CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

mercoledì 19 giugno 2024

L'ITALIA DEL 22 (la Storia)

 








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compreso circa la vera 


ricchezza che in essa... 


si cela 







…Sullo medesimo ripiano forse solo per combinazione qualcuno havea consumato ed unito gli stessi antichi accadimenti; ed su una carta di Papiro si legge… la trama d’una Storia apparentemente estranea ma tratta da ugual medesimo Panorama…

 

Tal ritrovato documento accerta e attesta Tempi ricomposti come piccoli iconografiche impronte di lontani fotogrammi ricongiunti alla Luce del Sapere; e giunti dalla lontana remota pulsione di univoca Vita nella medesima volontà del Creatore proiettata nell’altrui volontà di illuminare la Coscienza negata e perseguitata.

 

….Giacché chi pone e pretende giudizio terreno verso colui che non si è macchiato di alcun peccato non certo provvisto della Coscienza detta cui l’humano transitato in medesima crosta di Terra.

 

Tempi ed atti, dunque, assai remoti probabilmente furono conservati entro una giara e acquistati dallo stesso convento in cui il frate, e poi il successivo Bibliotecario, compongono la Cima d’un più probabile Dio dimenticato in cotal preghiera…

 

Come tali compongono una frammentata ritrovata iconografia posta nei successivi fotogrammi di una medesima Storia ripetuta ma giammai finita, giacché di Infinito esiste solo il Buon Dio; quindi come scorgeva nella sua profetica visione il precedente frate: una Terra inaccessibile e ancora non del tutto esplorata in tutta l’elevata altezza, e di cui solo la Conoscenza ne penetrerà - senza violarlo - il Tempio della comune Memoria celebrata ed eternamente offesa cagione della Verità mutilata…

 

Il Tomo fors’anche Papiro è stato nei Secoli transitati, giammai siano detti conquistati dallo stesso, ben conservato nonché tradotto…, non facilmente databile si presume composto Secoli anteriori del ritrovamento del precedente scritto...

 

…Ne riportiamo, dopo averli tradotti, taluni brevi Frammenti di un ugual medesimo Processo…

 

(Giuliano Lazzari; Un mondo perduto)

 

 





L’ITALIA DEL 22  

 

 

Roma, 14 novembre 1922. Mussolini non ha atteso la riunione delle camere del 16 novembre per far conoscere le linee guida del suo programma. Le dichiarazioni che ha fatto negli ultimi giorni ai giornalisti sono così numerose che anche l’uomo politico più abile e scaltro impiegherebbe anni per realizzare tutte le riforme annunciate.

 

Mussolini non nasconde di aver preso il potere per agire, e ha intenzione di agire rapidamente; in questo non gli si può certo negare una certa coerenza.

 

Inoltre è vero che molte riforme sono davvero urgenti.

 

Se si fa riferimento al decreto che sarà sottoposto all’approvazione del parlamento, sembra che la prima preoccupazione del presidente del consiglio sia mettere ordine nelle finanze pubbliche e nella burocrazia. Mussolini chiede che al suo governo siano accordati i pieni poteri per 13 mesi, con l’obiettivo di semplificare il sistema fiscale e ridurre il numero dei dipendenti pubblici. Inoltre chiede sei dodicesimi provvisori di bilancio. Infine invita la camera a procedere senza indugi alla riforma della legge elettorale.




In tempi normali si potrebbe dubitare della sollecitudine dei deputati nel votare una riforma che segna di fatto la fine del loro mandato. Ma non viviamo in tempi normali. Mussolini ha già fatto capire alla camera che è destinata a soccombere. Se sarà saggia, le sarà permesso di dibattere e le sarà lasciata la possibilità di scegliere il genere di morte che preferisce; in caso contrario sarà sciolta senza discorsi.

 

E le elezioni, non potendo ancora svolgersi secondo il meccanismo appena proposto, si faranno con i metodi dei fascisti, cioè molto energici.

