IL GENOCIDIO

IL GENOCIDIO
THE LAST WITNESS (non accreditato dalla Commissione Warren)

mercoledì 6 dicembre 2023

LA CAGNETTA NERA (18)

 









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circa un Discorso 


d'apertura  (15/7)








Gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso sono quelli della Guerra fredda tra il blocco occidentale – Stati Uniti ed Europa – e il blocco sovietico, una guerra che russi e americani combattono sperimentando armi nucleari sempre più distruttive e sviluppando missili in grado di portarle sul nemico scavalcando gli oceani. Negli arsenali si accumulavano migliaia di bombe atomiche con un potenziale tale da distruggere il pianeta in pochi minuti. I test nucleari nell’atmosfera erano all’ordine del giorno.

 

Il 12 settembre 1962, proponendo la conquista della Luna come ‘nuova frontiera’ degli Stati Uniti, con un discorso di 17 minuti e 48 secondi all’Università Rice il presidente Kennedy spostò la Guerra fredda tra blocco occidentale e blocco sovietico su di un piano simbolico. Portare la sfida nello spazio significava trasformare la rivalità tra le superpotenze in una competizione dal sapore quasi sportivo. La forza militare si dava un obiettivo di progresso anziché di sopraffazione. In termini etologici, lo scontro fisico diventava uno scontro stilizzato: come i camosci quando si incornano senza farsi troppo male, basta che sia chiaro chi ha diritto alla femmina più ambita.




 La dissoluzione dell’Unione Sovietica fu in parte una conseguenza della supremazia spaziale conquistata dagli Stati Uniti con il Programma Apollo. Decisiva nel 1989 fu la caduta del muro di Berlino. Ne derivò un nuovo equilibrio mondiale che soltanto ora, con l’ascesa di Trump negli Stati Uniti, il dominio assoluto di Putin in Russia, la potenza cinese e la debolezza dell’Europa – di nuovo corrosa da stolti nazionalismi –, si sta incrinando.

 

Partita in forte vantaggio con il lancio del primo satellite artificiale, il 4 ottobre 1957, e con il primo uomo in orbita, Jurij Gagarin, il 12 aprile 1961, l’Unione Sovietica perse la guerra simbolica dello spazio. Il 3 luglio 1969, mentre Armstrong, Aldrin e Collins stavano per decollare verso il Mare della Tranquillità, il gigantesco razzo N-1 che Sergej Korolëv aveva progettato per lo sbarco sovietico esplodeva sulla rampa di lancio, e in una gara come quella non c’era posto per il secondo arrivato.

 

La conseguenza, imprevista anche dal governo americano, fu il tramonto della Guerra fredda e l’inizio della collaborazione nelle attività spaziali, sancita dalla missione congiunta Apollo-Sojuz del luglio 1975 e tuttora garantita dalla Stazione spaziale internazionale, che orbita sulle nostre teste con le bandiere di Usa, Russia, Unione Europea, Canada e Giappone. Visto così, lo sbarco sulla Luna diventa una vittoria della Ragione. Gli astronauti russi e americani sono gli Orazi e Curiazi del nostro tempo.




Certo va messo all’attivo l’impulso allo sviluppo tecnologico, un’onda lunga che porta alla navigazione satellitare, a Internet, ai telefoni cellulari, all’Intelligenza Artificiale. Ma forse ancora più importante è che volando verso la Luna l’uomo vide la Terra in tutta la sua bellezza e (violata) fragilità. Da allora siamo consapevoli di vivere su un’astronave naturale che corre intorno al Sole alla velocità di 30 chilometri al secondo: una nicchia ecologica con risorse limitate ed equilibri instabili. L’uomo, animale esploratore, andando per la prima volta su un altro mondo, scopriva il proprio. 

  

Il 12 settembre 1962 Kennedy presentò al mondo il progetto di conquista della Luna con queste parole, pronunciate allo stadio della Rice:

 

‘Non vi è alcun contrasto, nessun preconcetto, nessun conflitto nazionale nello spazio. I suoi rischi lo rendono a tutti ostile.

 

La sua conquista merita il meglio di tutta l’umanità.

 

Certe opportunità di cooperazione pacifica potrebbero non ripresentarsi.

 

Ma perché, qualcuno dirà, la Luna?

 

Perché preferire questo come nostro obiettivo?

 

E costoro potrebbero allora domandarsi a buon diritto perché scalare le montagne più alte?

 

Perché, trentacinque anni fa, trasvolare l’Atlantico?

 

Perché la Rice gioca con la Texas?

 

Noi scegliamo di andare sulla Luna. Noi scegliamo di andare sulla Luna entro questo decennio non perché sia facile ma perché è difficile, perché quell’obiettivo ci servirà a organizzare e misurare le nostre migliori energie e capacità, poiché questa è una sfida che siamo disposti ad accettare, non siamo disposti a rimandare una sfida che intendiamo vincere. È per queste ragioni che io ritengo la decisione di rendere prioritaria la conquista dello spazio, tra le più importanti della mia presidenza’.




Risulta che Kennedy, a grandi linee, avesse concordato con i suoi consiglieri il discorso della ‘nuova frontiera’, ma che lo sbarco sulla Luna dovesse avvenire ‘entro questo decennio’ sembrò aggiunto nella foga oratoria del momento. Quando sentirono quella frase, i tecnici del suo staff ebbero un brivido di sgomento e dopo il bagno di folla segnalarono al presidente l’imprudenza.

 

Ma il sogno di inviare un americano sulla Luna Kennedy lo aveva già comunicato al Congresso il 25 maggio 1961. In quei giorni la Nasa aveva fatto arrivare al vicepresidente Johnson il sospetto che l’Unione Sovietica, dopo il successo di Gagarin in orbita, stesse preparando lo sbarco sulla Luna per il 1967, cinquantenario della Rivoluzione di ottobre.

 

Kennedy, allora, pensò a quell’anno anche per il programma spaziale americano. Alla Nasa si diffuse il panico. All’inizio degli anni Sessanta, lo svantaggio rispetto all’Unione Sovietica era troppo grande. Robert Seamans, codirettore della Nasa, telefonò al consulente di Kennedy, Ted Sorensen, spiegandogli che non ci si poteva esporre per quella data. ‘Allora che cosa consigliate?’ domandò Sorensen, e Seamans suggerì di dire ‘entro il decennio’.





