CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

domenica 27 agosto 2023

UN SOGNO ENTRO UN ALTRO SOGNO, ovvero, IL RITORNO

 








Prosegue con la... 


'Partenza' (2)  


& un Eretico, 









Ian Stevenson







L’Austria confina con l’Italia, e St. Valentin non dista da Tarvisio più di trecento chilometri; eppure il 15 ottobre, trentunesimo giorno di viaggio, attraversavamo una nuova frontiera ed entravamo a Monaco, in preda ad una sconsolata stanchezza ferroviaria, ad una nausea definitiva di binari, di precari sonni su tavolati di legno, di sobbalzi, di stazioni; per cui gli odori familiari, comuni a tutte le ferrovie del mondo, l’odore acuto delle traversine impregnate, dei freni caldi, del carbone combusto, ci affliggevano di un disgusto profondo. Eravamo stanchi di ogni cosa, stanchi in specie di perforare inutili confini.

 

Ma, per un altro verso, il fatto di sentire per la prima volta, sotto i nostri piedi, un lembo di Germania: non di Alta Slesia o di Austria, ma di Germania propria, sovrapponeva alla nostra stanchezza uno stato d’animo complesso, fatto di insofferenza, di frustrazione e di tensione.




Ci sembrava di avere qualcosa da dire, enormi cose da dire, ad ogni singolo tedesco, ad ogni padano, ad ogni fascista… e che ognuno di loro avesse da dirne a noi: sentivamo l’urgenza di tirare le somme, di domandare, spiegare e commentare, come i giocatori di scacchi al termine della partita. Sapevano, ‘loro’, di Auschwitz, della strage silenziosa e quotidiana, a un passo dalle loro porte?

 

Se sì, come potevano andare per via, tornare a casa e guardare i loro figli, varcare le soglie di una chiesa?

 

Se no, dovevano, dovevano sacramente, udire, imparare da noi, da me, tutto e subito: sentivo il numero tatuato sul braccio stridere come una piaga.

 

Errando per le vie di Monaco piene di macerie, intorno alla stazione dove ancora una volta il nostro treno giaceva incagliato, mi sembrava di aggirarmi fra torme di debitori insolventi, come se ognuno mi dovesse qualcosa, e rifiutasse di pagare. Ero fra loro, nel campo di Agramante, fra il popolo dei Signori: ma gli uomini erano pochi, molti mutilati, molti vestiti di stracci come noi. Mi sembrava che ognuno avrebbe dovuto interrogarci, leggerci in viso chi eravamo, e ascoltare in umiltà il nostro racconto.




….Ma nessuno ci guardava negli occhi, nessuno accettò la contesa: erano sordi, ciechi e muti, asserragliati fra le loro rovine come in un fortilizio di sconoscenza voluta, ancora forti, ancora capaci di odio e di disprezzo, ancora prigionieri dell’antico nodo di superbia e di colpa.

 

Mi sorpresi a cercare fra loro, fra quella folla anonima di visi sigillati, altri visi, ben definiti, molti corredati da un nome: di chi non poteva non sapere, non ricordare, non rispondere; di chi aveva comandato e obbedito, ucciso, umiliato, corrotto. Tentativo vano e stolto: ché non loro, ma altri, i pochi giusti, avrebbero risposto in loro vece.

 

Se a Szób avevamo imbarcato un ospite, dopo Monaco ci accorgemmo di averne imbarcato una intera nidiata: i nostri vagoni non erano più sessanta, bensì sessantuno. In coda al treno viaggiava con noi verso l’Italia un vagone nuovo, stipato di giovani ebrei, ragazzi e ragazze, provenienti da tutti i paesi dell’Europa orientale. Nessuno di loro dimostrava più di vent’anni, ma erano gente estremamente sicura e risoluta: erano giovani sionisti, andavano in Israele, passando dove potevano e aprendosi la strada come potevano. Una nave li attendeva a Bari: il vagone l’avevano acquistato, e per agganciarlo al nostro treno, era stata la cosa più semplice del mondo, non avevano chiesto il permesso a nessuno; l’avevano agganciato e basta.




Me ne stupii, ma risero del mio stupore:

 

‘Forse che Hitler non è morto?’