 

Già adesso su Montecitorio si avverte una sorta di minaccia. I gruppi più importanti hanno fatto fatica a riunirsi; solo uno o due giornali alzano timidamente la voce per ricordare che in fin dei conti spetta al parlamento dare o rifiutare al presidente del consiglio i pieni poteri politici o le prerogative finanziarie che reclama.

 

È evidente che simili osservazioni sono oggi puramente formali, e che i deputati e i giornalisti di opposizione sono convinti che se la camera non darà a Mussolini i poteri che chiede, Mussolini se li prenderà comunque. Cinquanta deputati si sono iscritti per parlare, ma i funzionari del nuovo governo dicono apertamente che non è più il momento di scherzare, che sono finiti i tempi in cui si analizzavano cavillosamente le questioni senza risolverle e si solleticava la vanità degli oratori senza preoccuparsi degli interessi nazionali.

 

La camera dovrà attenersi a tempi molto rapidi.




Queste nuove regole, molto diverse da quelle applicate finora, provocheranno qualche protesta da parte dei deputati?

 

Difficile dirlo!

 

Negli ambienti più informati si prevede piuttosto un’ubbidienza rassegnata. Anziché compromettere quei pochi mesi di vita che il governo sembra disposto a concederle, la camera si limiterà a fare un uso molto discreto delle sue prerogative e a rinunciare a un’opposizione da cui non si aspetta nulla di buono. Nel frattempo Mussolini ha cominciato a prendere le misure con le quali, in tutti i paesi a regime parlamentare, i capi di governo si preparano alle elezioni: ha sostituito alcuni prefetti e nominato un capo supremo della sicurezza, il generale Emilio De Bono, che ancora ieri era alla testa delle forze fasciste.

 

Arrivano rassicurazioni sul fatto che la riduzione dei contingenti di polizia e di carabinieri annunciata pochi giorni fa sarà in qualche modo compensata dall’uso che farà il governo delle già sperimentate formazioni fasciste per assicurare l’ordine pubblico nella capitale e nel regno. In questo modo sarebbe risolta la pericolosa questione posta dalla smobilitazione delle “camicie nere”.




Quest’ipotesi, tuttavia, dev’essere confermata.

 

Nelle sue dichiarazioni al parlamento difficilmente Mussolini esporrà in dettaglio i mezzi con i quali si propone di portare a termine l’opera di riforma che ha intrapreso. Su questo punto, come su altri, il capo del governo chiederà completa libertà d’azione, persuaso che, anche se la camera gli rifiutasse la fiducia, manterrà comunque quella del paese. 

(Maurice Pernot) 

 

Il fascismo fu certamente una dittatura, ma non era compiutamente totalitario, non tanto per la sua mitezza, quanto per la debolezza filosofica della sua ideologia. Al contrario di ciò che si pensa comunemente, il fascismo italiano non aveva una sua filosofia. L’articolo sul fascismo firmato da Mussolini per l’Enciclopedia Treccani fu scritto o venne fondamentalmente ispirato da Giovanni Gentile, ma rifletteva una nozione tardo-hegeliana dello “stato etico e assoluto” che Mussolini non realizzò mai completamente.

 

Mussolini non aveva nessuna filosofia: aveva solo una retorica.

 

Cominciò come ateo militante, per poi firmare il concordato con la Chiesa e simpatizzare coi vescovi che benedivano i gagliardetti fascisti. Nei suoi primi anni anticlericali, secondo una plausibile leggenda, chiese una volta a Dio di fulminarlo sul posto, per provare la sua esistenza.

 

Dio era evidentemente distratto.




In anni successivi, nei suoi discorsi Mussolini citava sempre il nome di Dio e non disdegnava di farsi chiamare ‘l’uomo della Provvidenza’. Si può dire che il fascismo italiano sia stata la prima dittatura di destra che abbia dominato un paese europeo, e che tutti i movimenti analoghi abbiano trovato in seguito una sorta di archetipo comune nel regime di Mussolini.

