CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

mercoledì 12 giugno 2024

IL PASSO DEL LUPO










Precedenti capitoli 


circa la Bestia  


& in Memoria di 


Giacomo Matteotti 










(22/5/1885 - 10/06/1924)   









Prosegue il 30 maggio 


1924-2024








Uno dei motivi – numerosi, tanti, troppi, non ce la farò ad elencarli tutti, e in effetti vi dedicherei l’intero seminario... uno dei tanti motivi per cui ho scelto, in questo insieme di proverbi, quello che forma il sintagma ‘a passo di lupo’, è proprio perché l’assenza del lupo è anche espressa nell’altra operazione silenziosa del ‘passo’, del vocabolo ‘pas’ che implica e lascia percepire, ma senza alcun rumore, la selvaggia intrusione dell’avverbio di negazione (‘pas’, passo di lupo, non ci sono lupi, non c’è il lupo) l’intrusione clandestina dell’avverbio di negazione ‘non’ nel nome, nel ‘passo di lupo’. Un avverbio abita un nome. L’avverbio ‘non’ si è introdotto in silenzio, a passo di lupo, nel nome del ‘passo’.

 

Tutto ciò per dire che là dove le cose si annunciano a ‘passo di lupo’, il lupo non c’è ancora, non il lupo reale, non il lupo cosiddetto naturale, non il lupo letterale. Il lupo non c’è ancora là dove le cose si annunciano ‘a passo di lupo’. C’è solo una parola, un vocabolo, una favola, un lupo delle favole, un animale favoloso, addirittura un fantasma (phantasma nel senso dello spirito greco; o fantasma nel senso enigmatico della psicanalisi, per esempio nel senso in cui il totem corrisponde ad un fantasma); c’è solo l’altro ‘lupo’ che simboleggia un’altra cosa - un’altra cosa o qualcun altro, l’altro la figura favolosa del lupo, come un sostituto o un suppletivo metonimico, annuncerebbe e dissimulerebbe, paleserebbe e maschererebbe.




E non dimenticate che in francese si chiama ‘loup’, ‘lupo’ anche la maschera del velluto nero che un tempo indossavano le donne soprattutto, le ‘dame’ più spesso degli uomini, indossavano, in un certo periodo, in certi ambienti, e in particolare in occasione dei balli in maschera. Il suddetto ‘lupo’ permetteva loro di vedere senza essere viste, di riconoscere senza lasciarsi riconoscere.

 

E l’essenza di questo lupo inafferrabile di persona se non attraverso la parola di una favola, questa assenza afferma allo stesso tempo il potere, la risorsa, la forza, l’astuzia, lo stratagemma di guerra, lo stratagemma o la strategia, l’operazione dell’invisibile dominio. Il lupo è tanto più forte, il significato del suo potere è tanto più terrorizzante, armato, minaccioso, virtualmente predatorio in quanto in questa denominazione, in queste locuzioni, il lupo non appare ancora di persona ma solo nella persona teatrale di una maschera, di un simulacro, di una parola, cioè di una favola o di un fantasma.

 

La forza del lupo è tanto più forte, addirittura sovrana, ha tanto più ragione di tutto in quanto lupo non c’è, non c’è il lupo stesso, salvo un passo di lupo, eccetto un ‘passo di lupo’, tranne un ‘passo di lupo’, solo un ‘passo di lupo’.





Direi allora che questa forza del lupo insensibile (insensibile perché non lo si vede né lo si sente arrivare, insensibile perché invisibile e non udibile, dunque non sensibile, ma anche insensibile perché tanto più crudele, impassibile, indifferente alla sofferenza delle sue vittime virtuali), dico allora che la forza di questa bestia insensibile sembra aver ragione di tutto perché attraverso questa singolare locuzione idiomatica (avere ragione di, quindi prevalere su, essere il più forte), si annuncia la questione della ragione, quella della ragione zoologica, della ragione politica, della razionalità in generale: che cos’è la ragione?

 

Che cos’è una ragione?

 

Una buona o una cattiva ragione?

 

E voi vedete bene che quando passo alla domanda ‘che cos’è la ragione?’ alla domanda ‘che cos’è una ragione?’, buona o cattiva, il senso della parola ‘ragione’ è mutato.