 

…mi disse il loro capo, dall’intenso sguardo di falco.

 

Si sentivano immensamente liberi e forti, padroni del mondo e del loro destino.

 

Per Garmisch-Partenkirchen giungemmo la sera al campo di sosta di Mittenwald, fra i monti, sul confine austriaco, in un favoloso disordine. Vi pernottammo, e fu l’ultima nostra notte di gelo. Il giorno seguente il treno discese su Innsbruck, e qui si riempì di contrabbandieri italiani, i quali, nella carenza delle autorità costituite, ci portarono il saluto della patria, e distribuirono generosamente cioccolato, grappa e tabacco.

 

Nella salita verso il confine italiano il treno, più stanco di noi, si strappò in due come una fune troppo tesa: vi furono diversi feriti, e questa fu l’ultima avventura.




A notte fatta passammo il Brennero, che avevamo varcato verso l’esilio venti mesi prima: i compagni meno provati, in allegro tumulto.

 

Di seicentocinquanta, quanti eravamo partiti, ritornavamo in tre.

 

E quanto avevamo perduto, in quei venti mesi?

 

Che cosa avremmo ritrovato a casa?

 

Quanto di noi stessi era stato eroso, spento?

 

Ritornavamo più ricchi o più poveri, più forti o più vuoti?

 

Non lo sapevamo: ma sapevamo che sulle soglie delle nostre case, per il bene o per il male, ci attendeva una prova, e la anticipavamo con timore.




Sentivamo fluirci per le vene, insieme col sangue estenuato, il veleno di Auschwitz: dove avremmo attinto la forza per riprendere a vivere, per abbattere le barriere, le siepi che crescono spontanee durante tutte le assenze, intorno ad ogni casa deserta, ad ogni covile vuoto?

 

Presto, domani stesso, avremmo dovuto dare battaglia, contro nemici ancora ignoti, dentro e fuori di noi: con quali armi, con quali energie, con quale volontà?

 

Ci sentivamo vecchi di secoli, oppressi da un anno di ricordi feroci, svuotati e inermi. I mesi or ora trascorsi, pur duri, di vagabondaggio ai margini della civiltà, ci apparivano adesso come una tregua, una parentesi di illimitata disponibilità, un dono provvidenziale ma irripetibile del destino.

 

Volgendo questi pensieri, che ci vietavano il sonno, passammo la prima notte in Italia, mentre il treno discendeva lentamente la val d’Adige deserta e buia.




Il 17 di ottobre ci accolse il campo di Pescantina, presso Verona, e qui ci sciogliemmo, ognuno verso la sua sorte: ma solo alla sera del giorno seguente parti un treno in direzione di Torino. Nel vortice confuso di migliaia di profughi e reduci, intravvedemmo Pista, che già aveva trovato la sua strada: portava il bracciale bianco e giallo della Pontificia Opera di Assistenza, e collaborava alacre e lieto alla vita del campo. Ed ecco, di tutto il capo più alto della folla, avanzare verso di noi una figura, un viso noto, il Moro di Verona. Veniva a salutarci, Leonardo e me: era arrivato a casa, primo fra tutti, poiché Avesa, il suo paese, era a pochi chilometri. E ci benedisse, il vecchio bestemmiatore: levò due dita enormi e nodose, e ci benedisse col gesto solenne dei pontefici, augurandoci un buon ritorno e ogni bene.

 

L’augurio ci fu grato, poiché ne sentivamo il bisogno.



Giunsi a Torino il 19 di ottobre, dopo trentacinque giorni di viaggio: la casa era in piedi, tutti i familiari vivi, nessuno mi aspettava. Ero gonfio, barbuto e lacero, e stentai a farmi riconoscere. Ritrovai gli amici pieni di vita, il calore della mensa sicura, la concretezza del lavoro quotidiano, la gioia liberatrice del raccontare. Ritrovai un letto largo e pulito, che a sera (attimo di terrore) cedette morbido sotto il mio peso. Ma solo dopo molti mesi svanì in me l’abitudine di camminare con lo sguardo fisso al suolo, come per cercarvi qualcosa da mangiare o da intascare presto e vendere per pane; e non ha cessato di visitarmi, ad intervalli ora fitti, ora radi, un sogno pieno di spavento.




