticolate’ ‘inespressive’ e condensate e intramezzate da risate ubriache conferite dalla mancanza di comprensione della Natura e la sua Poesia.

 

Ritenute il risultato di una affezione, anche transitoria, a livello del sistema fonatorio, consistente nella ruvidezza della trachea, che impedisce una fuoriuscita agevole del pneuma causando un aumento di volume della voce.




Oltre che dal De audibilibus, anche dal De voce, che costituisce la sezione XI dei Problemata pseudo-aristotelici, quindi da una trattatistica di tipo specialistico che affrontava problematiche di acustica, di fonetica, di musica, si desumono indicazioni sulla percezione del suono ‘aspro’, ‘meccanico’, riconosciuto come caratteristico della voce dell’adolescente nella fase della pubertà, non più acuta e non ancora grave, di altezza oscillante, con effetto disarmonico, come ogni suono generato da organi fonatori resi ruvidi da una anomala condizione fisica.

 

Voci o rumori si distinguono per la mancanza di fluidità nell’articolazione dovuta a una incapacità di collegare i suoni, e per la conseguente percezione dell’interruzione del continuum fonico. Imperfezioni anatomiche o affezioni transitorie privano le funzionalità di bambini, ubriachi, vecchi, balbuzienti – in generale di tutti coloro che hanno difficoltà (oltre che di comprensione intellettiva) a muovere lingua e bocca in modo corretto – della qualità che rende le voci intelligibili, cioè la fisiologia determinata dalla precisione con cui vengono emessi i suoni che debbono essere distintamente articolati per essere correttamente percepiti e compresi dagli stessi soggetti parlanti.




In particolare, i balbuzienti, compresi gli odierni balbuzienti del frammentato messaggino, non avendo la padronanza della propria lingua, sono ancor oggi affitti da una sorta di discrasia tra il movimento articolatorio e l’attività intellettiva (la quale viene compensata dall’I.A.). E balbuzienti per eccellenza, come indica il termine onomatopeico che li connota collettivamente, sono considerati i barbari: pur non citati espressamente nel passo del De audibilibus, essi condividono con le altre categorie menzionate l’inintelligibilità delle proprie voci, qui riferita al livello dell’articolazione e della fonazione dei suoni, ma con intuibili inferenze anche sul piano della loro semanticità. 

(A. Amatori)









sabato 22 giugno 2024

IL RACCONTO DELLA DOMENICA, ovvero, LA SAGGEZZA

 









Se ti imbatterai in un bosco sacro, denso di alberi vetusti e cresciuti oltre l’altezza ordinaria e tale da sottrarti la vista del cielo con il fitto intrico dei suoi rami che si coprono a vicenda, l’altezza degli alberi, l’appartata solitudine e lo spettacolo suggestivo dell’ombra così compatta e continua pur nel bel mezzo di una campagna aperta, ti comproveranno la presenza di un nume.




Se un antro formato da rocce profondamente erose tiene come sospeso un monte, un antro non fatto dalla mano dell’uomo, ma scavato da cause naturali per una larghezza così enorme, ebbene questo fenomeno colpirà il tuo animo con l’indefinita sensazione di una presenza divina.

 

Veneriamo le sorgenti dei grandi Fiumi; la polla improvvisa di un imponente corso d’acqua, scaturita dal sottosuolo, ha i suoi altari; si onorano le sorgenti di acque termali. Alcuni stagni hanno acquisito sacralità per la cupezza o la profondità insondabile delle loro acque.




Se vedrai un uomo restare imperterrito tra i pericoli, non toccato dalle passioni, felice nelle avversità, sereno in mezzo alle tempeste, un uomo che guarda gli altri uomini dall’alto e pone gli dei al suo stesso livello, non ti pervaderà un senso di ammirazione? Non dirai: ‘Questo essere è troppo grande e sublime perché si possa pensare che sia sostanzialmente simile al misero corpo in cui si trova’?

 

In lui è discesa una forza divina.

 

Un animo che spicca sopra gli altri, un animo capace di dominarsi, di passare oltre a ogni cosa, considerandola inferiore, e di ridere di tutto ciò che noi temiamo e desideriamo, è mosso da una potenza celeste.




Un essere così grande non può sussistere senza il sostegno di un nume; pertanto con la parte migliore di sé egli risiede là da dove è disceso. Come i raggi del sole toccano bensì la terra, ma rimangono inglobati nella fonte dalla quale vengono emessi, così un animo nobile e santo, mandato quaggiù affinché conoscessimo più da vicino la divinità, ha con noi un rapporto di familiarità, ma rimane legato alla sua origine: di là prende riferimento, là volge il suo sguardo e il suo desiderio anelo, e partecipa della nostra realtà, ma come un essere migliore.

 

Qual è dunque la natura di quest’animo che non risplende per alcun bene esterno, ma soltanto del proprio?




Che cosa peraltro c’è di più stolto del lodare in un uomo doti che gli sono estranee?

 

Che cosa c’è di più demenziale di un uomo che ammira ciò che può passare immediatamente a un altro?

