CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

sabato 1 giugno 2024

IL CANE DI DIOGENE

 










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con i... cani...











IL MATTO


 

 

In quel bizzarro romanzo picaresco, uno degli esempi più curiosi di prosa barocca, a metà strada tra satira e trattato enciclopedico-morale, che è Il Tribunal della Critica, scritto con gusto rabelaisiano dal genovese Francesco Fulvio Frugoni (1620-1684), il protagonista, il cane Saetta, prende parte alla sessione annuale del Tribunale presieduto dalla Critica, nel quale (non diversamente dalla periodica valutazione dei prodotti oggi conferiti all’attenzione dell’ANVUR) si giudicano tutti i libri pubblicati nell’orbe letterario.

 

Prima di arrivare sul monte Parnaso, dove ha sede il Tribunale, Saetta compie un viaggio insieme a Mercurio, nel corso del quale visita le isole di Anticira e di Gastrimargi. Nella prima risiedono i poeti pazzi curati con l’ellèboro; nella seconda degli ingordi crapuloni, cittadini di un mondo alla rovescia il cui ordine di valori è fondato sulle esigenze del ventre.

 

Si tratta, a ben vedere, di una metafora di due modi diametralmente opposti di pensare il genere umano: da un lato chi si abbrutisce nella materialità dell’esistenza, soddisfacendo bisogni primari legati esclusivamente alle esigenze della corporeità; dall’altro chi si inebria nelle atmosfere eteree e spirituali dell’arte e della poesia, esaltandosi in un processo immaginifico e creativo talmente elevato da rasentare la pazzia. Questa seconda categoria di uomini popola – nell’immaginario di Frugoni – l’isola di Anticira.




Fin dalla più remota antichità, rimedio sovrano contro le malattie mentali era considerato l’ellèboro nero (una pianta della famiglia delle ranuncolacee) e la città (non si trattava di un’isola) di Antíkyra, nel golfo di Corinto, a pochi chilometri da Delfi, ebbe straordinaria fama e ricchezza proprio perché nei suoi dintorni se ne trovava in abbondanza, sì da indurre molti malati a soggiornarvi per curarsi.

 

Ma il principio attivo dell’helleborus (nelle due varianti, niger e album) doveva essere maneggiato con estrema cautela, pena la morte. Dotato, insieme, di proprietà venefiche e curative, per la sua natura enantiodromica trovava impiego, oltre che nella farmaceutica, anche nella pratica degli esorcismi e nella preparazione di fatture e sortilegi.

 

Fu grazie all’ellèboro che Ercole riuscì a guarire dalla follia. E così pure il pastore Melampo, conoscendo le virtù curative della pianta, fece rinsavire le tre figlie di Preto, re di Argo, che, insuperbite dalla loro bellezza, avevano offeso gli Dei al punto da essere punite con la pazzia.




La pianta di ellèboro era considerata ‘dispensatrice di libertà’ e, per le sue proprietà inibitorie, era ritenuta capace di dare alla mente più vigoria, acume ed elasticità: una sorta di incantamento. Ce lo testimonia Gellio, che racconta di Carneade, il filosofo accademico, il quale bevve un infuso di ellèboro prima di accingersi a confutare i famosi paradossi di Zenone di Elea.

 

L’invito, in limine, rivolto al lettore è, dunque, quello di dispiegare le vele verso Anticira, assumendo, nel contempo, la postura (mentale e, se si vuole, anche fisica) del Matto – le Fou, the Fool – dei Tarocchi, che, nell’ambito dei ventidue Arcani Maggiori si pone come l’ultima realtà, dopo il numero 21 (Il Mondo), simbolo del compimento di tutte le cose, e prima dell’Arcano Maggiore numero 1 (Il Bagatto), che invece ne rappresenta il principio.