Le parole di Kennedy furono:

 

‘Io penso che questo paese possa darsi un traguardo e raggiungerlo: far scendere un uomo sulla Luna e riportarlo sano e salvo sulla Terra prima che questo decennio sia finito’.

 

In realtà nessuno credeva che fosse un obiettivo raggiungibile. Capita che parole avventate trasformino in realtà sogni improbabili. 

(P. Bianucci)




La sua infanzia era stata affamata e randagia, ma l’infanzia è la stagione più felice della vita.

 

Particolarmente sereno era stato l’inizio della primavera – le giornate di maggio fuori città. Il profumo di terra e d’erba tenera riempiva l’anima di gioia. La sensazione di felicità era penetrante, addirittura insostenibile, a volte lei era così felice da non sentire neppure la fame. Per tutto il giorno le aleggiava nella testa e negli occhi una tiepida foschia verde. Si abbassava sulle zampe anteriori davanti a un soffione, abbaiava a scatti con allegra e impaziente voce infantile, invitando il fiore a scorrazzare con lei, ora indispettita ora beffarda, sorpresa dell’immobilità del suo grosso gambo verde.

 

Poi all’improvviso cominciava a scavare freneticamente una buca, e le zolle volavano via da sotto il suo pancino, le zampe pezzate, rosee e nere, e i piccoli polpastrelli scottavano a forza di sfregare la terra sassosa. Il suo musetto assumeva un’espressione febbrile come se, invece di giocare, la cagnetta si stesse scavando un rifugio per salvarsi la vita.

 

Era paffuta, aveva la pancia rosea, le zampe grosse, malgrado mangiasse poco in quel tempo radioso. Pareva che ingrassasse per la felicità, per la gioia di essere viva.




Ma poi erano finiti i giorni lievi dell’infanzia. Il mondo si era riempito di ottobre e di novembre, di ostilità e di indifferenza, di pioggia ghiacciata mista a neve, di fango, di avanzi viscidi, così ripugnanti da nauseare persino un cane affamato.

 

Ma anche nella sua esistenza errabonda accadeva qualcosa di buono – lo sguardo compassionevole di un essere umano, la possibilità di passare la notte accanto a una tubatura calda, un osso appetitoso. La sua vita canina aveva conosciuto la passione, l’amore e la luce della maternità.

 

Era una bastardina piccola, con le zampe storte. Ma sapeva eludere le forze ostili perché amava la vita ed era molto intelligente. Quella cagnetta dalla fronte ampia sapeva dove si annida il pericolo, sapeva che la morte non fa chiasso, non si sbraccia in gesti minacciosi, non scaglia pietre, non prende a calci con gli stivali, ma porge un pezzo di pane e si avvicina con un sorriso subdolo, nascondendo dietro la schiena una rete di tela ruvida.




Conosceva la forza distruttiva di camion e automobili, ne sapeva valutare esattamente la velocità, era capace di attendere con pazienza il defluire del traffico e di attraversare la strada di gran carriera davanti alle auto ferme al semaforo. Conosceva il treno, devastante nel suo avanzare rettilineo, e inoffensivo come un bambino per la sua incapacità di far male persino a un topo ad appena mezzo metro dalle rotaie. Distingueva il rombo, il fischio, il fragore degli aerei a elica e di quelli a reazione, il frastuono ritmico degli elicotteri. Conosceva l’odore dei tubi del gas, era capace di individuare il calore emanato dalle tubature sotterranee delle centrali termiche. Conosceva i ritmi di lavoro dei camion della nettezza urbana, sapeva come penetrare nei bidoni e nei cassonetti della spazzatura, distingueva all’istante l’involucro di cellofan dei prodotti semilavorati di carne e quello cerato del merluzzo, del gelato alla crema e del persico di mare.

 

Un cavo elettrico nero che sbucava da sottoterra la terrorizzava più di una vipera – una volta, con una zampa bagnata, ne aveva sfiorato uno, isolato in modo difettoso.

 

Probabilmente la cagnetta aveva acquisito un bagaglio di cognizioni tecniche superiore a quello posseduto da uomini esperti e capaci vissuti due o tre secoli prima di lei.




Era intelligente, e in più era anche istruita. Se non avesse accumulato un patrimonio di esperienza adeguato ai livelli raggiunti dal progresso tecnico alla metà del XX secolo, avrebbe certo fatto una brutta fine. I cani campagnoli capitati casualmente in città, infatti, sopravvivevano nelle strade urbane non più di qualche ora.

 

Ma per la lotta in cui era costantemente impegnata, esperienza e cognizioni tecniche non erano sufficienti, era indispensabile comprendere l’essenza della vita, occorreva una saggezza di vita.

 

La bastardina senza nome e dall’ampia fronte sapeva che il continuo cambiamento e il vagabondaggio erano il fondamento stesso della sua sopravvivenza.




Poteva accadere che qualche persona di buon cuore si mostrasse compassionevole nei confronti di quella pellegrina a quattro zampe, le desse da mangiare, le permettesse di passare la notte sulle scale di servizio. Rinunciare a una vita randagia significava morte sicura. Diventando sedentaria, avrebbe avuto a che fare con una persona d’animo buono e con cento malvagie. E ben presto sarebbe apparsa, subdola, la morte, porgendo con una mano un pezzo di pane, e tenendo nell’altra una rete di tela ruvida. Cento cuori malvagi sono più forti di un cuore buono.

 

La gente pensava che una cagnetta vagabonda non fosse capace di affezionarsi, che il vagabondaggio l’avesse guastata senza rimedio.

 

La gente si sbagliava. La vita dura non aveva incattivito la cagnetta randagia, ma nessuno aveva bisogno del bene che viveva nel suo cuore.