 

Freni d’oro non rendono un cavallo migliore. In un modo fa il suo ingresso nell’arena un leone con la criniera dorata, mentre tirandolo lo si vezzeggia e, ormai spossato, è costretto ad accettare pazientemente gli ornamenti; in ben altro modo un leone selvatico e integro nella sua fierezza. Quest’ultimo, certo aggressivo come la natura lo ha voluto, impressionante per la sua selvaggia bellezza – il suo unico vanto consiste nell’essere guardato non senza suscitare paura – è preferito all’altro, illanguidito e coperto di lamine d’oro.




Nessuno deve gloriarsi se non delle proprie qualità.

 

Lodiamo la vite, se carica di frutti i tralci, se con il suo peso abbassa fino al suolo gli stessi pali di sostegno. C’è qualcuno che le preferirebbe quella vite da cui pendono grappoli d’oro, foglie d’oro?

 

La virtù caratteristica della vita è la feracità. Così anche nell’uomo si deve lodare ciò che è propriamente suo. Quel tale ha una servitù avvenente, una bella casa, semina vasti terreni, ha capitali molto redditizi; ebbene, nessuno di tali beni è in lui, ma intorno a lui. Devi apprezzare in quest’uomo quanto non può essere né tolto né dato, quello che è proprio della persona umana.




Tu chiedi: di che si tratta?

 

Dell’animo e della ragione che nell’animo è perfetta.

 

L’uomo è un essere animato provvisto di ragione; pertanto il suo bene raggiunge il massimo compimento se egli ha assolto sino in fondo ciò per cui viene al mondo.

 

Ma qual è mai l’impegno che la ragione esige da lui?

 

Nulla di più facile: vivere secondo la sua natura. Ma questo compito è reso difficile da una follia generale: ci spingiamo l’un l’altro nei vizi.




E come si possono richiamare sulla via della salvezza quelli che nessuno trattiene e che il popolo sprona?

 

Già costui ti ha persuaso di essere un uomo virtuoso?

 

Eppure un uomo non può in così breve tempo diventare virtuoso né essere riconosciuto come tale.

 

Sai che cosa ora intendo quando parlo di uomo virtuoso?




Un tipo come codesto tuo amico, uno di seconda qualità. Quell’altro, infatti, quello di primo rango, nasce forse ogni cinquecento anni, come la fenice. Non c’è da meravigliarsi che le cose grandi siano generate a grandi intervalli di tempo: le mediocri e quelle che nascono per confondersi con la massa, la Fortuna le produce spesso; le esimie, invece, ce le raccomanda per la loro stessa rarità.

 

Ma questo personaggio è finora ben lontano da ciò che dichiara di essere e se sapesse che cosa significa essere uomo virtuoso, non crederebbe ancora di esserlo, anzi dispererebbe di poterlo diventare.

 

‘Però ha cattiva opinione dei cattivi’.




Lo fanno anche i cattivi e per la malvagità non c’è maggior pena dello spiacere a se stessa e ai suoi adepti.

 

‘Però lui odia quelli che si servono con estrema arroganza di un potere grande e ottenuto in un momento’.

 

Si comporterà in modo identico, quando disporrà di un medesimo potere.




I vizi di molti rimangono nascosti perché sono vizi che non sanno imporsi, ma quando costoro si sentiranno soddisfatti dell’entità delle proprie forze, quei vizi diventeranno non meno audaci di quelli che la prosperità ha già messo allo scoperto. Ecco ciò che a loro manca: gli strumenti per sviluppare la propria malvagità (e quando in futuro ne disporranno diverranno ancor peggiori e pessimi agli elementi).

 

Analogamente, si può maneggiare con sicurezza un serpente, sia pure dei più velenosi, mentre è irrigidito per il freddo: intanto non gli mancano i veleni, ma sono intorpiditi. Alla crudeltà, all’ambizione, alla sfrenatezza di molti manca il favore della Fortuna, che li mette in grado di osare azioni pari a quelle degli uomini più scellerati. Ecco come ti renderai conto che essi vogliono le stesse cose: da’ a queste persone un potere adeguato ai loro desideri.




Ti ricordi che quando affermavi che un tale era totalmente condizionato da te, avevo detto che si trattava di una persona quanto mai volubile e leggera e che non lo tenevi per un piede, ma per un’ala? Ebbene, dissi una bugia: era tenuta da una piuma, e lui te la lasciò e fuggì. Sai quali spettacoli ti ha dato di se stesso, quante cose ha tentato, destinate poi a ricadere sulla sua testa. Non si accorgeva di precipitare in una situazione pericolosa, esponendo altri a dure prove; non pensava quanto fossero gravose le sue richieste, anche se non erano superflue.




Pertanto negli oggetti dei nostri desideri, che cerchiamo di realizzare con grande, faticoso impegno, dobbiamo constatare proprio questo: o che non presentano alcun vantaggio o che gli aspetti negativi prevalgono su quelli positivi. Certi, poi, sono del tutto superflui, altri di nessun valore. Ma non vediamo la situazione sino in fondo e ci sembra gratuito ciò che ha un prezzo molto alto.