 

Appare chiaro che, disponendo i Tarocchi in cerchio, vengono a contatto le lame del Mondo, del Matto e del Bagatto: in questa prospettiva il Matto – carta non numerata – può indicare sia il numero 22, la carta che vien dopo il Mondo, che il numero 0, la carta precedente il Bagatto, il grande illusionista il cui gioco attraversa tutto il ciclo degli Arcani. Un ciclo che non ha mai fine: l’armonia del Mondo, infatti, viene continuamente sconvolta dal Matto che, dando le spalle al Mondo, ha il coraggio di rinunciare a ciò che è precostituito, lanciandosi verso nuove e sconosciute mete.

 

È evidente che il Matto è la figura centrale di questo “processo”: dalla sua straordinaria posizione è in grado di osservare e farsi interprete di ciò che è prima della formazione e di ciò che è dopo la dissoluzione di ogni realtà materiale e di ogni orizzonte di senso.




In questa prospettiva, il Matto può essere considerato l’Arcano numero “0”, in quanto non può essere identificato numericamente: tutti i numeri scaturiscono da lui e tutti a lui tendono.

 

Le Fou è solitamente raffigurato come un buffone senza età. La sua veste è coloratissima e lacera, spesso di colore giallo (una tinta che fa riferimento alla luce dell’intelligenza, ma che è anche portatrice di influenze malefiche). Indossa uno strano copricapo, dal quale pendono, talvolta, dei corni che terminano con una piccola sfera, talaltra, delle orecchie d’asino.

 

‘L’accessorio principale è, però, l’inseparabile bastone, la marotte: uno scettro derisorio, parodia dello scettro reale’; il matto lo stringe nella mano destra, portandone, con la sinistra, un secondo, da cui pende un piccolo sacchetto che rappresenta il bagaglio delle sue esperienze depurate di tutto ciò che è superfluo (ed è interessante notare che questo bastone si slarga in una sorta di cucchiaio, simbolo dell’utile assimilato dall’esperienza, forma recettiva che rimanda alla luce della coscienza).

 

Il Matto dei Tarocchi appare del tutto indifferente alla derisione altrui derivante dalla sua diversità. Estraneo alle leggi umane che governano il mondo, nella sua assoluta povertà, privo di casa e di famiglia, il Matto (artista? filosofo? poeta?) avanza sorridente e senza alcuna preoccupazione, voltando le spalle al passato, spedito verso il futuro, solo con il suo spirito. Con lo sguardo fieramente diretto verso l’alto, come Talete, egli è consapevole, da un lato, del rischio di cadere in un pozzo suscitando il riso di una donna di Tracia, dall’altro, di essere l’unico a poter dire le verità più sgradevoli al potente, protetto – come il giullare – dalla propria certificata pazzia.




Al Matto – così come al Filosofo – non si può certo chiedere di occuparsi di questioni meschine, di ‘mettere insieme una sacca da viaggio, né condire una vivanda, o fare discorsi adulatori’; egli, tutt’al più, sa ‘gettarsi indietro il mantello sulla destra da uomo libero’, o ‘cogliere l’armonia delle parole’. Non gl’importa affatto essere considerato idiota, ingenuo, stupido, sciocco, ridicolo o, addirittura, una nullità da chi gli è totalmente estraneo (i piccoli di animo, gli esperti di tribunali, i lacchè). Assorto com’è nei suoi pensieri, gli occhi puntati al cielo (nel suo poetico e sognante tentativo di assimilazione alla divinità), il Matto-Filosofo può persino rischiare di cadere in un pozzo suscitando superficiali ilarità, come – sulla scia di Platone – ci racconteranno Esopo e Jean de La Fontaine (L’Astrologue qui se laisse tomber dans un puits).

 

E il riso della servetta di Tracia (la terra ‘di dèi estranei, femminili, notturni, ctoni’ per un Greco) – allora – può essere assimilato al ghigno della bestiola aggressiva e selvaggia (un gatto, talvolta una lince o un cane) che, inseguendo le Fou dell’Arcano Maggiore, sembra spingerlo in avanti a furia di morsi.