È un sogno entro un altro sogno, vario nei particolari, unico nella sostanza. Sono a tavola con la famiglia, o con amici, o al lavoro, o in una campagna verde: in un ambiente insomma placido e disteso, apparentemente privo di tensione e di pena; eppure provo un’angoscia sottile e profonda, la sensazione definita di una minaccia che incombe. E infatti, al procedere del sogno, a poco a poco o brutalmente, ogni volta in modo diverso, tutto cade e si disfa intorno a me, lo scenario, le pareti, le persone, e l’angoscia si fa più intensa e più precisa.

 

Tutto è ora volto in caos: sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, ed anche so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all’infuori del Lager. Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa.

 

Ora questo sogno interno, il sogno di pace, è finito, e nel sogno esterno, che prosegue gelido, odo risuonare una voce, ben nota; una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. È il comando dell’alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi, ‘Wstawać’.

 

(P. Levi; La tregua)









lunedì 14 agosto 2023

GENIUS LOCI (ovvero: la Natura ama nascondersi)











Precedenti capitoli: 


Con il Bosco.... ovvero: 


colui che li ha creati! 


& l'uomo distrutti! 


Prosegue con i...: 


Meccanici... 






È questo infatti l’intento ove, non pur si rende omaggio al loro ingegno, si raccontano i più vari aneddoti della loro Vita, ovvero la ‘Commedia dei commedianti’, e si mettono in rilievo i loro capricci,  la loro burbanza, i loro difetti con l’ausilio del nostro rinato Teatrino, da marionette burattini e futuri automi… accompagnati.

 

Ci scusino lor Signori per taluni interventi ‘meccanici’.

 

Lo riconosco, il Foglio volante è, in certi luoghi non certo comuni, senza pietà e coscienza alcuna: ma fin dove  apparisce crudele, l’umano lettore vi scorgerà sempre un sentimento benevolo; la bestia a cui sovente o troppo spesso mi ispiro padrona dell’Idea che corre e vola, e talvolta striscia con una saporita mela in bocca, per appagare l’inestinto appetito di cui noi poveri Eretici godiamo, quale eterno e sol diritto ben curato da chi ha frainteso la nostra incompresa e perigliosa terrena avventura… osservando e ululando alla Luna.

 

Per noi solo morte e mannara sventura!

 

Per tutti coloro che vi approdano senza peli & scopa… somma  conoscenza & fortuna, per ogni cratere conquistato dal grande umano ingegno della Scienza senza più Terra alcuna, ed hora alla conquista della più nota sabbia della… Luna…   




La bestia che mi ispira, hor hor dicevo, al contrario, riconosce il me il vecchio Genio Loci disperso, non certo nella Selva della somma Luna piena, semmai rinato - fors’anche sottratto - al crudele destino giungla del loro Inferno meccanizzato, il risultato che ne deriva il più noto Cratere di Apollo, da ove osservare e quindi meditare il triste destino della Terra riunita quantunque divisa… comprese le sorti meccanizzate d’ognuno per ogni più probabile avaria di bordo…    

 

‘NULLUS LOCUS SINE GENIO’: questa frase di Servio (retore latino vissuto tra il IV ed il V secolo d.C.) tratta dal Commento all’Eneide (5, 95), risulterebbe incomprensibile alla maggior parte degli odierni lettori, salvo che a qualche specialista di mitologia latina. Eppure essa diceva ai suoi contemporanei una cosa che per loro era ovvia: «nessun luogo è senza Genio». Laddove per Genio s’intende lo spirito, il nume tutelare del luogo stesso.

 

Se volessimo tentare di spiegare oggi, con semplicità, ad una persona qualunque, come può applicarsi questo concetto ad un luogo particolare, potremmo forse dire che quel luogo, propriamente, è ‘numinoso’, è cioè colmo della presenza di un nume, pervaso da un’aura di sacralità.

 

Non esiste, infatti, nella nostra cultura, un’idea che coincida con quella del Genius Loci. Oltretutto, per la cultura latina il Genio non l’avevano solo i luoghi, ma anche le persone. Il Genio, insomma, era il compagno soprannaturale di ciascun’anima (e l’anima, come vedremo, non era solo appannaggio dell’uomo).