 

La nostra stupidità risulta chiaramente dal ritenere che si possa acquistare soltanto ciò per cui sborsiamo denaro; chiamiamo invece gratuite quelle cose che paghiamo con la nostra stessa persona. Quei beni che non vorremmo acquistare, se dovessimo dare in cambio la nostra casa, un’area in posizione amena o un terreno fertile, siamo più che mai disposti a ottenerli a prezzo di ansie e pericoli e gettando via dignità e libertà e tempo: a tal punto nulla è per ciascuno di noi più disprezzabile di se stesso.




Orbene, in tutti i nostri progetti e in tutto ciò che ci riguarda dobbiamo agire come di solito ci comportiamo verso il venditore di una qualche merce: consideriamo a quale prezzo ci viene ceduto l’oggetto dei nostri desideri. Spesso ci costa un prezzo altissimo ciò per cui non sborsiamo un quattrino.

 

Ti posso indicare molti beni che, acquisiti o ricevuti per il favore altrui, ci hanno strappato la libertà. Apparterremmo a noi stessi, se codeste cose non fossero nostre.

 

Rifletti dunque su questo punto non solo quando si tratterà di ottenere un vantaggio, ma anche di subire una perdita.

 

‘È un bene destinato a perire’.




Certo, ma è venuto dall’esterno: senza questo bene vivrai così facilmente come sei vissuto finora. Se lo hai posseduto a lungo, lo perdi dopo essertene saziato, se è stato tuo per breve tempo, lo perdi prima che tu ti sia abituato ad averlo.

 

‘Avrai meno denaro’.

 

Certo, ma anche meno seccature.

 

‘Minor credito’.

 

Certo, ma anche meno invidie.




Passa in rassegna questi beni che ci spingono alla follia, che perdiamo con un torrente di lacrime: ti accorgerai che in essi non il danno reca molestia, ma la nostra nozione di danno. Nessuno sente la perdita di questi beni, ma la pensa soltanto.

 

Chi possiede se stesso, non ha perduto nulla.

 

Ma quante sono le persone che hanno la ventura di possedersi?

 

(seneca)








mercoledì 19 giugno 2024

L'ITALIA DEL 22 (la Storia)

 








Precedenti capitoli 


circa (l'intera) 


Storia 


per chi 'Nulla'  avesse 







compreso circa la vera 


ricchezza che in essa... 


si cela 







…Sullo medesimo ripiano forse solo per combinazione qualcuno havea consumato ed unito gli stessi antichi accadimenti; ed su una carta di Papiro si legge… la trama d’una Storia apparentemente estranea ma tratta da ugual medesimo Panorama…

 

Tal ritrovato documento accerta e attesta Tempi ricomposti come piccoli iconografiche impronte di lontani fotogrammi ricongiunti alla Luce del Sapere; e giunti dalla lontana remota pulsione di univoca Vita nella medesima volontà del Creatore proiettata nell’altrui volontà di illuminare la Coscienza negata e perseguitata.

 

….Giacché chi pone e pretende giudizio terreno verso colui che non si è macchiato di alcun peccato non certo provvisto della Coscienza detta cui l’humano transitato in medesima crosta di Terra.

 

Tempi ed atti, dunque, assai remoti probabilmente furono conservati entro una giara e acquistati dallo stesso convento in cui il frate, e poi il successivo Bibliotecario, compongono la Cima d’un più probabile Dio dimenticato in cotal preghiera…

 

Come tali compongono una frammentata ritrovata iconografia posta nei successivi fotogrammi di una medesima Storia ripetuta ma giammai finita, giacché di Infinito esiste solo il Buon Dio; quindi come scorgeva nella sua profetica visione il precedente frate: una Terra inaccessibile e ancora non del tutto esplorata in tutta l’elevata altezza, e di cui solo la Conoscenza ne penetrerà - senza violarlo - il Tempio della comune Memoria celebrata ed eternamente offesa cagione della Verità mutilata…

 

Il Tomo fors’anche Papiro è stato nei Secoli transitati, giammai siano detti conquistati dallo stesso, ben conservato nonché tradotto…, non facilmente databile si presume composto Secoli anteriori del ritrovamento del precedente scritto...

 

…Ne riportiamo, dopo averli tradotti, taluni brevi Frammenti di un ugual medesimo Processo…

 

(Giuliano Lazzari; Un mondo perduto)

 

 





L’ITALIA DEL 22  

 

 

Roma, 14 novembre 1922. Mussolini non ha atteso la riunione delle camere del 16 novembre per far conoscere le linee guida del suo programma. Le dichiarazioni che ha fatto negli ultimi giorni ai giornalisti sono così numerose che anche l’uomo politico più abile e scaltro impiegherebbe anni per realizzare tutte le riforme annunciate.

 

Mussolini non nasconde di aver preso il potere per agire, e ha intenzione di agire rapidamente; in questo non gli si può certo negare una certa coerenza.