La presero di notte, nel sonno. Non la uccisero, la portarono all’Istituto. Le fecero fare un bagno in un liquido caldo e maleodorante, e le pulci smisero di tormentarla. Per qualche giorno la tennero in uno scantinato, dentro una gabbia. La nutrivano bene, ma lei non aveva voglia di mangiare. Un presentimento di morte non le dava tregua, soffriva per la privazione della libertà. Soltanto in quella gabbia, con una cuccia soffice e una ciotola linda piena di buon cibo, la cagnetta apprezzò la fortuna di una vita libera.

 

La irritava il latrare ottuso dei vicini. Gente in camice bianco la esaminò a lungo, uno di loro, un uomo dagli occhi chiari, magro, le diede un buffetto sul naso e le accarezzò la testa; ben presto la trasferirono in un luogo tranquillo.

 

Stava per entrare in contatto con la massima espressione della tecnica del Ventesimo secolo, cominciarono a prepararla per una grande impresa.

 

Le diedero un nome, Pestruška.




Con ogni probabilità neppure imperatori e primi ministri malati erano mai stati sottoposti a tante analisi. Aleksej Georgievič, l’uomo magro dagli occhi chiari, venne a sapere tutto ciò che era possibile sapere su cuore, polmoni, fegato, metabolismo, composizione del sangue di Pestruška, sulle sue reazioni nervose, sui suoi succhi gastrici.

 

La cagnetta capiva che non erano le donne delle pulizie né i tecnici di laboratorio né i generali con il petto coperto di decorazioni a disporre della sua vita, della sua morte, della sua libertà, delle sue ultime pene.

 

Lo capiva, e l’amore intatto di cui era capace il suo cuore lo donò ad Aleksej Georgievič: neppure tutto l’orrore del presente e del passato poteva inasprirla nei suoi confronti.




La cagnetta capiva che le iniezioni, i prelievi, i viaggi stordenti e nauseanti dentro le centrifughe e i test di vibrazione, l’angosciosa sensazione di assenza di peso che le pervadeva la coscienza, le zampe anteriori, la coda, il petto, le zampe posteriori – capiva che tutto questo era opera di Aleksej Georgievič, il padrone.

 

Ma la sua ragion pratica si rivelava impotente. La cagnetta aspettava il padrone che si era trovata, si struggeva quando lui non c’era, si rallegrava nel sentire i suoi passi, e la sera, quando lui se ne andava, gli occhi castani dell’animale parevano inumidirsi di lacrime.

 

Di solito dopo l’addestramento del mattino, particolarmente pesante, Aleksej Georgievič passava dallo stabulario – Pestruška, la lingua di fuori, il respiro affannoso, la testa dall’ampia fronte reclinata sulle zampe, lo contemplava con sguardo mansueto.




In qualche strano, inspiegabile modo, la cagnetta associava l’immagine dell’uomo diventato padrone della sua vita e del suo destino alla sensazione di quella tiepida, verde foschia primaverile, a un senso di libertà.

 

Guardando l’uomo che le infliggeva prigionia e tribolazioni, Pestruška sentiva nascere nel proprio cuore la speranza.

 

Aleksej Georgievič non si accorse subito di provare per lei un sentimento di pietà, di compassione, e non il consueto interesse scientifico, determinato dal lavoro.

 

Un giorno, osservando quel cane da laboratorio, pensò a quanto fosse irragionevole e assurda la quotidiana dedizione di migliaia e migliaia di allevatrici di pollame e allevatori di suini per gli animali che essi stessi preparavano al supplizio e alla morte. E altrettanto assurdi, insensati erano gli occhi mansueti della cagnetta, il suo naso umido fiduciosamente appoggiato sulla mano del carnefice.




Passavano i giorni, si avvicinava l’inizio della missione per cui Pestruška veniva addestrata. Era sottoposta a varie prove dentro un’ampia cabina; il viaggio straordinariamente prolungato dell’animale a quattro zampe preludeva al lungo volo dell’essere umano nello spazio.

 

Aleksej Georgievič era unanimemente detestato dai sottoposti. A qualche ricercatore faceva molta paura – era irascibile, non aveva alcuna remora a prendere severe misure disciplinari nei confronti dei tecnici di laboratorio. I superiori non lo amavano a causa della sua indole litigiosa e vendicativa.

 

Anche a casa non era una persona facile; spesso gli faceva male la testa, e allora il minimo rumore lo irritava. A causa della gastrite, soffriva di bruciore di stomaco, ma dava la colpa al cibo non adeguato, pensava che sua moglie non si preoccupasse abbastanza per lui e aiutasse di nascosto i propri numerosi parenti.




Anche i rapporti d’amicizia non erano semplici; aveva frequenti scatti di nervi, sospettava che gli amici provassero per lui indifferenza o sorda invidia. Dopo aver litigato con uno di loro stava male e allora voleva riconciliarsi, cercava faticosamente un chiarimento.

 

Ma neppure di se stesso Aleksej Georgievič era entusiasta, tutt’altro. Gli capitava di borbottare amaramente: «Ora ho proprio stufato tutti, me per primo».

 

La bastardina dalle zampe storte non tramava contro di lui sul posto di lavoro, non trascurava la sua salute, non si dimostrava invidiosa.

 

Lei, come Cristo, rispondeva al male con il bene, gli dava amore in cambio delle sofferenze che lui le causava.




Mentre Aleksej Georgievič esaminava gli elettrocardiogrammi, i dati sulla pressione del sangue e sui riflessi, la cagnetta lo osservava attenta con i suoi occhi castani pieni di devozione. Una volta lui cominciò a spiegarle ad alta voce che quello stesso ciclo di addestramento toccava anche agli uomini, e non era piacevole nemmeno per loro; certo, i rischi che la attendevano erano maggiori di quelli corsi dagli uomini, però il suo caso non era neppure paragonabile a quello della cagnetta Lajka che era andata incontro a morte certa.

 

Un’altra volta disse a Pestruška che lei sarebbe stata il primo essere vivente, da quando esisteva il pianeta Terra, a vedere il cosmo profondo. Che sorte meravigliosa le era toccata! Irrompere nello spazio cosmico, diventare la prima ambasciatrice della libera ragione nell’universo.

 

Gli sembrava che la cagnetta capisse ciò che le diceva.