Più ci si è allontanati, anche temporalmente, dalla cultura latina e più siamo divenuti incapaci di comprendere il significato della frase di Servio e della sua semplificazione tanto lessicalmente bella e armoniosa da essere rimasta viva nelle lingue occidentali, nonostante la totale perdita della sua accezione semantica originaria: Genius Loci. Chiunque si occupi a un certo livello di architettura, di paesaggio, di antropologia o di estetica, infatti, si è sicuramente imbattuto in questo concetto o ha talvolta usato questa locuzione, senza mai tradurla e spesso tentando di attribuirle significati ben lontani da quelli originali.

 

Torniamo, allora, indietro nel tempo e cerchiamo di capire cosa volessero dire i latini con la locuzione Genius Loci.

 

Abbiamo detto, traducendo con la massima semplicità le due parole che compongono la locuzione, che con essa si intendeva lo spirito, il nume tutelare del luogo. Ciascun luogo, dunque, si trattasse di una fonte, un fiume, un bosco, un’altura, aveva una divinità secondaria (rispetto a quelle olimpiche) che lo proteggeva e lo tutelava. Si riconosceva, così, ai luoghi, uno status del tutto analogo a quello degli esseri umani.

 

In Censorino (grammatico latino del III sec. d.C.) si ha addirittura un’assimilazione del Genio con i Lari (3,1), che, come è noto, erano le anime dei trapassati, protettrici della famiglia, la cui sede era il focolare domestico, presso cui sorgeva il tabernacolo. Ma vi erano Lari anche dei crocicchi, delle strade, dei militi ecc.




Questa idea del Genio, anche se è originale della cultura e della religione latina, trova un precedente parzialmente analogo nella figura greca del Daimon (in lingua italiana ‘demone’ ma con un’accezione del tutto diversa da quella cristiana).

 

Il Daimon dell’uomo greco era, anche in questo caso, una divinità secondaria, uno spirito al quale si attribuivano tutte le vicende umane, liete e tristi. Si riteneva che ciascuno avesse il suo demone buono che lo indirizzava verso il compimento della propria essenza. Dunque il Daimon come nume tutelare di ciascun essere umano.

 

La figura del Daimon è stata suggestivamente rievocata dallo psicoanalista e pensatore James Hillman in un suo famoso volume, Il codice dell’anima (Adelphi 1997).

 

Do brevemente conto della tesi iniziale di Hillman perché può esserci utile ad inquadrare il problema. Scrive Hillman: ‘Questo libro intraprende una strada nuova a partire da un’idea antica: ciascuna persona viene al mondo perché è chiamata. L’idea viene da Platone, dal mito di Er che egli pone alla fine della sua opera più famosa, La Repubblica. In breve l’idea è la seguente. Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine o disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi quassù, un daimon che è unico e tipico nostro. Tuttavia, nel venire al mondo, dimentichiamo tutto questo e crediamo di esserci venuti vuoti. È il Daimon che ricorda il contenuto della nostra immagine, gli elementi del disegno prescelto, è lui dunque il portatore del nostro destino’.




In effetti proprio nelle ultime pagine de La Repubblica Platone, più che il mito, narra l’apologo di Er, un uomo tornato miracolosamente in vita dopo essere morto in guerra, il quale riferisce ciò che ha visto nell’aldilà (1000, 1310). Er racconta molte cose interessanti e misteriose e parla di incontri strabilianti, ma, infine – per quel che ci riguarda nello specifico – testimonia di aver visto le anime scegliersi le vite nelle quali avrebbero dovuto incarnarsi e poi, di seguito, avere assegnato da Lachesi, una delle tre Moire, il demone che si erano scelte quale custode della vita ed adempitore della sorte prescelta.

 

Il senso è chiaro: ciascun’anima ha assegnato – in quanto se l’è prescelto – un compito sulla terra (una mission personale diremmo oggi). Gli dei, comunque, chiedono a quell’anima il compimento di se stessa, secondo il disegno numinoso che la pervade senza tuttavia dominarla. La libertà di ciascun’anima consiste, per l’appunto, nel riuscire ad ascoltare i «consigli» del Daimon e nel compiere il disegno.