 

Inoltre è vero che molte riforme sono davvero urgenti.

 

Se si fa riferimento al decreto che sarà sottoposto all’approvazione del parlamento, sembra che la prima preoccupazione del presidente del consiglio sia mettere ordine nelle finanze pubbliche e nella burocrazia. Mussolini chiede che al suo governo siano accordati i pieni poteri per 13 mesi, con l’obiettivo di semplificare il sistema fiscale e ridurre il numero dei dipendenti pubblici. Inoltre chiede sei dodicesimi provvisori di bilancio. Infine invita la camera a procedere senza indugi alla riforma della legge elettorale.




In tempi normali si potrebbe dubitare della sollecitudine dei deputati nel votare una riforma che segna di fatto la fine del loro mandato. Ma non viviamo in tempi normali. Mussolini ha già fatto capire alla camera che è destinata a soccombere. Se sarà saggia, le sarà permesso di dibattere e le sarà lasciata la possibilità di scegliere il genere di morte che preferisce; in caso contrario sarà sciolta senza discorsi.

 

E le elezioni, non potendo ancora svolgersi secondo il meccanismo appena proposto, si faranno con i metodi dei fascisti, cioè molto energici.

 

Già adesso su Montecitorio si avverte una sorta di minaccia. I gruppi più importanti hanno fatto fatica a riunirsi; solo uno o due giornali alzano timidamente la voce per ricordare che in fin dei conti spetta al parlamento dare o rifiutare al presidente del consiglio i pieni poteri politici o le prerogative finanziarie che reclama.

 

È evidente che simili osservazioni sono oggi puramente formali, e che i deputati e i giornalisti di opposizione sono convinti che se la camera non darà a Mussolini i poteri che chiede, Mussolini se li prenderà comunque. Cinquanta deputati si sono iscritti per parlare, ma i funzionari del nuovo governo dicono apertamente che non è più il momento di scherzare, che sono finiti i tempi in cui si analizzavano cavillosamente le questioni senza risolverle e si solleticava la vanità degli oratori senza preoccuparsi degli interessi nazionali.

 

La camera dovrà attenersi a tempi molto rapidi.




Queste nuove regole, molto diverse da quelle applicate finora, provocheranno qualche protesta da parte dei deputati?

 

Difficile dirlo!

 

Negli ambienti più informati si prevede piuttosto un’ubbidienza rassegnata. Anziché compromettere quei pochi mesi di vita che il governo sembra disposto a concederle, la camera si limiterà a fare un uso molto discreto delle sue prerogative e a rinunciare a un’opposizione da cui non si aspetta nulla di buono. Nel frattempo Mussolini ha cominciato a prendere le misure con le quali, in tutti i paesi a regime parlamentare, i capi di governo si preparano alle elezioni: ha sostituito alcuni prefetti e nominato un capo supremo della sicurezza, il generale Emilio De Bono, che ancora ieri era alla testa delle forze fasciste.

 

Arrivano rassicurazioni sul fatto che la riduzione dei contingenti di polizia e di carabinieri annunciata pochi giorni fa sarà in qualche modo compensata dall’uso che farà il governo delle già sperimentate formazioni fasciste per assicurare l’ordine pubblico nella capitale e nel regno. In questo modo sarebbe risolta la pericolosa questione posta dalla smobilitazione delle “camicie nere”.




Quest’ipotesi, tuttavia, dev’essere confermata.

 

Nelle sue dichiarazioni al parlamento difficilmente Mussolini esporrà in dettaglio i mezzi con i quali si propone di portare a termine l’opera di riforma che ha intrapreso. Su questo punto, come su altri, il capo del governo chiederà completa libertà d’azione, persuaso che, anche se la camera gli rifiutasse la fiducia, manterrà comunque quella del paese. 

(Maurice Pernot) 

 

Il fascismo fu certamente una dittatura, ma non era compiutamente totalitario, non tanto per la sua mitezza, quanto per la debolezza filosofica della sua ideologia. Al contrario di ciò che si pensa comunemente, il fascismo italiano non aveva una sua filosofia. L’articolo sul fascismo firmato da Mussolini per l’Enciclopedia Treccani fu scritto o venne fondamentalmente ispirato da Giovanni Gentile, ma rifletteva una nozione tardo-hegeliana dello “stato etico e assoluto” che Mussolini non realizzò mai completamente.

 

Mussolini non aveva nessuna filosofia: aveva solo una retorica.

 

Cominciò come ateo militante, per poi firmare il concordato con la Chiesa e simpatizzare coi vescovi che benedivano i gagliardetti fascisti. Nei suoi primi anni anticlericali, secondo una plausibile leggenda, chiese una volta a Dio di fulminarlo sul posto, per provare la sua esistenza.

 

Dio era evidentemente distratto.




In anni successivi, nei suoi discorsi Mussolini citava sempre il nome di Dio e non disdegnava di farsi chiamare ‘l’uomo della Provvidenza’. Si può dire che il fascismo italiano sia stata la prima dittatura di destra che abbia dominato un paese europeo, e che tutti i movimenti analoghi abbiano trovato in seguito una sorta di archetipo comune nel regime di Mussolini.