 

Il fascismo italiano fu il primo a creare una liturgia militare, un folklore, e persino un modo di vestire – riuscendo ad avere all’estero più successo di Armani, Benetton o Versace. Fu solo negli anni trenta che movimenti fascisti fecero la loro comparsa in Inghilterra, con Mosley, e in Lettonia, Estonia, Lituania, Polonia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Grecia, Iugoslavia, Spagna, Portogallo, Norvegia, e persino in America del Sud, per non parlare della Germania.

 

Fu il fascismo italiano a convincere molti leader liberali europei che il nuovo regime stesse attuando interessanti riforme sociali in grado di fornire un’alternativa moderatamente rivoluzionaria alla minaccia comunista.




Tuttavia, la priorità storica non mi sembra una ragione sufficiente per spiegare perché la parola ‘fascismo’ divenne una sineddoche, una denominazione pars pro toto per movimenti totalitari diversi. Non serve dire che il fascismo conteneva in sé tutti gli elementi dei totalitarismi successivi, per così dire, ‘in stato quintessenziale’.

 

Al contrario, il fascismo non possedeva alcuna quintessenza, e neppure una singola essenza.

 

Il fascismo era un totalitarismo fuzzy.

 

Il fascismo non era una ideologia monolitica, ma piuttosto un collage di diverse idee politiche e filosofiche, un alveare di contraddizioni.

 

Si può forse concepire un movimento totalitario che riesca a mettere insieme monarchia e rivoluzione, esercito regio e milizia personale di Mussolini, i privilegi concessi alla chiesa e una educazione statale che esaltava la violenza, il controllo assoluto e il libero mercato?

 

Il partito fascista era nato proclamando il suo nuovo ordine rivoluzionario ma era finanziato dai proprietari terrieri più conservatori, che si aspettavano una controrivoluzione. Il fascismo degli inizi era repubblicano e sopravvisse per vent’anni proclamando la sua lealtà alla famiglia reale, permettendo a un ‘duce’ di tirare avanti sottobraccio a un ‘re’ cui offerse anche il titolo di ‘imperatore’. Ma quando nel 1943 il re licenziò Mussolini, il partito riapparve due mesi dopo, con l’aiuto dei tedeschi, sotto la bandiera di una repubblica ‘sociale’, riciclando la sua vecchia partitura rivoluzionaria, arricchita di accentuazioni quasi giacobine.




Nel corso di quel ventennio, la poesia degli ermetici rappresentò una reazione allo stile pomposo del regime: a questi poeti venne permesso di elaborare la loro protesta letteraria dall’interno della torre d’avorio. Il sentire degli ermetici era esattamente il contrario del culto fascista dell’ottimismo e dell’eroismo. Il regime tollerava questo dissenso palese, anche se socialmente impercettibile, perché non prestava sufficiente attenzione a un gergo così oscuro. Il che non significa che il fascismo italiano fosse tollerante.

 

Gramsci venne messo in prigione fino alla morte, Matteotti e i fratelli Rosselli vennero assassinati, la libera stampa soppressa, i sindacati smantellati, i dissidenti politici confinati su isole remote, il potere legislativo divenne una mera finzione e quello esecutivo (che controllava il giudiziario, come pure i mass media) emanava direttamente le nuove leggi, tra le quali vi furono anche quelle per la difesa della razza (l’appoggio formale italiano all’Olocausto).        

 

Non ci fu uno Ždanov fascista.




In Italia ci furono due importanti premi artistici: il Premio Cremona era controllato da un fascista incolto e fanatico come Farinacci, che incoraggiava un’arte propagandistica (mi ricordo di quadri intitolati Ascoltando alla radio un discorso del Duce o Stati mentali creati dal Fascismo), e il Premio Bergamo, sponsorizzato da un fascista colto e ragionevolmente tollerante come Bottai, che proteggeva l’arte per l’arte e le nuove esperienze dell’arte d’avanguardia che in Germania erano state bandite come corrotte e criptocomuniste, contrarie al Kitsch nibelungico, il solo ammesso.