E, a modo suo, era straordinariamente intelligente, di un’intelligenza canina, s’intende. Tecnici di laboratorio e inservienti scherzavano: 'La nostra Pestruška si è diplomata all’istituto tecnico'. Era del tutto a proprio agio in mezzo alle apparecchiature scientifiche, si sarebbe detto che conoscesse i princìpi di funzionamento degli strumenti, tanta era la naturalezza con cui si muoveva in quell’ambiente di terminali elettrici, morsetti, schermi, lampade elettroniche, mangiatoie automatiche.

 

Aleksej Georgievič era capace come nessuno di ricavare un quadro complessivo delle funzioni vitali di un organismo che si trovava in volo nello spazio vuoto a migliaia di chilometri di distanza dai laboratori terrestri.

 

Era uno dei fondatori di una nuova scienza: la esobiologia. Ma in quel caso ciò che lo appassionava non era la complessità del problema. Con la cagnetta dalle zampe storte nulla andava come al solito.





 Scrutava gli occhi di Pestruška. Proprio gli occhi miti di quella cagnetta, e non gli occhi di Niels Bohr, sarebbero stati i primi a vedere lo spazio cosmico senza la limitazione dell’orizzonte terrestre. Uno spazio dove il vento è assente, dove esiste solo la forza di gravità, uno spazio dove non ci sono nuvole, rondini, pioggia, uno spazio di fotoni e onde elettromagnetiche.

 

Gli occhi di Pestruška avrebbero visto tutto questo, e Aleksej Georgievič sentiva che al ritorno gli avrebbero trasmesso ciò che avevano visto. Leggendo quegli occhi, egli avrebbe capito il più criptico dei cardiogrammi, l’arcano cardiogramma dell’universo.

 

Pareva che la cagnetta avvertisse con l’istinto il fatto che l’uomo l’aveva iniziata alla più grande impresa della storia, le aveva offerto un magifico primato.

 

I superiori e i sottoposti di Aleksej Georgievič, così come i familiari e gli amici, avevano notato in lui strani cambiamenti – non era mai stato così conciliante, amabile, malinconico.




Il nuovo esperimento era senza precedenti. Non solo perché, a differenza di quanto era sempre accaduto, quella volta la navicella avrebbe lasciato un’orbita circolare per addentrarsi nello spazio cosmico, allontanandosi di centomila chilometri dalla Terra.

 

A contare più di tutto, nel nuovo esperimento, era il fatto che un animale, con la propria psiche, avrebbe potuto irrompere nel cosmo. No! Al contrario! Il cosmo avrebbe potuto irrompere nella psiche di un essere vivente. Ormai non era più questione di sovraccarico limite, di vibrazioni, di imponderabilità.

 

Davanti a quegli occhi la superficie piatta della Terra avrebbe cominciato a incurvarsi, gli occhi di un animale avrebbero confermato l’intuizione di Copernico. Il globo! Il geoide! E ancora avanti, ancora più lontano... Un sole ringiovanito di due miliardi di anni si sarebbe levato dalla nera vastità dello spazio di fronte agli occhi della cagnetta dalle zampe storte. Una fiamma arancio vivo, lilla, violetta avrebbe inghiottito l’orizzonte terrestre. Il meraviglioso globo, chiazzato di nevi e sabbie ardenti, colmo di una vita stupenda e irrequieta, non solo avrebbe veleggiato lontano, sfilandosi da sotto le zampe dell’animale, ma sarebbe scivolato via dalla sua percezione vitale. Allora le stelle, acquisita una concretezza corporea, sarebbero diventate carne termonucleare, materia incandescente, sfolgorante.




Nella psiche di un essere vivente sarebbe penetrato un regno non avvolto dal calore terrestre, dalle morbide nubi cumuliformi, dall’umida forza del flogisto. Per la prima volta gli occhi di un essere vivente avrebbero visto l’abisso privo d’aria, lo spazio di Kant, lo spazio di Einstein, dei filosofi, degli astronomi, dei matematici senza sintetizzarlo in un pensiero astratto o in una formula, ma così com’è, senza monti né alberi, senza grattacieli né isbe contadine.

 

Le persone che circondavano Aleksej Georgievič non capivano che cosa gli stesse succedendo.

 

Lui sentiva che avrebbe raggiunto un nuovo livello di conoscenza, superiore a quello derivante dalle equazioni differenziali e dalle indicazioni degli strumenti. Il nuovo livello di conoscenza sarebbe stato trasmesso da anima ad anima, dagli occhi di un essere vivente a quelli di un altro essere vivente. E tutto ciò che turbava e irritava Aleksej Georgievič, che suscitava in lui sospetto e risentimento, perse ogni significato.




Aleksej Georgievič aveva l’impressione che una qualità nuova si stesse apprestando a entrare nell’esistenza delle creature terrestri, ad arricchirla ed elevarla, e che quel dato nuovo gli sarebbe valso come perdono e giustificazione.

 

Il volo spaziale fu effettuato.

 

L’animale fu proiettato nelle profondità dello spazio. Oblò e schermi erano stati disposti in modo che, ovunque volgesse la testa, potesse vedere solo lo spazio cosmico, perdendo ogni usuale percezione terrestre. L’universo irruppe nella mente della cagnetta.

 

Aleksej Georgievič era convinto che il contatto con Pestruška non si fosse interrotto, lo sentiva anche quando la navicella spaziale era lontana centomila chilometri dalla Terra. Questo contatto prescindeva dalla telemetria e dai segnali radio automatici che registrarono una violenta accelerazione del battito cardiaco di Pestruška e frequenti sbalzi della sua pressione arteriosa.

 

Al mattino il tecnico di laboratorio Apres’jan riferì ad Aleksej Georgievič:

 

«Ha ululato, ha ululato a lungo». E aggiunse a bassa voce: 'È una cosa agghiacciante, il lamento di un cane solo in mezzo all’universo'.




Il funzionamento delle apparecchiature fu perfetto, di una precisione stupefacente. Il granello di sabbia lanciato nello spazio cosmico ritrovò la strada per tornare sulla Terra, per tornare sul granello di sabbia che l’aveva generato. Il sistema frenante funzionò in maniera impeccabile, la capsula atterrò nel punto prestabilito della superficie terrestre.