 

Nella cultura latina il Daimon prende in nome di Genius ed estende il suo campo d’azione, senza tuttavia perdere le caratteristiche essenziali. Ma questa estensione non dobbiamo considerarla del tutto arbitraria o scollegata dalla precedente cultura greca. Se il Daimon è proprio di ciascun essere dotato d’anima, come dimenticare, infatti, che lo stesso Platone nel Timeo scriveva: ‘Questo mondo è un essere dotato d’anima e di intelligenza, generato dalla provvidenza di Dio’.




E non basta, perché all’obiezione di chi potrebbe riferire questa espressione ad una anima mundi (la qual cosa non escluderebbe affatto che anche le singole componenti del mondo posseggano una parte di quell’anima) basta ricordare come sempre Platone, viceversa, nell’Epinomide sostiene: ‘I corpi celesti sono esseri viventi, e anzi si può dire che nel loro insieme costituiscano il genere divino degli astri, a cui è toccato il corpo più bello e l’anima più felice e perfetta’. Il che ci dice che il grande pensatore attribuiva un’anima anche a creature diverse dall’uomo e pur sempre diverse dall’insieme indistinto del tutto.

 

A completare il quadro del nostro concetto in età classica vi è, infine Plotino, pensatore nato a Licopodi, in Egitto, tra il 203 ed il 204 d.C., che partecipò alle campagne dell’imperatore Gordiano contro i persiani per venire in contatto con le dottrine del pensiero orientale, si stabilì a Roma dove fondò un’importante scuola di filosofia e morì in Campania tra 269 ed il 270. Plotino, la cui opera fu raccolta dal discepolo Porfirio nelle Enneadi, riteneva anch’egli che esistesse un’anima mundi – quale seconda emanazione, dopo l’intelletto (nous), di Dio-Uno – ma era anche convinto che le anime singole fossero parti dell’anima del mondo e che anzi l’anima del mondo fosse reperibile in ogni luogo.

(T. Bevilacqua [che è meglio!]




…Ragion per cui mi ammira e adora, dicevo poco sopra e non certo sulla Luna, il Dèmone e non solo la ‘bestia’ che lo divora, anzi il suo Genio incompreso il solo e sano carburante disperso di codesta misera (e terrena) infiammata… appestata sventura.

 

Cantare  gesta e lodi di odierni meccanizzati paladini, ovvero, civilizzati pupi marionette & automi, è per ‘noi’ sacrosanto dovere d’artigiani perseguitati, come fosse una segreta preghiera senza neppur il diritto alla Cena; una eterna Odissea senza Nessuno farvi ritorno; un sermone rivolto ad una invisibile ‘musa’ con la sola  presenza d’un ‘ombra’ omaggiata… e in futuro da Oscar proiettata alla parete della Caverna; un ode mannara alla Luna e alla notte che come un tempo la illumina oscurata da un inatteso guasto tecnico; ogni suono richiamo ululato: un Genio qual sol condimento sfuggito alla mannaia del loro ardire… e posto in più sano nutrimento dal Verso da cui nata… la caccia di cotal mirabile Pensiero.




L’occhio che invisibile ci ispira e comanda è l’intero Genio della Natura!

 

L’altro, neppure lo nominiamo, in difetto di sana duratura o visibile intelligenza, semmai ne ravviviamo le artificiose gesta meccanizzate all’universale Teatro recitate, il Genio e l’oracolo ringraziano e suggeriscono punizione divina!

 

In segreto Loco più elevato della Luna!

 

La Santa verità esposta al ritardo di cui ogni Ragion odierna prospera nel meccanizzato miracolo….   

 

 Un sermone senza Volta e cupola ad illuminare il nostro e loro filo conduttore nell’ardire di tale alchemico mestiere; ovvero, tramutare lo sterco della lor conquista in oro in laude all’intera Natura!

 

Di certo una Cena più appetitosa...


(Prosegue con i meccanici...)  








 

giovedì 3 agosto 2023

IL BOSCO & L'UOMO











Precedenti capitoli 


sull'identità della 


Natura nella lotta 


degli Elementi  


Prosegue con il... 