 

Il poeta nazionale era d’Annunzio, un dandy che in Germania o in Russia sarebbe stato mandato davanti al plotone d’esecuzione. Venne assunto al rango di Vate del regime per il suo nazionalismo e il suo culto dell’eroismo – con l’aggiunta di forti dosi di decadentismo francese. Prendiamo il futurismo. Avrebbe dovuto essere considerato un esempio di entartete Kunst, così come l’espressionismo, il cubismo, il surrealismo. Ma i primi futuristi italiani erano nazionalisti, favorirono per ragioni estetiche la partecipazione italiana alla prima guerra mondiale, celebrarono la velocità, la violenza, il rischio, e in certo modo questi aspetti sembrarono vicini al culto fascista della gioventù. Quando il fascismo si identificò con l’impero romano e riscoprì le tradizioni rurali, Marinetti (che proclamava una automobile più bella della Vittoria di Samotracia e voleva persino uccidere il chiaro di luna) venne nominato membro dell’Accademia d’Italia, che trattava il chiaro di luna con grande rispetto.




 

ERETICI AL CONFINO

 

 

Il confino politico fu istituito come misura di prevenzione da adottare ante delictum nei confronti di soggetti che avrebbero potuto costituire un pericolo per la società, ma che ancora non avevano commesso alcun tipo di reato. Come tutte le misure preventive, il confino era di competenza amministrativa e non aveva uno scopo punitivo: il problema sorse quando del concetto di prevenzione si fece un uso politico fornendo la base con cui legittimare l’allontanamento dal contesto sociale di individui che potevano essere, realmente o meno, un pericolo: le misure di prevenzione divennero, così, ‘lo strumento principale per assicurare l’intangibilità politica’ del regime.

 

Essendo uno strumento di polizia, il confino presupponeva situazioni di mero sospetto: discrezionalità e presunzione di pericolosità assunsero un ruolo fondamentale. Se il diritto penale offriva, almeno in teoria, la garanzia di essere puniti esclusivamente per fatti oggettivi, le misure di polizia si fondavano su giudizi e non comportavano la commissione di un illecito penale. In tal modo, basandosi esclusivamente su indizi di ‘presunta pericolosità’ e non su fatti, esse rappresentarono un sistema sussidiario e complementare al diritto penale, integrando quest’ultimo senza però ad esso sostituirsi né equipararsi.




Applicandosi alle persone sospette la misura di prevenzione di polizia toccava da vicino il problema della libertà individuale.

 

L’Italia liberale aveva conosciuto il domicilio coatto che era stato usato anche per reprimere le attività politiche di opposizione, il libero arbitrio, gli eretici ‘contro’, quando ‘contro’ vuol significare ogni ingiustizia sociale dello stesso lo stato; la novità che apportò il regime fascista consistette nella nascita di un sistema istituzionalizzato di polizia con poteri propri di prevenzione e di repressione politica, presupposto di nuove norme giuridiche. Non a caso nel 1930 il consigliere della Corte di cassazione del Regno, Antonio Saccone, in merito al confino, affermava:

 

‘Certo, non si potrà esercitare una seria ed efficace tutela preventiva, se non limitando in parte lo svolgersi integrale della propria libertà personale; ma ciò non vale a far condannare senz’altro ogni misura di polizia preventiva [...] [giacché] è minor inconveniente limitare in parte l’esplicazione dell’attività individuale che non lasciar priva di tutela la sicurezza pubblica dei cittadini’.




In nome di un ‘bene comune’, quello della ‘sicurezza pubblica’, si giustificava l’adozione di misure di polizia preventive volte ad assicurare un ordine pubblico a scapito dei principali diritti civili e politici dei singoli.

 

I diritti soggettivi furono calpestati dallo stesso regolamento normativo del confino poiché era prevista la possibilità di arrestare nemici politici e di trattenerli senza rendere espliciti i capi d’accusa e senza difesa contro un mero sospetto.