 

Sotto questo aspetto, l’approdo del cammino del Matto potrebbe essere il transito nella carta successiva, quella del Bagatto: il giocoliere, il mago, il gestore del gioco, il genius ludi: sintesi di intuizione, abilità e intelligenza. Si potrebbe anche dire che l’energia primordiale e indefinita del Matto, si manifesta, ri-componendosi, nell’Arcano successivo, il Bagatto, che, nella sua forza creativa, dà forma a questa energia.




Il Matto, allora, ibrido tra genio e sregolatezza, a metà strada tra conscio e inconscio, razionale e istintuale, l’immaginario e il reale, la logica e l’assurdo, conferma, anche sotto questa prospettiva, la sua natura intermedia e liminare. Posto com’è sulla soglia dell’abisso, solo il Folle può contemplare il vuoto ‘assolutamente oscuro e nel contempo assolutamente luminoso infra- o iper-percettivo’.

 

Infine, non risulti azzardato associare la malinconica immagine de le Fou dei Tarocchi alla triste figura del Cavaliere don Chisciotte della Mancia, alla cui follia ‘si devono le straordinarie avventure di uno dei personaggi che ha segnato la storia della letteratura mondiale. Il mistico don Chisciotte: l’eroe per eccellenza – come l’ha argutamente definito Nuccio Ordine – dell’inutilità’. 

 

                   

IL CANE…  

             

 

... Non è sdicevol già la coltura dei fiori a chi s’accinge a ghirlandar la virtù fioreggiante, ancorché sia tra le spine, ond’ha l’allegorico pregio di rosa che tra le spine germoglia; ma non dee frascheggiar la dicitura vaneggiatrice, la quale non sarà mai vergine senza il fiore illibato, con cui faccia pompa d’una primavera pudica; sì come non mai potrà dirsi casta, se non verrà castigata da un’arte severa che l’erudisca a professar una vera invettiva contra la disonestà del peccato.

 

È pregio singulare dell’umano ingegno il saper dar sapore al discorso per farlo gustare alla svogliatezza del palato intellettuale, insoavire l’acrimonia del rimprovero con la dolcezza della facondia ed infiorar con molli nembi di rose fragranti quelle sferze spinose con le quali costuma la Venere dell’eloquenza flagellar il profano amore.




Già sai, se sai, che la satira ha il diritto d’andar vagando con mobilità dotta e di raccorre con trascelta scaltra nel campo vasto dell’umanità verdeggiante, ove nell’erba s’appiattan le serpi, ogni sorte di fiori che rispuntan avvenenti ma avvelenati. Ella è una Parca, ma occhiuta, che col ritondo giro della sua falce adunca non perdona agli alti papaveri qualor miete le basse ginestre.

 

Affascia tutto ciò che le vien a taglio, ammassando l’erbe insalubri per caricarne quelle anime curve che fanno d’ogni erba fascio. Banchettando i suoi amorevoli, lor imbandisce a tavola bandita, tra gli altri piatti reali, un’insalata, la cui conditura consiste nell’olio della verità, nell’aceto dell’acrimonia e nel sale dello scherzo, e v’intramischia una quantità d’erbaggi diversi, che stuzzican l’appetito svogliato e tengono svegliato il gusto degli assisi alla critica mensa.

 

Chiunque si mette a scrivere in qualsivoglia assunto, ma (più che in ogni altro) nel critico, ha da imitar il pescatore che (se dell’inescamento non si prevale) non piglia il pesce che fugge dall’amo nudo ed abbocca l’investito di congruente appetibil sostanza.