 

Il tecnico di laboratorio Apres’jan disse sorridendo ad Aleksej Georgievič:

 

«L’impatto delle particelle cosmiche avrà modificato i geni di Pestruška, i suoi cuccioli nasceranno straordinariamente dotati per l’algebra superiore e la musica sinfonica. I nipoti della nostra Pestruška comporranno sonate che non avranno nulla da invidiare a quelle di Beethoven, costruiranno macchine cibernetiche, i nuovi Faust».

 

Aleksej Georgievič non replicò alle parole dello spiritoso Apres’jan.

 

Aleksej Georgievič si recò personalmente sul luogo di atterraggio della capsula spaziale. Doveva essere il primo a vedere Pestruška. I suoi vice e assistenti in quel caso non potevano sostituirlo.

 

L’incontro fu così come voleva Aleksej Georgievič.

 

Pestruška gli corse incontro, muovendo timidamente la punta della coda abbassata.

 

Per parecchio tempo Aleksej Georgievič non riuscì a vedere gli occhi che avevano accolto in sé l’universo. La cagnetta gli leccava docile le mani manifestando in quel modo la sua definitiva rinuncia alla vita di viandante senza padrone, la sua riconciliazione con tutto ciò che era e sarebbe avvenuto.

 

Finalmente lui riuscì a vedere i suoi occhi: gli occhi annebbiati, impenetrabili di un povero essere dalla mente confusa e dal cuore tenero e mansueto.

 

(V. Grossman)








 

venerdì 1 dicembre 2023

DISCORSO DI APERTURA ALL’AMERICAN UNIVERSITY WASHINGTON, DC, 10 GIUGNO 1963 (15)

 










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di un non lontano 


triste Dicembre (14) 







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The Final Witness (16) 







Prosegue dall'altra parte 


del Muro (17)







Presidente Anderson, membri della facoltà, consiglio di amministrazione, illustri ospiti, il mio vecchio collega, il senatore Bob Byrd, che ha conseguito la laurea frequentando per molti anni la scuola serale di legge, mentre io mi guadagnerò la mia nei prossimi 30 minuti, illustri ospiti, Signore e signori:

 

È con grande orgoglio che partecipo a questa cerimonia dell’Università Americana, sponsorizzata dalla Chiesa Metodista, fondata dal vescovo John Fletcher Hurst e aperta per la prima volta dal presidente Woodrow Wilson nel 1914. Si tratta di un’università giovane e in crescita, ma ha aveva già soddisfatto l'illuminata speranza del vescovo Hurst per lo studio della storia e degli affari pubblici in una città dedita alla creazione della storia e alla gestione degli affari pubblici. Sponsorizzando questa istituzione di istruzione superiore per tutti coloro che desiderano imparare, qualunque sia il loro colore o il loro credo, i metodisti di quest'area e della nazione meritano i ringraziamenti della nazione e mi congratulo con tutti coloro che oggi si diplomano.

 


Il professor Woodrow Wilson una volta disse che ogni uomo mandato da un’università dovrebbe essere un uomo della sua nazione così come un uomo del suo tempo, e sono fiducioso che gli uomini e le donne che portano l’onore di laurearsi in questa istituzione continueranno a dare con la loro vita, con i loro talenti, un'elevata misura di servizio pubblico e di sostegno pubblico.

 

‘Ci sono poche cose terrene più belle di un’università’,

 

ha scritto John Masefield nel suo tributo alle università inglesi - e le sue parole sono altrettanto vere oggi. Non si riferiva a guglie e torri, ai giardini del campus e ai muri d’edera. Ammirava la splendida bellezza dell’università, disse, perché era

 

‘un luogo dove coloro che odiano l’ignoranza possono sforzarsi di conoscere, dove coloro che percepiscono la verità possono sforzarsi di far vedere agli altri’.

 

Ho quindi scelto questo momento e questo luogo per discutere un argomento sul quale troppo spesso abbonda l’ignoranza e la verità troppo raramente percepita, eppure è l’argomento più importante sulla terra:

 

la pace nel mondo.




Che tipo di pace intendo?

 

Che tipo di pace cerchiamo?

 

Non una Pax Americana imposta al mondo dalle armi da guerra americane. Non la pace della tomba o la sicurezza dello schiavo. Sto parlando di pace autentica, il tipo di pace che rende la vita sulla terra degna di essere vissuta, il tipo di pace che consente agli uomini e alle nazioni di crescere, sperare e costruire una vita migliore per i loro figli: non semplicemente la pace per gli americani, ma la pace per tutti gli uomini e le donne: non semplicemente la pace nel nostro tempo, ma la pace per tutti i tempi.

 

Parlo di pace a causa del nuovo volto della guerra. La guerra totale non ha senso in un’epoca in cui le grandi potenze possono mantenere forze nucleari grandi e relativamente invulnerabili e rifiutarsi di arrendersi senza ricorrere a quelle forze. Ciò non ha senso in un’epoca in cui una singola arma nucleare contiene quasi dieci volte la forza esplosiva sprigionata da tutte le forze aeree alleate durante la Seconda Guerra Mondiale. Ciò non ha senso in un’epoca in cui i veleni mortali prodotti da uno scambio nucleare verrebbero trasportati dal vento, dall’acqua, dal suolo e dai semi fino agli angoli più remoti del globo e alle generazioni ancora non nate.

 

Oggi la spesa di miliardi di dollari ogni anno in armi acquistate allo scopo di garantire che non avremo mai bisogno di usarle è essenziale per mantenere la pace. Ma sicuramente l’acquisizione di tali scorte inattive – che possono solo distruggere e mai creare – non è l’unico, e ancor meno il più efficiente, mezzo per assicurare la pace.




Parlo quindi della pace come del fine razionale necessario degli uomini razionali. Mi rendo conto che il perseguimento della pace non è così drammatico come il perseguimento della guerra, e spesso le parole di chi lo persegue cadono nel vuoto. Ma non abbiamo compito più urgente.