 

E cambia ancora quando passo da ‘aver ragione’ (dunque avere una buona ragione da far valere in un dibattito o in una lotta, una buona ragione contro una cattiva ragione ingiusta), la parola ‘ragione’ cambia quindi ancora quando passo da ‘avere ragione’ in una discussione ragionevole, razionale, ad ‘aver ragione di’ in un rapporto di forza, una guerra di conquista, una caccia, addirittura una lotta all’ultimo sangue.




(a) È giusto che ciò che è giusto sia seguito, è necessario che ciò che è più forte sia seguito.

 

(b) La giustizia senza la forza è impotente: la forza senza la giustizia è tirannica.

 

(c)  La giustizia senza la forza è contestata, perché ci sono sempre malvagi; la forza senza giustizia è messa sotto accusa.

 

(d) Bisogna dunque mettere insieme la giustizia e la forza e, perciò fare ciò che è giusto sia forte, o ciò che è forte sia giusto.

 

(e) La giustizia è soggetta a contestazioni, la forza è riconoscibilissima e senza dispute.

 

(f) Così non si è potuto dare la forza alla giustizia, perché la forza ha contraddetto la giustizia, e ha affermato che quella era ingiusta, e ha detto che solo lei era giusta.

 

(g) E così non potendo far sì che ciò che è giusto fosse forte, si è fatto sì che ciò che è forte fosse giusto. 

 



Comunque si capisca la parola, l’analogia è sempre una ragione, un logos, un ragionamento, o anche un calcolo che si muove, risale verso un rapporto di produzione, o somiglianza, o comparabilità in quale identità e differenza coesistono. Qui, ogni volta che parleremo della bestia e del sovrano, avremo visualizzato un’analogia tra due rappresentazioni correnti (corrente e quindi problematico, sospetto, da interrogare) tra questo tipo di animalità, o essere vivente, che viene chiamato la ‘bestia’ o che viene rappresentato come bestialità, da un lato, e dall’altro, una sovranità che il più delle volte è rappresentata come ‘umana’ o ‘divina’, in un aspetto ‘antropo-teologico’.

 

Ma coltivando questa analogia, chiarificandone il suo territorio, non significa né accreditarlo né semplicemente viaggiarci dentro in una sola direzione, ad esempio riducendo la ‘sovranità’ (politica sociale o individuale, e queste sono già diverse e terribilmente problematiche dimensioni), come è più spesso situato nell’ordine umano, [riducendolo, quindi] a prefigurazioni dette zoologiche, biologiche, animali o bestiali.

 

Non dovremmo mai accontentarci di dire, nonostante le tentazioni, qualcosa del tipo: il sociale, politico, e in essi il valore o l’esercizio della sovranità che sono semplicemente manifestazioni mascherate di forza animale, o conflitti di pura forza; la verità che ci è data dalla zoologia, cioè in fondo bestialità o barbarie, o crudeltà disumana. Sarebbe e sarà possibile citare mille e una dichiarazione che si basano su questo schema, un intero archivio o una biblioteca mondiale.




Noi potremmo anche invertire il senso dell’analogia e riconoscere, al contrario, non che l’uomo politico è ancora animale ma che l’animale è già politico, e mostrare, come è facile fare, in molti esempi di quelle che vengono chiamate società animali, ovvero la comparsa di organizzazioni raffinate, complesse, con strutture gerarchiche, attributi di autorità e potere, fenomeni di credito simbolico, tante cose che sono così spesso attribuite e così ingenuamente riservate alle cosiddette civiltà umane dotate di cultura, in opposizione alla natura.

 

Per fare solo un esempio, molto vicino al nostro seminario, è incontestabile che ci sono società animali, organizzazioni animali che sono raffinate e complicate nell’organizzazione dei rapporti familiari e nelle  relazioni sociali in genere, nella distribuzione del lavoro e della ricchezza, nell’architettura, nella eredità delle cose acquisite, dei beni o delle capacità non innate, nella condotta di guerra e pace, nella gerarchia dei poteri, nell’istituzione di un capo assoluto(per consenso o per forza, se si possono distinguere), di un capo assoluto che ha diritto di vita e di morte sugli altri, con possibilità di rivolte, riconciliazioni, perdoni concessi, ecc.; non basterà tenerne conto questi fatti poco contestabili per concludere da essi che c’è politica e in particolare la sovranità nelle comunità di esseri viventi non umani.