 

‘Così il maestro d’eloquenza, se non attacca all’amo, come il pescatore, quell’esca di cui sa ghiotti i pesciolini, resterà sullo scoglio senza speranza di preda’. [Petronio]




Tanto ho preteso di far io, pescator di penna, col filo del discorso, con l’amo dell’arguzia e con l’esca della dottrina, per non incorrer nella censura del Comico:

 

‘Va; non farai mai fortuna; non sai adescare gli uomini, o Sannione’. [Terenzio]

 

Ho anche procurato d’assomigliarmi al pescator sollecito ed indefesso, che consuma le intere notti scoglio su scoglio, sordo al fiotto dell’onde, sofferente al gel della brina, ma non poi così fitto in un posto, che non passi da uno scoglio all’altro per far più varia e più numerosa pesca; quindi son andato d’assunto in assunto per cangiar col passaggio la congiuntura ed accrescer la preda…   

 

‘per non trovarmi sempre sugli stessi scogli’ [Ovidio]

 

…E ne rimetto all’esperienza la prova. Posso accertarti, amico, (se amico sei, e se non amico, poco mi preme, perché sarai un furbo) che in questa mia fatica fatidica ho spremuto quasi che tutto il midollo del mio ingegno attento, per comportene un vital elisire nel mio inchiostro epitomico, lambiccato al fervore d’un intelletto acceso, chiarificandolo in feltrirlo più volte con una riflessiva rivisione ed assottigliandolo in alcalizzarlo sovente con uno scintillante riflesso.

 

A ciò m’astrinse l’aforismo di Plinio Secondo, riverito da me come un di que’ maestroni che insegnano più coll’esempio che col precetto. Egli m’insussurrò sempre all’orecchio, a sembianza d’ape, questo principio speciosamente specifico:

 

‘Poco favore arride al discorso e alla poesia, se l’eloquenza non è somma’.




 

LE MODE

 

 

Ecco: contemplare il vuoto; ascoltare il silenzio; avvalersi dell’inutile.

 

A fronte del pervasivo horror pleni, tratto distintivo della post-modernità in cui ci troviamo – nostro malgrado – precipitati, appare chiaro che solo affidandoci alla capacità di immaginare più di quanto abbiamo visto o udito consegua l’opportunità di emanciparsi, come il Matto dei Tarocchi o il Filosofo descritto nel Teeteto, dai sempre più dilaganti processi di omologazione di cui siamo (più o meno consapevolmente) succubi nel mondo globalizzato.

 

Siamo vittime e correi di una sollecitazione mediatica costante e autoalimentantesi. Essa, avvalendosi strumentalmente di un’effimera e sovrabbondante sinestesia, produce una sempre maggiore massificazione dell’individuo. Quest’ultimo, privato dei suoi valori originari, costretto ad omogeneizzarsi agli stili di vita correnti, è indotto a vivere in una dimensione di allegoria sociale (sopravvivenza di significanti senza significato).

 

Circondato da segni e simboli estrapolati dal loro contesto originario, tende ad adottare stili di vita orientati ad una costante svalutazione del senso sacrale dell’esistenza e alla cancellazione di ogni riflesso soprannaturale (o, semplicemente, problematico) del pensiero.

 

La multimedialità dilagante, che unifica suoni e immagini, confondendo così gli orizzonti di realtà e virtualità, sta producendo una metamorfosi che investe la natura stessa dell’homo sapiens. Si pensi alle modalità di comunicazione e alle nuove forme di paideia che incidono sulla formazione dell’intelligenza e della personalità dei bambini, che si relazionano con computer, iPhone, tablet (e, in modo residuale, col televisore) ancor prima, molto prima, di imparare a leggere e scrivere.




Fluttuante nel liquido amniotico della globalizzazione e della multimedialità, l’uomo postmoderno, assunta la possibilità di sovrapporre parole, suoni e immagini (reali, virtuali e simulate) in un approccio sinestetico che pare in grado di saturare e soddisfare tutte le sue capacità sensoriali e cognitive, sarà indotto a ritenere di avere ‘compreso’ – all’istante – quanto immediatamente e simultaneamente ‘percepito’.