 

Alcuni sostengono che sia inutile parlare di pace mondiale, di legge mondiale o di disarmo mondiale, e che sarà inutile finché i leader dell’Unione Sovietica non adotteranno un atteggiamento più illuminato. Spero che lo facciano. Credo che possiamo aiutarli a farlo. Ma credo anche che dobbiamo riesaminare il nostro atteggiamento – come individui e come Nazione – perché il nostro atteggiamento è essenziale quanto il loro. E ogni diplomato di questa scuola, ogni cittadino riflessivo che dispera della guerra e desidera portare la pace, dovrebbe cominciare guardando dentro di sé, esaminando il proprio atteggiamento verso le possibilità di pace, verso l’Unione Sovietica, verso il corso della guerra fredda. e verso la libertà e la pace qui a casa.

 

Primo: esaminiamo il nostro atteggiamento nei confronti della pace stessa. Troppi di noi pensano che sia impossibile. Troppi pensano che sia irreale. Ma questa è una convinzione pericolosa e disfattista. Porta alla conclusione che la guerra è inevitabile, che l’umanità è condannata, che siamo in balia di forze che non possiamo controllare.




Non è necessario accettare questo punto di vista. I nostri problemi sono causati dall’uomo, quindi possono essere risolti dall’uomo. E l’uomo può essere grande quanto vuole. Nessun problema del destino umano va oltre gli esseri umani. La ragione e lo spirito dell’uomo hanno spesso risolto ciò che sembrava irrisolvibile e noi crediamo che possano farlo ancora.

 

Non mi riferisco al concetto assoluto, infinito di pace e di buona volontà che sognano alcuni fantasmi e fanatici. Non nego il valore delle speranze e dei sogni, ma invitiamo semplicemente allo scoraggiamento e all'incredulità facendo di questo il nostro unico e immediato obiettivo.

 

Concentriamoci invece su una pace più pratica e più raggiungibile, basata non su un’improvvisa rivoluzione della natura umana, ma su un’evoluzione graduale delle istituzioni umane, su una serie di azioni concrete e di accordi efficaci che siano nell’interesse di tutti gli interessati. Non esiste una chiave unica e semplice per raggiungere questa pace, nessuna formula grandiosa o magica che possa essere adottata da una o due potenze.

 

La vera pace deve essere il prodotto di molte nazioni, la somma di molti atti. Deve essere dinamico, non statico, e cambiare per rispondere alla sfida di ogni nuova generazione. Perché la pace è un processo, un modo per risolvere i problemi.




Con una tale pace, ci saranno ancora litigi e interessi contrastanti, come ce ne sono all’interno delle famiglie e delle nazioni. La pace nel mondo, come la pace comunitaria, non richiede che ogni uomo ami il suo prossimo: richiede solo che essi vivano insieme nella tolleranza reciproca, sottoponendo le loro controversie ad una soluzione giusta e pacifica. E la storia ci insegna che le inimicizie tra nazioni, come tra individui, non durano per sempre. Per quanto fisse possano sembrare le nostre simpatie e antipatie, il corso del tempo e degli eventi porterà spesso cambiamenti sorprendenti nelle relazioni tra nazioni e vicini.

 

Quindi perseveriamo.

 

La pace non deve essere impraticabile e la guerra non deve essere inevitabile. Definendo più chiaramente il nostro obiettivo, facendolo sembrare più gestibile e meno remoto, possiamo aiutare tutti i popoli a vederlo, a trarne speranza e a muoversi irresistibilmente verso di esso.




Secondo: riconsideriamo il nostro atteggiamento nei confronti dell’Unione Sovietica. È scoraggiante pensare che i loro leader possano effettivamente credere a ciò che scrivono i loro propagandisti. È scoraggiante leggere un recente e autorevole testo sovietico sulla strategia militare e trovare, pagina dopo pagina, affermazioni del tutto infondate e incredibili, come l’affermazione secondo cui ‘i circoli imperialisti americani si stanno preparando a scatenare diversi tipi di guerre... che ci sono è una minaccia molto reale di una guerra preventiva scatenata dagli imperialisti americani contro l'Unione Sovietica... [e che] gli obiettivi politici degli imperialisti americani sono di schiavizzare economicamente e politicamente i paesi europei e gli altri paesi capitalisti... [e] raggiungere il dominio del mondo... mediante guerre di aggressione’.

 

In verità, come è stato scritto molto tempo fa:

 

‘Gli empi fuggono quando nessuno li insegue’.

 

Eppure è triste leggere queste dichiarazioni sovietiche e rendersi conto della portata del divario che ci separa. Ma è anche un avvertimento: un avvertimento al popolo americano di non cadere nella stessa trappola dei sovietici, di non vedere solo una visione distorta e disperata dell’altra parte, di non vedere il conflitto come inevitabile, l’accordo come impossibile, e la comunicazione come niente più che uno scambio di minacce.




Nessun governo o sistema sociale è così malvagio da dover considerare i suoi cittadini come privi di virtù. Come americani, troviamo il comunismo profondamente ripugnante in quanto negazione della libertà e della dignità personale. Ma possiamo ancora lodare il popolo russo per i suoi numerosi successi: nella scienza e nello spazio, nella crescita economica e industriale, nella cultura e negli atti di coraggio.

 

Tra i molti tratti che i popoli dei nostri due paesi hanno in comune, nessuno è più forte della nostra reciproca avversione per la guerra. Caso quasi unico tra le maggiori potenze mondiali, non siamo mai stati in guerra tra loro. E nessuna nazione nella storia delle battaglie ha mai sofferto più di quanto ha sofferto l’Unione Sovietica durante la Seconda Guerra Mondiale. Almeno 20 milioni hanno perso la vita. Innumerevoli milioni di case e fattorie furono bruciate o saccheggiate. Un terzo del territorio nazionale, compresi quasi due terzi della sua base industriale, fu trasformato in una terra desolata: una perdita equivalente alla devastazione di questo paese a est di Chicago.