Post completo  


&  la Verità 







(dedicata ad... 


Alexei Navalny)






 .


... Ma a questo punto, caro lettore, devo interrompere il precedente racconto e spiegare alcune cose che ti renderanno più agevole la comprensione del tutto. 

 

Sono costretto a farlo, perché il tempo che mi resta per completare la storia di quello che mi è successo quando ero nella camicia di forza è limitato. Fra non molto, anzi fra pochissimo tempo, mi condurranno fuori, i bulli hanno deciso la triste sorte. Del resto, anche se potessi disporre di mille vite, non potrei mai ricostruire nei dettagli quelle esperienze.

 

Pertanto, debbo accorciare il racconto...

 

Voglio dire innanzitutto che Bergson ha ragione: la vita non si può descrivere in termini puramente razionali. Come ha detto Confucio tanto tempo fa:

 

‘Se della vita conosciamo così poco, che cosa possiamo sapere della morte?’.




 Proprio così, visto che non riusciamo a descrivere l’esistenza in termini razionali. La conosciamo ‘fenomenicamente’, allo stesso modo in cui un selvaggio può conoscere una mano, ma non sappiamo nulla della sua essenza noumenica, nulla della natura ultima della vita.

 

Io affermo - e tu, lettore, sai che ho l’autorità per farlo - che la materia altro non è che illusione…

 

...La vita è molto di più che semplice e rozza materia chimica, che nelle sue fluttuazioni assume quelle forme elevate che ci sono note. La vita persiste, passando come un filo di fuoco attraverso tutte le forme prese dalla materia.

 

Lo so!

 

Io sono la vita...




Sono passato per diecimila generazioni, ho vissuto per milioni di anni, ho posseduto numerosi corpi.

 

Io, che ho posseduto tali corpi, esisto ancora, sono la vita, sono la favilla mai spenta che tuttora divampa, colmando di meraviglia la faccia del Tempo, sempre padrone della mia volontà, sempre sfogando le mie passioni su quei rozzi grumi di materia che chiamiamo corpi e che io ho fuggevolmente abitato.

 

Guardate: questo dito, così sensibile, così delicato nelle sue molteplici abilità, fermo e forte a sufficienza per flettersi, piegarsi o irrigidirsi per mezzo di leve straordinarie, ebbene questo dito non sono io.

 

…Mozzatelo...

 

IO CONTINUERO’ A VIVERE!

 

E’ il corpo ad essere mutilato, non io.




Lo spirito, che coincide con il mio io, resta intatto

 

...MOLTO BENE...

 

E ora tagliatemi tutte le dita (voi ne siete capaci, lo sappiamo..).

 

IO RESTO ‘IO’.

 

LO SPIRITO RIMANE INTEGRO.

 

Tagliatemi tutte e due le mani, tutte e due le braccia (lo avete già fatto per secoli...) all’altezza dell’attaccatura delle spalle, tagliatemi (pure) le gambe all’altezza dei fianchi…

 

ED IO SOPPRAVVIVERO!

 

Indomito e indistruttibile...




FORSE CHE VOI PENSATE che queste mutilazioni, queste sottrazioni di carne, tolgono qualcosa al mio io?

 

CERTAMENTE NO!

 

Radetemi i capelli a zero, toglietemi a rasoiate le labbra, il naso, le orecchie (e ridete mentre lo fate, vi do’ questo umile consiglio),sì, cavatemi gli occhi fino alla radice: entro quel teschio informe attaccato a un tronco mutilato e mozzo ancora vive una cellula di carne chimica che è il mio io intatto, integro...

 

PIU’ FORTE DI PRIMA...

 

 MA IL CUORE BATTE ANCORA (non lo sentite....)!

 

Molto bene, strappatemelo…

 

Meglio ancora, infilate ciò che resta della mia carne in una macchina provvista di mille lame, fatene brandelli ed io…


…NON CAPITE?!




IO, vale a dire lo SPIRITO, IL MISTERO, IL FUOCO VITALE, la mia stessa vita,


RESTERANNO LIBERI.

 

IO NON SONO PERITO!

 

IO SONO LA VITA!