‘Sociale-animale’ non significa necessariamente animale politico; ogni legge non è necessariamente etica, giuridica o politica. Quindi è il concetto di diritto, e con esso quello di contratto, autorità, credito, e quindi molti, molti altri che saranno al cuore delle nostre riflessioni. È la legge che regna (in un modo che è del resto differenziato ed eterogeneo) in tutte le cosiddette società animali della stessa natura di ciò che intendiamo per legge dei diritti umani e/o ‘politica-umana’?

 

Ed è la complessa, anche se relativamente breve, storia del concetto di sovranità in Occidente (un concetto che è esso stesso un’istituzione che cercheremo di studiare come si può) la storia di una legge la cui struttura si ritrova anche nelle leggi che organizzano i rapporti gerarchizzati di autorità, egemonia, forza, potere, potere di vita e di morte nel cosiddetto ‘animale di società’?

 

La domanda è tanto più oscura e necessaria per il fatto che la caratteristica minima che deve essere riconosciuta nella posizione di sovranità, e ciò  nemmeno un preliminare, è, come abbiamo insistito in questi ultimi anni con rispetto a Schmitt, un certo potere di dare, di fare, ma anche di sospendere la legge.




È  l’eccezionale pretesa di porsi al di sopra del diritto, il diritto del non giusto, se posso dire ciò, e che corre il rischio di portare l’’ ‘umano-sovrano’ al di sopra dell’umanità, verso l’‘onnipotenza divina’ (che sarà del resto il più delle volte hanno fondato il principio di sovranità nella sua sacra origine teologica) e, a causa di questa arbitraria sospensione o rottura del diritto, corre il rischio di far sembrare il sovrano la bestia più brutale che non rispetta nulla, disprezza la legge, si pone immediatamente al di sopra della legge, a distanza dalla legge.

 

Per la rappresentazione attuale, alla quale ci riferiamo tanto per cominciare, sovrano e bestia sembrano avere in comune il loro ‘essere-fuori-la-legge’. È come se entrambi si trovassero per definizione a distanza, da o al di sopra delle leggi, non rispettando la legge assoluta, la legge assoluta che esse fanno o che sono (rappresentano), ma che non devono rispettare.

 

‘Essere-fuori-legge’ può, senza dubbio, da un lato (e questa è la figura della sovranità), prendere la forma di essere al di sopra delle leggi, e quindi assumere la forma della Legge stessa, all’origine delle leggi, il garante delle leggi, come se la Legge, con la L maiuscola, la condizione della legge, erano prima al di sopra, e quindi al di fuori della legge, esterna, o anche, eterogeneo rispetto alla legge.




Ma l’essere-fuori-legge può anche, d’altra parte (e questa è la figura di ciò che più spesso si intende per animalità o bestialità), [l’essere-fuori-legge può anche] situare il luogo dove la legge non compare, non viene rispettata, o viene violata.

 

Questi modi di essere-fuori dalla legge (sia il modo di quella che viene chiamata la bestia, sia quello del criminale, anche di quel grande criminale di cui parlavamo l’anno scorso del quale Benjamin ha detto che affascina la folla, anche quando è condannato e giustiziato, perché, insieme alla legge, sfida la sovranità dello stato come monopolio della violenza; sia l’essere-fuori-legge del sovrano stesso), questi diversi modi di essere-fuori-legge possono sembrare eterogenei tra loro, o anche apparentemente eterogenei rispetto alla legge, ma resta il fatto, condividendo questo comune essere-fuori legge, ‘bestia criminale e sovrano’, hanno una somiglianza inquietante: si invocano e si ricordano l’un l’altro, dall’uno all’altro.

 

C’è tra sovrano criminale e bestia, una sorta di complicità oscura e affascinante, o addirittura, una preoccupante reciproca attrazione, un rapporto inquietante, un tormento reciproco. Entrambi, tutti e tre, l’animale, il criminale e il sovrano, sono... al di fuori della legge, a distanza o al di sopra delle leggi: criminale, bestia e sovrani si somigliano stranamente mentre sembrano situati agli antipodi, agli antipodi l’uno dell’altro.