 

In più, queste nuove forme di comunicazione (linguaggio) e apprendimento (paideia) appaiono in grado di porsi come un vero e proprio strumento ‘antropogenetico’: capace, cioè, di generare un nuovo tipo di umanità, immediatamente eccitabile in forza di una sollecitazione audio-visiva e – nel contempo – pressoché insensibile agli stimoli di un sapere trasmessi da una cultura scritta e vissuta, così come ancora oggi siamo abituati a pensarla.

 

Quest’homo postmoderno, dunque, non più habilis, sapiens et faber, quanto piuttosto sentiens, videns, ludens, ridens, vorans et voratus, si accontenta, sul piano intellettuale, della supina adesione a un sincretismo culturale planetario che, amplificato dalle potenzialità del web, nell’incapacità di analisi profonde e personali, si esprime, in una sorta di zapping culturale, attraverso la citazione rapsodica di luoghi comuni e cliché ideologici.

 

Il campione di questa nuova tipologia umana è sempre inserito in una community, incapace com’è di riflettere in solitudine. Egli volentieri sacrifica l’esperienza diretta a tutto vantaggio di un vissuto mediato o di ‘seconda mano’, amando e preferendo tutto quanto è preconfezionato e artificiale.




Baratta, inconsapevolmente, il vincolo logico e la deduzione razionale con gli esiti dell’impulso immediato ed emotivamente coinvolgente. Si compiace di soddisfare la propria fame di mercanzia e di possesso del superfluo esaltandosi nello spreco, vittima di una sorta di nevrosi da consumo (anche estetico e culturale). Orientando la sua vita alla soddisfazione parossistica dei bisogni primari e alla continua ricerca della prestazione ottimale, assume i comportamenti propri del living on self-demand. Così, atteggiandosi a mo’ di poppante,

 

‘mangia quando gli va, piange se avverte sconforto, dorme, si sveglia, soddisfa i suoi bisogni a caso’.




[A così cortese rimprovero, sedutosi lo Spartano sull’orlo del giacitoio e stringendo nella sua man cordiale all’Atico il cuore, poiché ’l portava nella destra, di questa guisa, in competenza con l’alba, cominciò a versare le sue rugiade: Ho per costume, non che salutare, instruttivo, di non istringermi troppo, o mio ingegnoso, col sonno, per esser questo fratell’uterino dell’ignoranza. E ben si chiama imagine della morte, poiché non solo ci rappresenta la naturale, ma ancor la civile. Morte civile mi par che sia l’ignoranza, stante che, se un che dorma non serve a nulla, un ignorante, che non è mai desto, a nulla non serve; anzi, con analogia più giurata, più morto è l’ignorante non sol d’un che dorma per risorgere dal suo letargo, ma anche d’un che sia morto nella tomba, poiché così l’uno come l’altro risveglieransi: l’ignorante no, che non ha udito per sentire del giudicio la tromba. Se chi dorme non differisce nell’apparenza dal morto, e l’uomo, a restar erudito, che quanto più vive tanto più muore, non è dissimile per la metà della sua vita da un morto: più morto che ’l dormente sarà l’ignorante, che in tutta la vita sua è più ottuso che se dormisse. Quindi la sveglia non è per me tormento, ma esalo; e quando vien ch’io dorma, non amo il sonno se non sognante, perché in ciò non è affatto l’immagine della morte. Reputo perciò i popoli atlantici meno degli altri viventi, non solo perché degli altri più dormono all’ombra di quel monte che lor toglie più che agli altri di sole, ma perché non mai sognano; sì che nella scena della lor mente sopita non entrano i fantasm’istrioni a rappresentar la commedia intrigata della nostra vita mortale. 