 

Il tema dello Stato di diritto e del suo scardinamento tramite la prassi della detenzione senza imputazione è fondamentale, in quanto, proprio su questa regola, si basò il confino favorendo, in questo modo, la nascita in Italia di un regime dittatoriale in cui l’utilizzo di istituti contrari alle garanzie del diritto della persona e finalizzati alla repressione di una o più determinate categorie, non fu il risultato di eccessi del sistema, ma parte organica di questo stesso.




La misura di prevenzione costituita dal confino risultò contraria allo Stato di diritto innanzitutto perché non rispettava il cosiddetto principio di legalità formale (espresso dalla locuzione latina nullum crimen, nulla poena sine previa lege poenali, spesso abbreviata con la formula nullum crimen, sine lege), principio che esprime l’idea che non possa esserci reato, e quindi nessuna pena, se non esiste la legge che lo prevede. Tale convinzione, alla base del diritto moderno, era nata per garantire la libertà del singolo dallo strapotere dello Stato di polizia e per eliminare la possibilità di un uso retroattivo (principio di irretroattività) delle leggi, in modo da evitare che potessero essere considerati reati quei comportamenti che nel momento in cui essi si manifestavano non erano considerati tali.

 

Benché, teoricamente, in Italia fosse restato in vita il principio di ‘legalità formale’, il senso del nullum crimen, sine lege fu completamente svuotato perché la misura di polizia, usata per fini politici, risultò essere uno strumento snello e veloce per colpire quelle categorie che non erano imputabili tramite il sistema giudiziario. Il rapporto cittadino-Stato cambiò a vantaggio del secondo e prese il sopravvento una visione di fatto sostanziale13 del reato a scapito di quella formale.




Il confino politico fu contrario allo Stato di diritto anche per un altro motivo: esso fu applicato, non di rado, come una sanzione, per di più detentiva. Una misura di prevenzione non ha carattere giuridico e non è una punizione perché – come già detto – non consegue a nessun reato commesso. Per questo motivo una misura preventiva non può essere considerata una pena, cioè una sanzione afflittiva, detentiva. Invero, il confino funzionò, per alcuni aspetti, come una misura di sicurezza, che invece è uno strumento penale, perché colpì, nella maggioranza dei casi, ex confinati che avevano finito di scontare il loro periodo e/o ex carcerati per motivi politici: in questi casi il confino non fu usato nei confronti di persone che non avevano ancora commesso alcun reato o infrazione nei confronti del regime, ma assunse la funzione di una misura di sicurezza nell’impedire nuovi reati, nel controllare la persona e nel frenare il suo stato di pericolosità, ma senza disporre di quelle garanzie proprie di una misura di sicurezza, cioè il disciplinamento di un processo penale tramite la presenza di un giudice.




La convergenza tra le misure preventive e quelle di sicurezza non sfuggì ad alcuni giuristi italiani dell’epoca che sostenevano la fusione dei due tipi di misure poiché esse avevano una radice comune, un carattere ideologico simile (colpivano la pericolosità sociale e quella politica assimilate l’una all’altra) e le stesse finalità mirando – le misure di sicurezza – non a recuperare il singolo ma a punirlo quanto quelle di polizia. Altri esperti prospettavano per i delinquenti giudicati irrecuperabili, per i quali l’internamento in case di cura o di lavoro non avrebbe avuto alcuna utilità, il confino politico rafforzando, quindi, la tesi della convergenza fra misure di prevenzione e misure di sicurezza.

 

Il confino politico, basandosi sul concetto di nemico, di pericolosità per la società e per lo Stato, di tutela della sicurezza comune, trovava giustificazione nei principi della cosiddetta Scuola positiva. Il modello penale cui faceva riferimento la Scuola positiva, dando più importanza alla difesa sociale rispetto alla libertà del singolo, si accordava all’impostazione statalista offerta dal nuovo assetto istituzionale e politico rappresentato dal fascismo.