Oggi, se mai scoppiasse di nuovo una guerra totale, non importa come, i nostri due paesi diventerebbero gli obiettivi primari. È un fatto ironico ma accurato che le due potenze più forti siano quelle più a rischio di devastazione. Tutto ciò che abbiamo costruito, tutto ciò per cui abbiamo lavorato, verrebbe distrutto nelle prime 24 ore. E anche nella guerra fredda, che porta oneri e pericoli a così tante nazioni, compresi i più stretti alleati di questa nazione, i nostri due paesi sopportano i fardelli più pesanti. Entrambi stiamo infatti destinando ingenti somme di denaro ad armi che potrebbero essere meglio impiegate per combattere l’ignoranza, la povertà e le malattie. Siamo entrambi coinvolti in un circolo vizioso e pericoloso in cui il sospetto da un lato genera sospetto dall’altro, e nuove armi generano contro armi.

 

In breve, sia gli Stati Uniti e i suoi alleati, sia l’Unione Sovietica e i suoi alleati, hanno un profondo interesse reciproco ad una pace giusta e genuina e a fermare la corsa agli armamenti. Gli accordi a questo fine sono nell’interesse dell’Unione Sovietica così come del nostro – e si può fare affidamento anche sulle nazioni più ostili per accettare e mantenere gli obblighi del trattato, e solo quegli obblighi del trattato, che sono nel loro stesso interesse.




 Quindi, non siamo ciechi di fronte alle nostre differenze, ma rivolgiamo anche l’attenzione ai nostri interessi comuni e ai mezzi con cui tali differenze possono essere risolte. E se non possiamo porre fine adesso alle nostre differenze, almeno possiamo contribuire a rendere il mondo sicuro per la diversità. Perché, in ultima analisi, il nostro legame più basilare è che abitiamo tutti su questo piccolo pianeta. Respiriamo tutti la stessa aria. Tutti noi abbiamo a cuore il futuro dei nostri figli. E siamo tutti mortali.

 

Terzo: riesaminiamo il nostro atteggiamento nei confronti della guerra fredda, ricordando che non siamo impegnati in un dibattito, cercando di accumulare punti di discussione. Non stiamo qui distribuendo colpe o puntando il dito per giudicare. Dobbiamo affrontare il mondo così com’è e non come sarebbe stato se la storia degli ultimi 18 anni fosse stata diversa.

 

Dobbiamo quindi perseverare nella ricerca della pace nella speranza che cambiamenti costruttivi all’interno del blocco comunista possano portare a soluzioni che ora sembrano al di là delle nostre possibilità. Dobbiamo condurre i nostri affari in modo tale che sia nell’interesse dei comunisti raggiungere una pace autentica. Soprattutto, mentre difendono i nostri interessi vitali, le potenze nucleari devono evitare quegli scontri che portano un avversario a scegliere tra un’umiliante ritirata o una guerra nucleare. Adottare questo tipo di approccio nell’era nucleare sarebbe solo la prova del fallimento della nostra politica – o di un desiderio di morte collettivo per il mondo.




Per garantire questi fini, le armi americane sono non provocatorie, attentamente controllate, progettate per scoraggiare e capaci di un uso selettivo. Le nostre forze militari sono impegnate a favore della pace e disciplinate nell’autocontrollo. Ai nostri diplomatici viene chiesto di evitare inutili irritazioni e ostilità puramente retorica.

 

Perché possiamo cercare un allentamento della tensione senza abbassare la guardia. E, da parte nostra, non abbiamo bisogno di usare le minacce per dimostrare che siamo risoluti. Non abbiamo bisogno di disturbare le trasmissioni straniere per paura che la nostra fede venga erosa. Non siamo disposti a imporre il nostro sistema a nessun popolo riluttante, ma siamo disposti e in grado di impegnarci in una competizione pacifica con qualsiasi popolo sulla terra.

 

Nel frattempo, cerchiamo di rafforzare le Nazioni Unite, di contribuire a risolvere i suoi problemi finanziari, di renderle uno strumento più efficace per la pace, di trasformarle in un vero sistema di sicurezza mondiale – un sistema capace di risolvere le controversie sulla base della legge, di garantire la sicurezza dei grandi e dei piccoli e di creare le condizioni affinché le armi possano finalmente essere abolite.

 

Allo stesso tempo cerchiamo di mantenere la pace nel mondo non comunista, dove molte nazioni, tutte nostre amiche, sono divise su questioni che indeboliscono l’unità occidentale, che invitano all’intervento comunista o che minacciano di scoppiare in guerra. I nostri sforzi nella Nuova Guinea occidentale, nel Congo, nel Medio Oriente e nel subcontinente indiano sono stati persistenti e pazienti nonostante le critiche provenienti da entrambe le parti. Abbiamo anche cercato di dare l’esempio agli altri, cercando di correggere le piccole ma significative differenze con i nostri vicini più prossimi in Messico e Canada.




Parlando di altre nazioni, desidero chiarire un punto. Siamo legati a molte nazioni da alleanze. Queste alleanze esistono perché le nostre preoccupazioni e le loro si sovrappongono sostanzialmente. Il nostro impegno a difendere l’Europa occidentale e Berlino Ovest, ad esempio, resta immutato a causa dell’identità dei nostri interessi vitali. Gli Stati Uniti non concluderanno alcun accordo con l’Unione Sovietica a scapito di altre nazioni e altri popoli, non solo perché sono nostri partner, ma anche perché i loro interessi e i nostri convergono.

 

I nostri interessi convergono, però, non solo nel difendere le frontiere della libertà, ma nel perseguire le vie della pace. La nostra speranza – e lo scopo delle politiche alleate – è convincere l’Unione Sovietica che anche lei dovrebbe lasciare che ogni nazione scelga il proprio futuro, purché tale scelta non interferisca con le scelte degli altri. La spinta comunista a imporre il proprio sistema politico ed economico agli altri è oggi la causa principale della tensione mondiale. Infatti non vi è dubbio che, se tutte le nazioni potessero astenersi dall’interferire nell’autodeterminazione degli altri, la pace sarebbe molto più assicurata.