 

Il fascismo italiano fu il primo a creare una liturgia militare, un folklore, e persino un modo di vestire – riuscendo ad avere all’estero più successo di Armani, Benetton o Versace. Fu solo negli anni trenta che movimenti fascisti fecero la loro comparsa in Inghilterra, con Mosley, e in Lettonia, Estonia, Lituania, Polonia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Grecia, Iugoslavia, Spagna, Portogallo, Norvegia, e persino in America del Sud, per non parlare della Germania.

 

Fu il fascismo italiano a convincere molti leader liberali europei che il nuovo regime stesse attuando interessanti riforme sociali in grado di fornire un’alternativa moderatamente rivoluzionaria alla minaccia comunista.




Tuttavia, la priorità storica non mi sembra una ragione sufficiente per spiegare perché la parola ‘fascismo’ divenne una sineddoche, una denominazione pars pro toto per movimenti totalitari diversi. Non serve dire che il fascismo conteneva in sé tutti gli elementi dei totalitarismi successivi, per così dire, ‘in stato quintessenziale’.

 

Al contrario, il fascismo non possedeva alcuna quintessenza, e neppure una singola essenza.

 

Il fascismo era un totalitarismo fuzzy.

 

Il fascismo non era una ideologia monolitica, ma piuttosto un collage di diverse idee politiche e filosofiche, un alveare di contraddizioni.

 

Si può forse concepire un movimento totalitario che riesca a mettere insieme monarchia e rivoluzione, esercito regio e milizia personale di Mussolini, i privilegi concessi alla chiesa e una educazione statale che esaltava la violenza, il controllo assoluto e il libero mercato?

 

Il partito fascista era nato proclamando il suo nuovo ordine rivoluzionario ma era finanziato dai proprietari terrieri più conservatori, che si aspettavano una controrivoluzione. Il fascismo degli inizi era repubblicano e sopravvisse per vent’anni proclamando la sua lealtà alla famiglia reale, permettendo a un ‘duce’ di tirare avanti sottobraccio a un ‘re’ cui offerse anche il titolo di ‘imperatore’. Ma quando nel 1943 il re licenziò Mussolini, il partito riapparve due mesi dopo, con l’aiuto dei tedeschi, sotto la bandiera di una repubblica ‘sociale’, riciclando la sua vecchia partitura rivoluzionaria, arricchita di accentuazioni quasi giacobine.




Nel corso di quel ventennio, la poesia degli ermetici rappresentò una reazione allo stile pomposo del regime: a questi poeti venne permesso di elaborare la loro protesta letteraria dall’interno della torre d’avorio. Il sentire degli ermetici era esattamente il contrario del culto fascista dell’ottimismo e dell’eroismo. Il regime tollerava questo dissenso palese, anche se socialmente impercettibile, perché non prestava sufficiente attenzione a un gergo così oscuro. Il che non significa che il fascismo italiano fosse tollerante.

 

Gramsci venne messo in prigione fino alla morte, Matteotti e i fratelli Rosselli vennero assassinati, la libera stampa soppressa, i sindacati smantellati, i dissidenti politici confinati su isole remote, il potere legislativo divenne una mera finzione e quello esecutivo (che controllava il giudiziario, come pure i mass media) emanava direttamente le nuove leggi, tra le quali vi furono anche quelle per la difesa della razza (l’appoggio formale italiano all’Olocausto).        

 

Non ci fu uno Ždanov fascista.




In Italia ci furono due importanti premi artistici: il Premio Cremona era controllato da un fascista incolto e fanatico come Farinacci, che incoraggiava un’arte propagandistica (mi ricordo di quadri intitolati Ascoltando alla radio un discorso del Duce o Stati mentali creati dal Fascismo), e il Premio Bergamo, sponsorizzato da un fascista colto e ragionevolmente tollerante come Bottai, che proteggeva l’arte per l’arte e le nuove esperienze dell’arte d’avanguardia che in Germania erano state bandite come corrotte e criptocomuniste, contrarie al Kitsch nibelungico, il solo ammesso.

 

Il poeta nazionale era d’Annunzio, un dandy che in Germania o in Russia sarebbe stato mandato davanti al plotone d’esecuzione. Venne assunto al rango di Vate del regime per il suo nazionalismo e il suo culto dell’eroismo – con l’aggiunta di forti dosi di decadentismo francese. Prendiamo il futurismo. Avrebbe dovuto essere considerato un esempio di entartete Kunst, così come l’espressionismo, il cubismo, il surrealismo. Ma i primi futuristi italiani erano nazionalisti, favorirono per ragioni estetiche la partecipazione italiana alla prima guerra mondiale, celebrarono la velocità, la violenza, il rischio, e in certo modo questi aspetti sembrarono vicini al culto fascista della gioventù. Quando il fascismo si identificò con l’impero romano e riscoprì le tradizioni rurali, Marinetti (che proclamava una automobile più bella della Vittoria di Samotracia e voleva persino uccidere il chiaro di luna) venne nominato membro dell’Accademia d’Italia, che trattava il chiaro di luna con grande rispetto.