Vissero dunque più volentieri que’ grandi coi morti che avvivano, che coi vivi che muoiono sepolti nel sonno. Così, riconcentrato in me stesso, più che nel mio gabinetto, non so meglio vivere, quando gli altri dormono, che sepolto. Impallidito al riverberare delle squallide pergamene, per rassomigliarmi ai morti immortali, co’ quai converso, distillo a goccia a goccia l’elisire dell’anima e le quintessenze della saggezza. Corseggio di libro in libro come di prato in prato, e dove trovo più fiori, ma di sostanza e non di apparenza, ne attingo il succhio per fabbricarne dentro l’alveario del capo il mele delle scienze morali, da me stimato più molto delle sofistiche. Che se la notte è favorevole ai ladri, per conseguenza a Mercurio, che si dice ‘latronum princeps’, io prendo al balzo la congiuntura ed assaltando gli antichi autori, gli spoglio, ma con cortesia destra, per rivestirmi dei loro abbigli: però così migliorati col lavorio ingegnoso d’una severa imitazione, che non si può appena il fondo del ricamo ed il fondaco del panno conoscere]



In questa infantiloide prospettiva esistenziale, successo e denaro – intesi come due facce della stessa medaglia – finiscono per assumere un valore assoluto. Il denaro, in particolare, seppur privo del suo (relativo) valore di scambio e svincolato – conseguentemente – da ogni valore d’uso e simbolico, è, tuttavia, ‘oggetto di una passione universale’, feticcio di desideri affrancati da ogni esigenza naturale e fonte inesauribile di seduzione.

 

Questo perché i simboli stessi si riducono a merce; e, a sua volta, la merce, privata di senso, si sublima nel rifiuto, nella spazzatura, nel pattume, vera teleologia del ‘prodotto’ che, nel suo uso cadùco e transitorio, pone le premesse per una palingenesi dei bisogni indotti, ad un tempo preludio e alibi per nuovi consumi.

 

Intesi come manifestazione di bios e thanatos, immondizia ed escremento possono addirittura assurgere a nuova forma di produzione artistica trasfigurandosi in opera, installazione, happening. 




 

IL CANE


 

Or questo non così giocoso che non sia molto più sensato divertimento, come figurativo dell’impressione che fa nell’universo in ogni cosa l’esempio, calza tagliato a punto al mio intento di spiegar la forza con cui progressivamente si avanza la detestevole moda.

 

Come l’onda del mare sospinge l’onda a frangersi nella sabbia, così un mortale promuove l’altro agli eccessi. Il vizio ad un batter d’occhio s’apprende. S’urtano gli uomini e, cascando l’uno, l’altro gli cade addosso come l’ebbro che dall’ebbro è guidato. Così le gru si sostentano l’una l’altra per non istancarsi alla lunghezza del volo, come i viziosi l’uno all’altro si appoggia per intraprender la gran peregrinazione nel male.

 

Serpono i misfatti e col contatto nocivo s’attaccano al prossimo incauto. Non è così la scimia imitatrice dell’uomo, che l’uomo non sia molto più imitator della scimia. Il nostro Demostene chiamò Eschine, pessimo cittadino, ‘tragicam simiam’. Fu scimia Eschine per l’imitazione delle fogge foresi e dei costumi stranieri; perciò fu scimia tragica, stante che non può sovragiungere ad una città libera come la nostra (ma che va perdendo insensibilmente la libertà degli affetti nativi con l’introdurre la libertà dei costumi stranieri) più deplorabil tragedia che coll’inveschiarsi tanto delle mode che qui si chiamano.




Io non potrei dunque non far invettive contro alla moda. S’aggraticchia questa come l’edra tenace, né più presto fa seccar le piante che quando più folta le veste; né più infallibilmente fa rovinar le case che quando frondosa le innombra, serpendo con gl’infruttiferi suoi viticci ad opprimere i tetti sublimi. Che dissi tetti sublimi? Anche i più bassi ed i più poveri lari offusca di tal modo, che non può illustrargli un raggio celeste per istraforo introdotto.

 

Si vede la gerarchia civile così sconvolta che non si rintraccia il divario delle condizioni, perché si traccia l’egualità nell’apparenza. Non si discerne più il lione dall’asino, perché l’asino anch’egli porta del lione lo spoglio; e per occultare le sue orecchie profuse, che ’l dichiaran giumento, si adorna il capo della giuba lionina.