Per quanto i giuristi in linea con il regime di Mussolini definissero lo Stato fascista uno Stato di diritto e lo considerassero il ‘compimento nel segno della legalità delle premesse dello Stato ottocentesco’ dopo la parentesi del regime liberale, tale assunto era privo di senso perché non si teneva conto del fatto che era un diritto nato non dal libero dibattito parlamentare e che non erano più assicurate ai cittadini le principali garanzie.

 

Durante il Ventennio si continuò a parlare di ‘Stato di diritto’ sebbene questo fosse stato profondamente adattato ai modelli che i teorici del fascismo andarono creando. Per la pubblicistica fascista lo Stato di diritto era una fase, un momento della realtà morale costituita dallo Stato etico: non essendo sempre valida la sua logica garantista soprattutto in situazioni eccezionali, lo Stato di diritto doveva porsi dei limiti e fare posto al cosiddetto Stato etico dove il cittadino continuava ad essere inteso come individuo, ma non più nella sua unicità, bensì nel suo appartenere ad una comunità nazionale.




Lo Stato etico impegnava tutti i cittadini ad una partecipazione totale e completa, così che dal popolo potesse scaturire la coscienza nazionale. Questo Stato – unità inscindibile di potere, identificato con quello esecutivo a sua volta imperniato sul capo del governo – risultava un’entità a parte, dotata di una propria esistenza, di propri scopi e di una propria morale. A questa doveva sottostare l’individuo, la cui libertà era prevista solo in funzione dello Stato. Stato e Nazione si fondevano in una sola cosa.

 

Stato e popolo costituivano un binomio indissolubile, dove per gli individui era un dovere assoluto obbedire alla volontà dello Stato senza nessun corrispettivo di diritti. In questa ottica lo Stato etico si faceva educatore delle masse e assumeva compiti pedagogici anche nell’ambito delle pene che assumevano una funzione rieducatrice morale e sociale; ‘il ripristino della pena di morte’ e il rigore del sistema penitenziario, tuttavia, erano ben lontani ‘dal consentire il conseguimento di finalità rieducative, esprimendo piuttosto un programma intimidatorio di prevenzione generale negativa’.




Il successo dell’efficacia del confino politico dipese non solo dalle modalità usate dal regime e dal comportamento delle autorità e delle guardie, ma anche dall’atteggiamento della popolazione civile che viveva nelle immediate vicinanze. La reazione e la ricezione della gente locale a questo strumento repressivo e il modo di rapportarsi ai ‘nemici’ dello Stato sono questioni di non facile analisi perché andrebbero tenuti in considerazione molti fattori, come il genere di questi involontari testimoni, la loro classe sociale di appartenenza, il loro livello di politicizzazione.

 

Alcune persone espressero indifferenza o diffidenza nei confronti dei confinati; altre assunsero atteggiamenti ostili o commisero azioni che resero più difficile la condizione dei perseguitati politici; altre, ancora, manifestarono forme più o meno concrete di solidarietà riuscendo ad alleviare le condizioni di chi era confinato. L’insieme è eterogeneo e non permette di individuare delle categorie, anche perché alcuni comportamenti seguirono logiche legate non alla politica ma a questioni puramente personali. Non meno interessante è la reazione della gente comune alla presenza invadente delle autorità preposte alla vigilanza dei confinati. L’atteggiamento di fronte alle guardie fu dettato, come abbiamo detto, da opportunismo o dalla paura di essere accusati di connivenza o collusione con i politici.




Questo discorso conduce al tema più generale del ‘consenso’, una questione largamente trattata dalla storiografia italiana e sulla cui parola il medesimo dibattito scientifico non è sempre concorde. Senza addentrarci nello specifico, non si può negare che il regime fascista, non molto diversamente da quello nazista, si mosse in molteplici direzioni per raggiungere il consenso: mise in moto un apparato propagandistico con strutture senza precedenti rispetto a qualsiasi altro regime autoritario; usò strumenti repressivi e coercitivi; utilizzò idee profondamente radicate nella società.