 

ERETICI AL CONFINO

 

 

Il confino politico fu istituito come misura di prevenzione da adottare ante delictum nei confronti di soggetti che avrebbero potuto costituire un pericolo per la società, ma che ancora non avevano commesso alcun tipo di reato. Come tutte le misure preventive, il confino era di competenza amministrativa e non aveva uno scopo punitivo: il problema sorse quando del concetto di prevenzione si fece un uso politico fornendo la base con cui legittimare l’allontanamento dal contesto sociale di individui che potevano essere, realmente o meno, un pericolo: le misure di prevenzione divennero, così, ‘lo strumento principale per assicurare l’intangibilità politica’ del regime.

 

Essendo uno strumento di polizia, il confino presupponeva situazioni di mero sospetto: discrezionalità e presunzione di pericolosità assunsero un ruolo fondamentale. Se il diritto penale offriva, almeno in teoria, la garanzia di essere puniti esclusivamente per fatti oggettivi, le misure di polizia si fondavano su giudizi e non comportavano la commissione di un illecito penale. In tal modo, basandosi esclusivamente su indizi di ‘presunta pericolosità’ e non su fatti, esse rappresentarono un sistema sussidiario e complementare al diritto penale, integrando quest’ultimo senza però ad esso sostituirsi né equipararsi.




Applicandosi alle persone sospette la misura di prevenzione di polizia toccava da vicino il problema della libertà individuale.

 

L’Italia liberale aveva conosciuto il domicilio coatto che era stato usato anche per reprimere le attività politiche di opposizione, il libero arbitrio, gli eretici ‘contro’, quando ‘contro’ vuol significare ogni ingiustizia sociale dello stesso lo stato; la novità che apportò il regime fascista consistette nella nascita di un sistema istituzionalizzato di polizia con poteri propri di prevenzione e di repressione politica, presupposto di nuove norme giuridiche. Non a caso nel 1930 il consigliere della Corte di cassazione del Regno, Antonio Saccone, in merito al confino, affermava:

 

‘Certo, non si potrà esercitare una seria ed efficace tutela preventiva, se non limitando in parte lo svolgersi integrale della propria libertà personale; ma ciò non vale a far condannare senz’altro ogni misura di polizia preventiva [...] [giacché] è minor inconveniente limitare in parte l’esplicazione dell’attività individuale che non lasciar priva di tutela la sicurezza pubblica dei cittadini’.




In nome di un ‘bene comune’, quello della ‘sicurezza pubblica’, si giustificava l’adozione di misure di polizia preventive volte ad assicurare un ordine pubblico a scapito dei principali diritti civili e politici dei singoli.

 

I diritti soggettivi furono calpestati dallo stesso regolamento normativo del confino poiché era prevista la possibilità di arrestare nemici politici e di trattenerli senza rendere espliciti i capi d’accusa e senza difesa contro un mero sospetto.

 

Il tema dello Stato di diritto e del suo scardinamento tramite la prassi della detenzione senza imputazione è fondamentale, in quanto, proprio su questa regola, si basò il confino favorendo, in questo modo, la nascita in Italia di un regime dittatoriale in cui l’utilizzo di istituti contrari alle garanzie del diritto della persona e finalizzati alla repressione di una o più determinate categorie, non fu il risultato di eccessi del sistema, ma parte organica di questo stesso.




La misura di prevenzione costituita dal confino risultò contraria allo Stato di diritto innanzitutto perché non rispettava il cosiddetto principio di legalità formale (espresso dalla locuzione latina nullum crimen, nulla poena sine previa lege poenali, spesso abbreviata con la formula nullum crimen, sine lege), principio che esprime l’idea che non possa esserci reato, e quindi nessuna pena, se non esiste la legge che lo prevede. Tale convinzione, alla base del diritto moderno, era nata per garantire la libertà del singolo dallo strapotere dello Stato di polizia e per eliminare la possibilità di un uso retroattivo (principio di irretroattività) delle leggi, in modo da evitare che potessero essere considerati reati quei comportamenti che nel momento in cui essi si manifestavano non erano considerati tali.

 

Benché, teoricamente, in Italia fosse restato in vita il principio di ‘legalità formale’, il senso del nullum crimen, sine lege fu completamente svuotato perché la misura di polizia, usata per fini politici, risultò essere uno strumento snello e veloce per colpire quelle categorie che non erano imputabili tramite il sistema giudiziario. Il rapporto cittadino-Stato cambiò a vantaggio del secondo e prese il sopravvento una visione di fatto sostanziale13 del reato a scapito di quella formale.