 

Il dozzinale fa da quaranta, il paltoniere divien signore, il barone si spaccia conte, il conte principeggia. Ciascuno (quando non abbia la moderazione per argine) vuol uscir del suo letto a guisa di que’ torrenti rapinosi che, per l’innondazione delle piogge gorgogliosamente orgogliosi, per la ridondanza delle acque spiegano manto d’argento, ed obliata la scaturigine limacciosa di ruscelletti mendichi, cozzano col corno spumoso anche coi fiumi reali.




È l’allegoria così chiara, che ne sarebbe il rapporto superfluo. Proseguisco ad altra. In questo gran tavolier del mondo, in cui tanti scaccomatti si danno, il pedone tien fronte al cavallo, al re il rocco, la pedina alla dama. Tutti entrano a danzar questa musica; e sovente coloro che han meno di forze, spiccan più all’aria, per farsi più scorgere, alti gli salti. Chi non ne ha, vuol averne: perciò va a ruba per comparir a far del compare con abbigliarsi all’uso.

 

Il vitupero è un fondaco che tutto fornisce a quelli che non han credito in quel dell’onore. Il guadagno sordido è un sarto che tien sempre alla mano la forbice per tagliar le vesti affin di farle cucir dall’impudicizia, foderate d’imprudenza. Mentre si filano le assirie e le arabiche trasparenze, lavorio sottilissimo dei ragni bombici; mentre si ordiscono le frigie, le persiche, le insubre tele; mentre si tessono i sicani, gli eneti, gli sidoni drappi, altrove si disegnan concerti, si filan trappole, s’ordiscon lacci, si tesson corrispondenze profane.

 

Il sensale di queste pratiche non è altri che ’l senso; ma di quai mezzi si serve nell’artificio?




Di quelle arti sovraccennate, di quelle forniture sopradescritte. I merli non son oggidì più in uso a munir le torri, ma bensì a farle cadere. Coi punti, che modernamente si chiamano in aria, si fa uno studio per torre dal punto e fare che vada in aria la pudicizia. Non è più il sangue dell’irco il quale spezzi ’l diamante; ma il diamante, all’opposto, fa che l’onestà sia di vetro al suo contatto e che vada in pezzi, corrompendo in guisa il sangue, che fa puzzar ad eccesso con istomaco della verecondia que’ goccioloni che hircum redolent, mentre sudano al predominio acceso della moglie canicola.

 

Che dirò delle perle, che son lacrime dell’aurora?

 

Questa piange per far ridere le Cireni e le Veneri. Vergogna, che il candore di esse venga interposto a denigrare la candidezza della riputazione, quando s’infilzano a formar vezzo all’impudicità impudente, che, come le perle, per le perle lascia infilzarsi, sfilata dal disonore.

 

O tempi climaterici, più assai per le rivoluzioni degli animi che degli astri…. 

 

 

IL DECADIMENTO 

 

 

Se la gestione della cultura soggiace a criteri economicistici e segue i ritmi dell’animazione commerciale, sarà allora l’acritica utilizzazione di modelli di management nati e cresciuti all’ombra del mercato dei beni di largo consumo a determinare le scelte strategiche. Queste, se finalizzate esclusivamente a generare utili e a prevalere sulla concorrenza, producono guasti irreparabili alle istituzioni culturali, educative e di ricerca, in primis musei, scuole e università, con la conseguenza dell’elaborazione di offerte formative sempre più leggere e vantaggiose, ma, proprio per questo, appetibili e adatte ai desiderata del grande pubblico.




Il decadimento culturale si fa così evidente in un quotidiano affievolirsi di ogni capacità identificativa e aggregativa nella quale riconoscersi, prodotto e conseguenza di un processo di civilizzazione che ci sospinge inesorabilmente nel regno dell’astratto e del formale, con la signoria della materia, con la ‘negazione dello spirito e con il dominio della tecnica’.