Si intravede inoltre, la breve ricomparsa del lupo, e che il soprannome di ‘lupo’ è dato a un capo di stato come padre della nazione. Mustapha Kemal che si era dato il nome di Atatürk (Padre dei Turchi) era chiamato dai suoi partigiani il ‘lupo grigio’, in ricordo del mitico antenato Gengis Khan, il ‘lupo blu’.

 

Credo che questa inquietante somiglianza, questa preoccupante sovrapposizione di questi due esseri-fuori-legge o ‘senza leggi’ o ‘al di sopra delle leggi’ di cui entrambi sono sovrani, e se visti da una certa angolazione - credo che questa somiglianza spiega e genera una sorta di fascino ipnotico o irresistibile allucinazione, che ci fa vedere, proiettare, percepire, come in una radiografia, il volto della bestia sotto le fattezze del sovrano; o viceversa, se preferite, è come se attraverso le fauci della bestia indomabile, una figura del sovrano possa apparire e generarsi ai vostri occhi.

 

E come in quei giochi di specchi, in cui una figura si sovrappone all’altra nella vertigine di questa unheimlich, perturbante allucinazione, una sarebbe come una preda a un’infestazione, un contagio, o meglio, allo spettacolo di una spettralità contagiosa: l’infestazione, la possessione del sovrano dalla bestia e la bestia dal sovrano, colui che abita o che ospita l’altro, l’uno diventa l’ospite intimo dell’altro, l’animale diventando l’hôte (ospite e ospite), anche l’ostaggio, di un sovrano del quale sappiamo anche che può essere molto stupido [très bête] senza che ciò influisca affatto l’onnipotenza assicurata dalla sua funzione o, se si vuole, da uno dei ‘re’ dei due corpi. 




Nella copertura metamorfica delle due figure, la bestia diventa il sovrano che diventa bestia; c’è la bestia e [et] il sovrano(congiunzione), ma anche la bestia è [est] il sovrano, il sovrano è [est] la bestia.

 

Donde, e questo sarà uno dei punti focali maggiori della nostra riflessione, il suo maggior orientamento politico attuale, e donde l’accusa così spesso formulata oggi nella retorica dei politici contro gli stati sovrani che non rispettano l’internazionale legge del diritto, e che sono chiamati ‘stati canaglia’ [États voyous], cioè stati delinquenti, stati criminali, stati che si comportano come briganti, come ladri di strada o come volgari furfanti che fanno quello che sentono, non rispettano il diritto internazionale, stando ai margini della civiltà internazionale, violare la proprietà, le frontiere, regole e buone maniere internazionali, comprese le leggi di guerra (essendo il terrorismo una delle forme classiche di questa delinquenza, secondo la retorica dei capi di Stati sovrani che dal canto loro pretendono di rispettare il diritto internazionale).

 

Ora ‘Étatvoyou’ è una traduzione dell’inglese ‘rogue’, ‘rogue state’ (in tedesco, Schurkeche può anche significare ‘mascalzone’, limite, imbroglione, truffatore, marmaglia, farabutto, criminale, è la parola usata anche per tradurre canaglia). ‘Stato canaglia’ in inglese sembra essere il primo nome, poiché l’accusa fu formulata per la prima volta in inglese dagli Stati Uniti. Ora noi vedremo, quando andremo in questa direzione e studieremo gli usi, la pragmatica, e la semantica della parola ‘canaglia’, molto frequente in Shakespeare, ciò che riguarda anche noi sull’animalità o la bestialità.




La ‘canaglia’, sia che abbia a che fare con l’elefante, la tigre, leone, o ippopotamo (e più in generale animali carnivori), [la “canaglia”] è l’individuo che non rispetta nemmeno la legge della comunità animale, o del branco, l’orda, nel suo genere. Con il suo comportamento selvaggio o indocile, rimane o si allontana dalla società a cui appartiene. Come sapete, gli stati che sono accusati di essere e comportarsi come ‘stati-canaglia’ spesso respingono l’accusa contro il pubblico ministero e sostengono a loro volta che i veri ‘stati-canaglia’ sono gli Stati-nazione sovrani, potenti ed egemoni che iniziano con il non rispettare la legge o il diritto internazionale a cui affermano di fare riferimento, e danno lungo e praticano il terrorismo di stato, che è semplicemente un’altra forma internazionale di terrorismo. 