Il confino politico fu contrario allo Stato di diritto anche per un altro motivo: esso fu applicato, non di rado, come una sanzione, per di più detentiva. Una misura di prevenzione non ha carattere giuridico e non è una punizione perché – come già detto – non consegue a nessun reato commesso. Per questo motivo una misura preventiva non può essere considerata una pena, cioè una sanzione afflittiva, detentiva. Invero, il confino funzionò, per alcuni aspetti, come una misura di sicurezza, che invece è uno strumento penale, perché colpì, nella maggioranza dei casi, ex confinati che avevano finito di scontare il loro periodo e/o ex carcerati per motivi politici: in questi casi il confino non fu usato nei confronti di persone che non avevano ancora commesso alcun reato o infrazione nei confronti del regime, ma assunse la funzione di una misura di sicurezza nell’impedire nuovi reati, nel controllare la persona e nel frenare il suo stato di pericolosità, ma senza disporre di quelle garanzie proprie di una misura di sicurezza, cioè il disciplinamento di un processo penale tramite la presenza di un giudice.




La convergenza tra le misure preventive e quelle di sicurezza non sfuggì ad alcuni giuristi italiani dell’epoca che sostenevano la fusione dei due tipi di misure poiché esse avevano una radice comune, un carattere ideologico simile (colpivano la pericolosità sociale e quella politica assimilate l’una all’altra) e le stesse finalità mirando – le misure di sicurezza – non a recuperare il singolo ma a punirlo quanto quelle di polizia. Altri esperti prospettavano per i delinquenti giudicati irrecuperabili, per i quali l’internamento in case di cura o di lavoro non avrebbe avuto alcuna utilità, il confino politico rafforzando, quindi, la tesi della convergenza fra misure di prevenzione e misure di sicurezza.

 

Il confino politico, basandosi sul concetto di nemico, di pericolosità per la società e per lo Stato, di tutela della sicurezza comune, trovava giustificazione nei principi della cosiddetta Scuola positiva. Il modello penale cui faceva riferimento la Scuola positiva, dando più importanza alla difesa sociale rispetto alla libertà del singolo, si accordava all’impostazione statalista offerta dal nuovo assetto istituzionale e politico rappresentato dal fascismo.




Per quanto i giuristi in linea con il regime di Mussolini definissero lo Stato fascista uno Stato di diritto e lo considerassero il ‘compimento nel segno della legalità delle premesse dello Stato ottocentesco’ dopo la parentesi del regime liberale, tale assunto era privo di senso perché non si teneva conto del fatto che era un diritto nato non dal libero dibattito parlamentare e che non erano più assicurate ai cittadini le principali garanzie.

 

Durante il Ventennio si continuò a parlare di ‘Stato di diritto’ sebbene questo fosse stato profondamente adattato ai modelli che i teorici del fascismo andarono creando. Per la pubblicistica fascista lo Stato di diritto era una fase, un momento della realtà morale costituita dallo Stato etico: non essendo sempre valida la sua logica garantista soprattutto in situazioni eccezionali, lo Stato di diritto doveva porsi dei limiti e fare posto al cosiddetto Stato etico dove il cittadino continuava ad essere inteso come individuo, ma non più nella sua unicità, bensì nel suo appartenere ad una comunità nazionale.




Lo Stato etico impegnava tutti i cittadini ad una partecipazione totale e completa, così che dal popolo potesse scaturire la coscienza nazionale. Questo Stato – unità inscindibile di potere, identificato con quello esecutivo a sua volta imperniato sul capo del governo – risultava un’entità a parte, dotata di una propria esistenza, di propri scopi e di una propria morale. A questa doveva sottostare l’individuo, la cui libertà era prevista solo in funzione dello Stato. Stato e Nazione si fondevano in una sola cosa.

 

Stato e popolo costituivano un binomio indissolubile, dove per gli individui era un dovere assoluto obbedire alla volontà dello Stato senza nessun corrispettivo di diritti. In questa ottica lo Stato etico si faceva educatore delle masse e assumeva compiti pedagogici anche nell’ambito delle pene che assumevano una funzione rieducatrice morale e sociale; ‘il ripristino della pena di morte’ e il rigore del sistema penitenziario, tuttavia, erano ben lontani ‘dal consentire il conseguimento di finalità rieducative, esprimendo piuttosto un programma intimidatorio di prevenzione generale negativa’.




Il successo dell’efficacia del confino politico dipese non solo dalle modalità usate dal regime e dal comportamento delle autorità e delle guardie, ma anche dall’atteggiamento della popolazione civile che viveva nelle immediate vicinanze. La reazione e la ricezione della gente locale a questo strumento repressivo e il modo di rapportarsi ai ‘nemici’ dello Stato sono questioni di non facile analisi perché andrebbero tenuti in considerazione molti fattori, come il genere di questi involontari testimoni, la loro classe sociale di appartenenza, il loro livello di politicizzazione.

 

Alcune persone espressero indifferenza o diffidenza nei confronti dei confinati; altre assunsero atteggiamenti ostili o commisero azioni che resero più difficile la condizione dei perseguitati politici; altre, ancora, manifestarono forme più o meno concrete di solidarietà riuscendo ad alleviare le condizioni di chi era confinato. L’insieme è eterogeneo e non permette di individuare delle categorie, anche perché alcuni comportamenti seguirono logiche legate non alla politica ma a questioni puramente personali. Non meno interessante è la reazione della gente comune alla presenza invadente delle autorità preposte alla vigilanza dei confinati. L’atteggiamento di fronte alle guardie fu dettato, come abbiamo detto, da opportunismo o dalla paura di essere accusati di connivenza o collusione con i politici.