 

La barbarie diviene, così, categoria dello spirito, epifania di un sentimento misto di rassegnazione e arrendevolezza a fronte del lento e inesorabile instaurarsi di culture altre che, sempre più egemoni in misura direttamente proporzionale all’affievolirsi del nostro vissuto identitario, ‘fanno apparire trascurabili, se non obsoleti e regressivi, gli usi, i costumi, le forme di vita e di pensiero, le usanze alimentari e persino gli stilemi architettonici ed artistici europei’.

 

Si pensi, tanto per limitarci ad un solo esempio, all’emozione che potenzialmente può e deve suscitare la visita di una cattedrale, speculum mundi, simbolo di un ordine di cui la costruzione è testimonianza tangibile nel tempo. Culto della bellezza, alta capacità di espressione simbolica, ammirazione per la tecnica. Questo il messaggio di una cattedrale (per chi, ovviamente, è in grado di leggerlo): dal portale, arricchito da complesse iconografie legate al suo valore simbolico di mezzo salvifico, all’altare, che allude – insieme – alla roccia del Moriah del sacrificio di Abramo, al monte del Calvario, alla pietra del Sepolcro, alla tavola della Cena.




Oggi, però, sempre più spesso, nel panorama urbanistico delle nostre città ‘le architetture più studiate e prestigiose, che un tempo erano le chiese, sono ora riservate alle banche’, agli atelier di sarti trendy, ai grandi alberghi di charme, ai ristoranti cool, alle boutique di haute couture e alle sedi di assicurazioni e finanziarie.

 

Alla piazza si sostituisce l’agorà artificiale dell’outlet che, sinonimo di svendita non solo di beni, ma anche e soprattutto di valori, rappresenta il nuovo ambito devozionale per la liturgia del consumo. Una dimensione in cui il do ut des prevale sulla relazione e il dialogo si riduce allo scambio di moneta. Uno spazio in cui il valore della persona emerge per rifrazione dall’oggetto acquistato o si deduce dal valore di spesa della sua carta di credito e dalla sua affidabilità sul piano finanziario.

 

È un segno dei tempi.

 

Sindrome di una barbarie che assurge al rango di forma mentis congeniale all’era della vacuità. Una stagione in cui a prevalere sono i processi di ricezione epidermica dei concetti (avulsi dalla generazione di significati) e le flatulenze verbali, che, superando i tempi eroici dei flatus vocis (la vexata quaestio sulla natura degli universali che Boezio consegnò al Medioevo), si limitano a comunicare il ‘niente’ (ciance, bazzecole e pinzillacchere) o a diffondere contenuti volgari e insignificanti (quisquiliae). E ciò, nell’obnubilamento del raziocinio, determina, un horror vacui et pleni prodotto e conseguenza esclusivamente – tertium non datur! –, di un animus irascibile o concupiscibile.




Un animus irascibile, miserevole residuo delle grandi passioni di un tempo, il più delle volte impregnato di rancore assoluto o nervosismo generalizzato che, sintomo di un’insoddisfazione esistenziale prossima alla frustrazione, si risolve in uno sterile atteggiamento rivendicativo dei diritti e dimentico dei doveri.

 

Un animus concupiscibile che, tendendo esclusivamente alla soddisfazione di esigenze materiali e all’accumulo di utilità, si esalta o nell’opportunismo spregiudicato e nel facile compromesso – intellettuale e materiale – o nella ricerca di una dimensione esclusivamente ludica di un’esistenza passata ad ‘ammazzare il tempo’.

 

È la pericolosa deriva dell’Occidente post-moderno, dominato da una sorta di demenza di massa che – ben diversa dalla consapevole stultitia del Matto dei Tarocchi – rappresenta una seria minaccia alla sua sopravvivenza. 

(A. Cesaro & F. F. Frugoni)






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