 

(J. London, Il Vagabondo delle stelle)

 

 



L’uomo nel nostro secolo si è sentito padrone della Natura ha creduto ciecamente nella scienza e nelle sue capacità di mutare il mondo. Poi si è accorto che queste capacità demiurgiche non le aveva e che in genere la nostra società ha adoperato male sia le scoperte della scienza che della tecnologia.






 

 (L’approccio scientifico; IN MERITO ALL'ARGOMENTO E  


PER ULTERIORI APPROFONDIMENTI SI CONSIGLIA


LETTURA SPECIFICA IN  "NATURE COMMUNICATIONS" )


 

Se la foresta è in grado di fornire elementi chiari ed evidenti, a essi occorre che i forestali facciano riferimento. Ciò significa che la foresta non può essere piegata ai voleri e ai desideri dell’uomo. Anche se, dal tempo di Cartesio in poi, l’umanesimo moderno, scientemente o meno poco importa, lo ha sistematicamente ignorato.

 

Bisogna trattare le realtà collegandole alle idee, e queste a loro volta alla tecnica, per poi ritornare ai princìpi. Infatti, l’essenza delle cose si fonda sui princìpi. La supervalutazione della tecnica, il tecnicismo, tanto in auge in campo forestale, è manifestamente un errore. La tecnica viene dopo i princìpi, ed è certo più forte e ha maggiore compiutezza di questi, ma la ricerca che procede allontanandosi dai princìpi a lungo andare non paga.

 

Per elaborare un nuovo progetto forestale è necessario abbandonare anacronistici quanto inutili schematismi. Non è difficile prevedere che in un prossimo futuro prevarranno forme selvicolturali estremamente raffinate e tese alla valorizzazione anche degli aspetti estetici e culturali dell’entità foresta.




In definitiva, si tenderà verso una selvicoltura basata sulla lettura della foresta e sull’applicazione della sapienza forestale. Il gesto colturale dovrà essere espressione di creatività e di responsabilità. Saper leggere la biocenosi, saper comprendere la sintomatologia che essa manifesta, costituisce un elemento che porta da un lato allo sviluppo delle scienze forestali e al progresso della conoscenza, e dall’altro a un rapporto uomo-foresta ottimale.

 

La foresta attuale, quella coltivata, è una manifestazione della cultura e in quanto tale ha un suo posto naturale nell’esperienza umana. Il forestale deve saperne decodificare il suo modo espressivo per poi ricomporlo in linguaggio umano: cioè operare di conseguenza. Bisogna guardare alla foresta con senso di rispetto, cioè con un sentimento che non può essere, come ritengono alcuni, privilegio solo e soltanto dei forestali perché, invece, appartiene a tutti ed è espressione dei profondi mutamenti avvenuti nel rapporto uomo-natura.




 E ciò dovrebbe essere comprensibile, e quindi accettabile da parte di tutti, qualora si abbia la consapevolezza che il rispetto e la cura per sé stesso presuppone e implica per l’uomo il rispetto e la cura per tutte le altre entità: biologiche e non. Nella fattispecie, cura e rispetto tesi a garantire alla fo resta la funzionalità e la continuità nel tempo e nello spazio, difendendola anche, e soprattutto, dal fuoco.

 

Gli incendi boschivi, oggigiorno, costituiscono il problema dei problemi. È semplicistico ricondurre questa situazione a soli motivi interni o a sole mutazioni sociali e tecnologiche esterne. Per risolvere il problema occorre agire in profondità. Promuovere cultura. La cosa non è facile: da un lato, presuppone chiarezza di idee, coerenza e rigore logico; dall’altro implica la volontà di percorrere nuovi sentieri. La foresta si salva se la cultura della prevenzione degli incendi si afferma. Diviene patrimonio di tutti. Se cioè la foresta sta al centro e non alla periferia dell’interesse della società. A tal fine è necessario favorire una «maturazione culturale» che prenda in considerazione la foresta come valore in sé. Bisogna conferire alla foresta una nuova dimensione: la dimensione culturale. Appunto, la cultura della foresta. 