Questo discorso conduce al tema più generale del ‘consenso’, una questione largamente trattata dalla storiografia italiana e sulla cui parola il medesimo dibattito scientifico non è sempre concorde. Senza addentrarci nello specifico, non si può negare che il regime fascista, non molto diversamente da quello nazista, si mosse in molteplici direzioni per raggiungere il consenso: mise in moto un apparato propagandistico con strutture senza precedenti rispetto a qualsiasi altro regime autoritario; usò strumenti repressivi e coercitivi; utilizzò idee profondamente radicate nella società.

 

Non v’è dubbio che ‘la fabbrica del consenso’ fu efficace anche solo per la profonda censura che riuscì ad eliminare tutti quegli aspetti che avrebbero potuto stendere un’ombra sul governo: ad un’iniziale propaganda ‘di agitazione’, violenta, fondata su mezzi relativamente semplici come comizi, opuscoli, volantini che facevano leva su basse pulsioni e istinti ispirati a sentimenti d’odio e rivalsa, ne seguì una ‘di integrazione’ finalizzata ad influire sulle abitudini e sui comportamenti tramite la diffusione di nuovi culti e simbologie.




Lo scopo del regime era ottenere non solo l’obbedienza, tramite l’uso della forza, ma anche una sorta di interiorizzazione dello ‘spirito’ del fascismo e della personalizzazione del potere.

 

Il ‘ducismo’, come in Germania il principio dell’autorità assoluta del capo (Führerprinzip), costruì quel culto della personalità che fu un elemento fondamentale nel consolidamento del potere nel tempo. Esso si radicò tanto profondamente da dare segni di cedimento solo a partire dalla promulgazione delle leggi razziali per continuare con l’entrata in guerra e con il suo andamento riuscendo, tuttavia, a resistere addirittura post mortem.

 

Certamente in regimi come quello fascista e nazista non era facile dissentire apertamente con il sistema. Se il nesso repressione-consenso è stato più volte esaminato dalla storiografia tedesca, quella italiana ha registrato un notevole ritardo sia nell’affrontare questa relazione sia nell’allontanarsi dall’impostazione defeliciana che aveva sottaciuto il rapporto coercizione-consenso. Una delle conquiste del dibattito più recente è stato proprio il riconoscimento della inscindibilità del binomio consenso-strumenti repressivi. La paura di esporsi apertamente contro l’arresto di qualcuno o di assumere determinati atteggiamenti che dessero adito a sospetto di connivenza o solidarietà spinse molti ad assumere comportamenti di consenso passivo, accettazione forzata o indifferenza.




È anche vero che il regime fascista (come altri di tipo dittatoriale) fu espressione di un profondo e diffuso consentire su alcuni valori e idee presenti già nella società a prescindere dall’adesione politica, dall’approvazione di alcuni atti del governo o dalla simpatia per il dittatore.

 

Questa continuità del regime di Mussolini con alcuni paradigmi culturali e idee prefasciste ben radicate nella coscienza storica del Paese emersero con forza nel mondo industriale: la classe dirigente economica italiana, per esempio, manifestò il suo consenso al regime perché il fascismo accoglieva quel ‘patrimonio di idee sul mondo, e sull’economia in particolare, che [era] frutto di un’esperienza comune a uomini politici, economisti e dirigenti economici’. Quel retaggio culturale e ideologico radicato in Italia come il protezionismo o la trasformazione organicistica della società era stato accettato e fatto proprio dal fascismo trovando il consenso di buona parte dei ceti economici italiani, almeno finché reale fu la possibilità di un rafforzamento politico, militare e industriale del Paese e cioè fino alla primavera del 1943 quando l’imminente disfatta si fece sempre più evidente. Aderire al regime, e quindi all’economia di guerra, volle dire per molti andare incontro a vere e proprie opportunità di avanzamento sociale ed economico.

 

Questo discorso, che qui è declinato al mondo industriale, può essere applicato anche ad altri gruppi sociali: alcune convinzioni culturali furono cavalcate dal regime che contò, al contempo, su una sorta di apatia, terreno fertile per il radicalizzarsi di pregiudizi trasversali ai ceti sociali, come a quelli sul bolscevismo.

 

Per spiegare il consenso non si può comunque escludere e minimizzare il verificarsi di veri e propri atteggiamenti entusiastici espressi da larghi strati della società, come quelli manifestati in occasione delle campagne di mobilitazione per le donazioni di oro. La politicizzazione delle masse (anche degli strati fino ad allora rimasti esclusi dalla politica) inquadrate nelle organizzazioni di regime, la fascistizzazione della società, il ruolo fondamentale del partito unico generarono episodi di sentita condivisione degli ideali fascisti. 

(C. Poesio)