 

Non v’è dubbio che ‘la fabbrica del consenso’ fu efficace anche solo per la profonda censura che riuscì ad eliminare tutti quegli aspetti che avrebbero potuto stendere un’ombra sul governo: ad un’iniziale propaganda ‘di agitazione’, violenta, fondata su mezzi relativamente semplici come comizi, opuscoli, volantini che facevano leva su basse pulsioni e istinti ispirati a sentimenti d’odio e rivalsa, ne seguì una ‘di integrazione’ finalizzata ad influire sulle abitudini e sui comportamenti tramite la diffusione di nuovi culti e simbologie.




Lo scopo del regime era ottenere non solo l’obbedienza, tramite l’uso della forza, ma anche una sorta di interiorizzazione dello ‘spirito’ del fascismo e della personalizzazione del potere.

 

Il ‘ducismo’, come in Germania il principio dell’autorità assoluta del capo (Führerprinzip), costruì quel culto della personalità che fu un elemento fondamentale nel consolidamento del potere nel tempo. Esso si radicò tanto profondamente da dare segni di cedimento solo a partire dalla promulgazione delle leggi razziali per continuare con l’entrata in guerra e con il suo andamento riuscendo, tuttavia, a resistere addirittura post mortem.

 

Certamente in regimi come quello fascista e nazista non era facile dissentire apertamente con il sistema. Se il nesso repressione-consenso è stato più volte esaminato dalla storiografia tedesca, quella italiana ha registrato un notevole ritardo sia nell’affrontare questa relazione sia nell’allontanarsi dall’impostazione defeliciana che aveva sottaciuto il rapporto coercizione-consenso. Una delle conquiste del dibattito più recente è stato proprio il riconoscimento della inscindibilità del binomio consenso-strumenti repressivi. La paura di esporsi apertamente contro l’arresto di qualcuno o di assumere determinati atteggiamenti che dessero adito a sospetto di connivenza o solidarietà spinse molti ad assumere comportamenti di consenso passivo, accettazione forzata o indifferenza.




È anche vero che il regime fascista (come altri di tipo dittatoriale) fu espressione di un profondo e diffuso consentire su alcuni valori e idee presenti già nella società a prescindere dall’adesione politica, dall’approvazione di alcuni atti del governo o dalla simpatia per il dittatore.

 

Questa continuità del regime di Mussolini con alcuni paradigmi culturali e idee prefasciste ben radicate nella coscienza storica del Paese emersero con forza nel mondo industriale: la classe dirigente economica italiana, per esempio, manifestò il suo consenso al regime perché il fascismo accoglieva quel ‘patrimonio di idee sul mondo, e sull’economia in particolare, che [era] frutto di un’esperienza comune a uomini politici, economisti e dirigenti economici’. Quel retaggio culturale e ideologico radicato in Italia come il protezionismo o la trasformazione organicistica della società era stato accettato e fatto proprio dal fascismo trovando il consenso di buona parte dei ceti economici italiani, almeno finché reale fu la possibilità di un rafforzamento politico, militare e industriale del Paese e cioè fino alla primavera del 1943 quando l’imminente disfatta si fece sempre più evidente. Aderire al regime, e quindi all’economia di guerra, volle dire per molti andare incontro a vere e proprie opportunità di avanzamento sociale ed economico.

 

Questo discorso, che qui è declinato al mondo industriale, può essere applicato anche ad altri gruppi sociali: alcune convinzioni culturali furono cavalcate dal regime che contò, al contempo, su una sorta di apatia, terreno fertile per il radicalizzarsi di pregiudizi trasversali ai ceti sociali, come a quelli sul bolscevismo.

 

Per spiegare il consenso non si può comunque escludere e minimizzare il verificarsi di veri e propri atteggiamenti entusiastici espressi da larghi strati della società, come quelli manifestati in occasione delle campagne di mobilitazione per le donazioni di oro. La politicizzazione delle masse (anche degli strati fino ad allora rimasti esclusi dalla politica) inquadrate nelle organizzazioni di regime, la fascistizzazione della società, il ruolo fondamentale del partito unico generarono episodi di sentita condivisione degli ideali fascisti. 

(C. Poesio)








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