Ciò richiederà un nuovo sforzo per raggiungere una legge mondiale, un nuovo contesto per le discussioni mondiali. Ciò richiederà una maggiore comprensione tra noi e i sovietici. E una maggiore comprensione richiederà maggiori contatti e comunicazioni. Un passo in questa direzione è la proposta di un accordo per una linea diretta tra Mosca e Washington, per evitare da entrambe le parti pericolosi ritardi, incomprensioni e interpretazioni errate delle azioni dell'altro che potrebbero verificarsi in un momento di crisi.

 

A Ginevra abbiamo parlato anche delle altre prime misure di controllo degli armamenti destinate a limitare l’intensità della corsa agli armamenti e a ridurre i rischi di guerre accidentali. Il nostro principale interesse a lungo termine a Ginevra, tuttavia, è il disarmo generale e completo, progettato per avvenire per fasi, consentendo sviluppi politici paralleli per costruire nuove istituzioni di pace che prenderebbero il posto delle armi.

 

Il perseguimento del disarmo è stato uno sforzo di questo governo fin dagli anni  ’20. È stato richiesto con urgenza dalle ultime tre amministrazioni. E per quanto deboli possano essere le prospettive oggi, intendiamo portare avanti questo sforzo, affinché tutti i paesi, compreso il nostro, possano comprendere meglio quali sono i problemi e le possibilità del disarmo.




L’area principale di questi negoziati in cui la fine è in vista, ma in cui è assolutamente necessario un nuovo inizio, è un trattato che mette al bando i test nucleari. La conclusione di un simile trattato, così vicina eppure così lontana, porrebbe un freno alla spirale della corsa agli armamenti in uno dei suoi settori più pericolosi. Ciò metterebbe le potenze nucleari nella posizione di affrontare in modo più efficace uno dei maggiori rischi che l’umanità si trova ad affrontare nel 1963, l’ulteriore diffusione delle armi nucleari. Aumenterebbe la nostra sicurezza e diminuirebbe le prospettive di guerra. Sicuramente questo obiettivo è sufficientemente importante da richiedere il nostro costante perseguimento, senza cedere né alla tentazione di rinunciare a tutto lo sforzo né alla tentazione di rinunciare alla nostra insistenza su salvaguardie vitali e responsabili.

 

Colgo quindi l’occasione per annunciare due importanti decisioni al riguardo.

 

Primo: il presidente Krusciov, il primo ministro Macmillan e io abbiamo concordato che a breve inizieranno discussioni ad alto livello a Mosca per raggiungere un accordo tempestivo su un trattato globale sul divieto dei test. Le nostre speranze devono essere temperate dalla cautela della storia, ma con le nostre speranze vanno via le speranze di tutta l’umanità.

 

Secondo: per dimostrare la nostra buona fede e le nostre solenni convinzioni in materia, dichiaro ora che gli Stati Uniti non si propongono di effettuare test nucleari nell’atmosfera finché non lo faranno altri Stati. Non saremo i primi a riprendere. Tale dichiarazione non sostituisce un trattato formale vincolante, ma spero che ci aiuterà a realizzarlo. Né un simile trattato sostituirebbe il disarmo, ma spero che ci aiuterà a realizzarlo.




Infine, miei concittadini americani, esaminiamo il nostro atteggiamento nei confronti della pace e della libertà qui in patria. La qualità e lo spirito della nostra società devono giustificare e sostenere i nostri sforzi all’estero. Dobbiamo dimostrarlo con la dedizione della nostra vita, come molti di voi che si diplomano oggi avranno un’opportunità unica di fare, prestando servizio gratuitamente nei Corpi di Pace all’estero o nel proposto Corpo di Servizio Nazionale qui in patria.

 

Ma ovunque siamo, dobbiamo tutti, nella nostra vita quotidiana, essere all’altezza della fede secolare che la pace e la libertà camminano insieme. In troppe delle nostre città oggi la pace non è sicura perché la libertà è incompleta.

 

È responsabilità del ramo esecutivo a tutti i livelli di governo – locale, statale e nazionale – garantire e proteggere tale libertà per tutti i nostri cittadini con tutti i mezzi nell’ambito della loro autorità. È responsabilità del potere legislativo a tutti i livelli, laddove tale autorità non sia ora adeguata, renderla adeguata. Ed è responsabilità di tutti i cittadini in tutte le parti di questo paese rispettare i diritti di tutti gli altri e rispettare la legge del paese.

 

Tutto ciò non è estraneo alla pace nel mondo.

 

‘Quando le vie di un uomo piacciono al Signore’,

 

ci dicono le Scritture,




‘egli fa sì che anche i suoi nemici siano in pace con lui’.

 

E la pace non è, in ultima analisi, fondamentalmente una questione di diritti umani – il diritto di vivere la nostra vita senza paura della devastazione – il diritto di respirare l’aria così come la natura ce l’ha fornita – il diritto delle generazioni future a un ambiente sano e ad una sana esistenza.

 

Mentre procediamo a salvaguardare i nostri interessi nazionali, salvaguardiamo anche gli interessi umani. E l’eliminazione della guerra e delle armi è chiaramente nell’interesse di entrambi. Nessun trattato, per quanto vantaggioso per tutti, per quanto rigido possa essere formulato, può fornire una sicurezza assoluta contro i rischi di inganno e di evasione. Ma può – se è sufficientemente efficace nella sua applicazione e se è sufficientemente nell’interesse dei suoi firmatari – offrire molta più sicurezza e molti meno rischi di una corsa agli armamenti senza sosta, incontrollata e imprevedibile.

 

Gli Stati Uniti, come il mondo sa, non inizieranno mai una guerra. Non vogliamo una guerra. Ora non ci aspettiamo una guerra. Questa generazione di americani ne ha già avuto abbastanza – più che abbastanza – di guerra, odio e oppressione. Saremo preparati se gli altri lo vorranno. Dovremo essere vigili per cercare di fermarlo. Ma faremo anche la nostra parte per costruire un mondo di pace in cui i deboli siano al sicuro e i forti siano giusti. Non siamo impotenti di fronte a questo compito né disperati nel suo successo. Fiduciosi e senza paura, lavoriamo non verso una strategia di annientamento ma verso una strategia di pace. 

(J.F.K.)