(ACCADEMIA ITALIANA DELLE SCIENZE FORESTALI)






(La tavola rotonda) 

 

‘Il bosco e l’uomo’, una tavola rotonda, un momento per discutere.

 

Mi propongo semplicemente di contribuire al dibattito evidenziando un aspetto del tema ed esponendo il mio punto di vista.

 

Il bosco come componente fondamentale dell’ecosistema da cui dipende la nostra esistenza ed il tremendo impatto dell’uomo sulle funzionalità e gli equilibri dell’ecosistema terra, configurano il livello planetario della problematica su cui è urgente discutere, la particolare importanza dei boschi per l’ambiente in Italia, la sostanziale deriva nel governo delle interazioni tra uomo e bosco e la continua perdita di rilievo delle scienze forestali nel governo dell’ambiente, configurano uno specifico livello nazionale del problema.

 

Prima il bosco poi l’uomo. 


(R. Scotti)




(La formazione Forestale) 

 

‘L’insegnamento forestale reagisce lentamente alle forze di mutamento sociale. In nome dell’ecologia, da molte parti vengono contestate le pratiche della selvicoltura e dell’assestamento forestale tradizionalmente impartite nei corsi universitari’.

 

È questa l’opinione espressa da Frederick Gilbert (1994), dell’Università della Columbia Britannica del Nord (Canada).

 

Egli osserva che…

 

‘... Le discussioni sulla gestione integrata delle risorse forestali abbondano ma non si perviene che a dei ritocchi superficiali dei programmi restando sostanzialmente fedeli all’insegnamento tradizionale e resistendo alla necessità di adottare una nuova filosofia della formazione forestale’.

 

Ma cosa si intende per ‘nuova filosofia della formazione forestale?’

 

Su quali principi essa si fonda?




 Che necessità vi è di cambiare e verso quale direzione orientare l’insegnamento forestale?

 

La risposta a queste domande deriva dall’analisi di alcuni fatti che sono sotto gli occhi di tutti e che mostrano come la necessità di animare un dibattito – sia nel mondo professionale che in quello della formazione – sia sentita a livello internazionale.

 

La società ha ormai acquisito consapevolezza del ruolo di interesse pubblico svolto dalle foreste – come sottolinea Ciancio (1988) – tuttavia, Giau (1992) fa osservare che “l’accresciuta considerazione data alle funzioni non monetizzabili ha avuto un effetto indesiderato: quello di relegare i forestali in un ruolo di secondo piano nella gestione”.

 

Secondo L. Roche (1990), dell’Università del Galles, Bangor, (UK),

 

‘... il mondo contemporaneo non si aspetta nulla di preciso dal forestale anche perché lo vede ancora come un tagliaboschi’.




Questa è l’immagine che i mass media diffondono e quella che la gente di città conosce. In qualche caso, l’interesse per la botanica o per la zoologia o per la chimica salva – per così dire – l’anima del forestale, ma non è sufficiente a cancellare il ‘peccato originale’ di essere stato formato da ‘tagliaboschi’.

 

B. P. Dancik (1990) dell’Università dell’Alberta, sottolinea che…

 

‘...i forestali rischiano di vedersi sottrarre la responsabilità di gestire le risorse naturali... prima di tutto perché hanno perso la loro credibilità presso un pubblico sempre più informato sui problemi delle foreste, poi perché hanno raramente mostrato la loro attitudine a gestire le foreste per scopi diversi dalla produzione legnosa’.




Dalle varie opinioni emerge, dunque, la necessità di identificare, nell’ambito delle attività forestali, non soltanto delle soluzioni sostenibili ecologicamente ed economicamente ma anche socialmente riconoscibili e accettabili. Ma per fare ciò è necessario rivedere la formazione culturale del forestale che viene immesso oggi nel mondo del lavoro ed esaminare criticamente l’impostazione attuale dei programmi e dei metodi di insegnamento.

 

L’insegnamento forestale del futuro ha bisogno non solo di guardare verso gli ecosistemi, anche a livello planetario, ma di adottare una visione integrata tra le scienze biofisiche e quelle sociali. In sostanza, lo scopo dei programmi dovrebbe essere quello di formare dei professionisti capaci di pensare e di risolvere dei problemi e non dei semplici biotecnocrati.


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