(Derrida) 

 

La Bestia è tornata

 

Non che fosse scomparsa, ce l’aveva solo fatto credere. Aveva imparato a nascondersi bene. Poi ha capito che poteva uscire di nuovo allo scoperto, e senza che questo destasse particolare stupore, né riprovazione, né indignazione, anzi. La Bestia ha semplicemente cambiato pelle. Con un suono diverso ha ricominciato a ringhiare in noi. Oggi, settantanove anni dopo essere stata abbattuta, è rispuntata come una nera fenice.

 

Dunque rieccola qui, sotto nuove spoglie.




Mutata. Disarticolata. Rimodellata. Rieditata. Mitigata. Ingentilita. Decontestualizzata. Ricontestualizzata. Subdola. Liquida. Disaggregata. Proprio per questo più insidiosa. In apparenza depotenziata, e dunque digeribile. Almeno nella mente di chi l’ha risvegliata e l’ha rimessa in libertà. Per calcolo. E perché quel calcolo, nei progetti di chi lo ha fatto, è considerato vincente.

 

La Bestia è il fascismo che torna sulla tavola degli italiani. La tavola della democrazia nata dall’antifascismo, dalla resistenza partigiana, dalla lotta di liberazione. Quel desco che al centro ha la nostra Costituzione repubblicana e che adesso si ritrova di nuovo, come commensale sgradito e inatteso, lui, il ‘fascismo nuovo’. Una sintesi tra postfascismo, neofascismo, criptofascismo e populismo. Che va persino oltre i partiti che l’hanno risvegliata: oltre la politica.

 

Perché la Bestia ha capito che per rialzarsi basta riconnettersi alla pancia di un Paese che quel passato non lo ha mai davvero metabolizzato. Non lo ha mai espulso. Semmai, culturalmente, lo ha semplicemente congelato in attesa di capire se davvero l’organizzazione democratica del nostro Stato sia la migliore delle forme di governo possibili.




La Bestia è tornata in silenzio, senza che ce ne accorgessimo. Nel ventre della democrazia che salvaguardia la libera espressione del pensiero. In realtà, come ripete da anni, tra gli altri, Liliana Segre, il fascismo non se n’era mai andato. Era lì, sul fondo del Paese o Nazione, con la N maiuscola, per dirla con la narrazione della premier Giorgia Meloni, già fan del duce criminale Benito Mussolini e del razzista repubblichino Giorgio Almirante.

 

Attenzione, si badi bene: qui non parliamo del fascismo storico, quello iniziato con la marcia su Roma e che poi, alleato coi nazisti, perseguitò, rastrellò e deportò gli ebrei. Quel fascismo resta scritto nei libri di storia; sta nella memoria di chi lo ha vissuto sulla propria pelle. No, parliamo di qualcosa di diverso, di sorprendente; così multiforme e dilatato, e coperto, da rendersi a volte invisibile. Eppure, prima al buio e ora sempre più alla luce, la Bestia te la trovi di fronte; ti ci devi misurare. Conviene descriverla così.

 

È l’avvento di un ‘fascismo’ ideale, culturale; un’ispirazione o un’attitudine fascista a cui attingono a piene mani non solo gli inguaribili nostalgici, non solo l’uomo della strada, ma tutti coloro, e sono tanti, rappresentati politicamente da partiti di governo che puntano a raggiungere il 30 per cento dei voti e propongono modelli rassicuranti, come li chiama Mimmo Franzinelli in ‘Il fascismo è finito il 25 aprile 1945’.




Parliamo di quei leader politici più o meno carismatici che lavorano, nemmeno troppo sotto traccia, per silenziare il diritto al dissenso, reprimere e mettere nell’angolo minoranze scomode, imporre il proprio potere con arroganza e decisionismo cesarista. Accendere la rabbia e spremerla per ricavarne profitto. Riattizzare una visione patriarcale della società, pompare il nazionalismo, colare retorica sulla patria, l’orgoglio, il coraggio. Oggi Meloni e Fratelli d’Italia sono in cima al podio dei falsi ‘modelli rassicuranti’.

 

Per capire la Bestia bisogna pensare a un comune sentire, su cui la destra estrema che oggi governa l’Italia ha lavorato per renderlo presentabile e sfruttabile come veicolo di consenso. Un’arma di marketing politico, una sfida da campagna elettorale perenne.

 

I concetti alla base delle tesi fasciste hanno ancora presa su parte degli italiani?

 

Quanto rendono?

 

È la domanda che si deve essere fatta Giorgia Meloni quando ha iniziato la sua corsa, prima alla leadership della coalizione di governo che la vede alleata con Lega e Forza Italia, e poi verso Palazzo Chigi. La risposta sta in quello che è successo prima e dopo le elezioni del 2022: fatalmente, nel centenario della marcia su Roma che decretò l’inizio del fascismo in Italia. È chiaro ed evidente che per la leader di FDI riattizzare – tra ambiguità e infingimenti – la storia politica rappresentata dalla fiamma tricolore è stata una strategia vincente. Se l’è giocata così e ha fatto bingo. Se e fino a quando durerà la rendita del jackpot è difficile prevedere.




Ma finora è andata così.

 

Lo sdoganamento intenzionale della Bestia è stato insieme causa ed effetto di una forma virale penetrata nel corpo della democrazia. È un virus che contagia – è vero – istituzioni, enti, associazioni, organismi, fondazioni; insomma tutto ciò che permette di gestire il potere. Ma il vero obiettivo di chi ha rimesso in libertà la Bestia è un altro: infilarne il ringhio nella testa dei cittadini, nei comportamenti, nella mentalità che definiamo corrente. Influenzare o storpiare il ragionamento; mutare, stravolgere convinzioni, certezze, dati acquisiti. Conquiste sociali che credevamo granitiche.

 

La ragione si piega facilmente. L’inganno del sovranismo è vendere l’illusione di vedere rimesse in ordine le cose, governato il caos. Un piano propagandistico che in realtà serve alle forze politiche specializzate nella strumentalizzazione della paura. Che poi il caos è più utile se non viene risolto. Così si ha la possibilità di speculare sull’emergenza, di costruire facile consenso, di macinare voti. E dunque di governare. Che in effetti vorrebbe dire risolvere i problemi, non lasciarli lì come strumento su cui far leva. Ma tant’è.

 

Nella stagione del melonismo la Bestia trova il suo momento di massima libertà ed esaltazione. Questione di eredità ideologiche, certo, di matrice. Di un passato con cui l’Italia non solo non ha mai fatto i conti, ma con il quale non ha mai davvero rotto. Fratelli d’Italia ancor meno, anzi: molti suoi esponenti rivendicano l’eredità di quel passato, se ne appropriano; lo assorbono nella narrazione neopatriottica per dargli continuità.




In una dimensione di ambiguità continua, voluta, cercata dalla stessa leader. Meloni – preceduta con parziale successo da Salvini, prima che si suicidasse politicamente osando l’inosabile, e cioè chiedendo nel 2019 agli italiani, al culmine della folle estate del Papeete, di dargli pieni poteri come fece Mussolini – ha coltivato la piantina. Ha concimato un humus italiano. Lo ha fatto per calcolo.

 

Si è mossa dentro uno schema che prevede due dimensioni o due binari. Il primo, quello governativo: facciata conservatrice più o meno rassicurante per le cancellerie europee, per la NATO, per gli Stati Uniti, soprattutto nel tempo dei conflitti che stiamo vivendo (Russia-Ucraina, Israele-Hamas). Il secondo, quello più identitario, intransigente, passatista, legato a una radice mai recisa. La radice che non gela. E se anche fosse vero (ma è tutto da dimostrare) che Meloni intende tagliare i ponti con il passato fascista, resistenze sparse e assai diffuse in FDI le ricordano continuamente il rischio di perdere una parte significativa del proprio elettorato, quella tutt’altro che moderata. È ostaggio di un passato politico che è anche il suo.

 

E tutto questo avviene al riparo di uno scudo, quello della paradossale battaglia contro il pensiero unico, contro il politicamente corretto. Un pensiero unico che in molti casi è semplicemente buon senso, etica, principi minimi e civili di ogni democrazia. Perché parliamo di battaglia paradossale? Perché a parlare di pensiero unico da sconfiggere sono esponenti, prime e seconde linee, di una destra famelica che governa, che occupa spazi con una voracità inaudita, che controlla i media pubblici e influenza quelli privati che fanno capo alla famiglia dell’alleato Forza Italia. 

(P. Berizzi)








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