CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

mercoledì 27 febbraio 2013

IL PIONIERE (Jim Bridger)







































Precedente capitolo:

John Muir

Prosegue in:

il pioniere (la stazione di ristoro) (2)








James Bridger nacque nel 1804 a Richmond, in Virginia, ma quando
era ancora bambino la sua famiglia si trasferì nei dintorni di St. Lo-
uis dove, nel 1822, venne a sapere che William Ashley stava cercan-
do un centinaio di 'uomini intraprendenti per risalire il fiume Misso-
uri  fino alla sorgente.
Il viaggio sarebbe durato uno, due o tre anni'.
Nonostante Bridger avesse solo diciotto anni, aveva già lavorato co-
me fabbro; al socio Ashley, Andrew Henry, lo sguardo di quel  giova-
notto alto piacque così tanto che fu subito arruolato.




Thomas Fitzpatrick, Jedediah Smith, Jim Clyman e Bill Sublette, tut-
ti uomini destinati a diventare famosi 'montanari'.
Alla foce dello Yellowstone, nel cuore della terra dei castori, costrui-
rono Fort Henry, e Jim Bridger si trovò a trascinare pesanti trappo-
le di ferro per tutta la montagna.
Imparò che un vero cacciatore di castori deve guadare le acque
ghiacciate del fiume per chilometri per non lasciar traccia del suo
odore e che l'esca migliore è un fascio di ramoscelli unti con l'olio
estratto da una ghiandola del castoro.




Imparò che i Piedi Neri reclamavano la proprietà della terra dei
castori e facevano del loro meglio per uccidere tutti gli intrusi.
Scoprì che le tribù un giorno potevano essere amiche e il giorno
dopo nemiche e dopo il primo scontro con gli indiani Arickaree
capì che nessun uomo bianco poteva sopravvivere in quella ter-
ra ostile senza sapere tutto ciò che gli indiani sapevano, se non
di più.




Nei primi due anni passati con i cacciatori, Jim Bridger studiò
le abitudini degli indiani proprio come gli uomini bianchi studia-
vano i libri.
Imparò a interpretare il significato di una foglia orientata in un
certo modo, di un ramoscello spezzato e del volo improvviso di
 uno stormo di uccelli.
Si concentrò sulla terra, sui rilievi, sulle vallate, sui corsi d'ac-
qua e sulle foreste.
Gli esploratori che viaggiavano più tardi con lui lo descrissero
come un atlante ambulante delle Montagne Rocciose.




'Tutto il West era inciso nella sua mente'
disse il generale Grenville Dodge...
'e il suo senso dell'orientamento s'era così affinato che riusciva
a capire qual era la strada giusta prima ancora di vederla'.




Nell'inverno 1824-25, Bridger rimase bloccato insieme ad altri
compagni in un canyon sul fiume Bear.
Nessuno capiva in quale direzione scorresse il fiume, se le sue
rapide turbolente portassero verso nord, est, sud o ovest.
Tali quesiti geografici affascinavano Bridger che decise di esplo-
rare il corso d'acqua.
Non ancora ventunenne, si mise al lavoro per costruire una piro-
ga inaffondabile con tronchi di salice e pelle di montone, il tutto
 sigillato con del sego.




Con difficoltà riuscì a navigare per il primo tratto del canyon,
poi raggiunse un punto in cui le acque erano più calme e avvi-
stò un lago in lontananza, provando così che il fiume Bear
scorreva verso sud e, allo stesso tempo, facendo un'altra im-
portante scoperta: il Grande Lago Salato.
Insieme ad altri montanari, Bridger stabilì quale doveva esse-
re il ciclo della produzione delle pellicce.




In autunno i cacciatori si dividevano in gruppi che si dirigevano
ognuno verso uno dei territori di caccia preferiti dagli indiani e
quando arrivava l'inverno si riunivano tutti in punto prestabilito,
 dove allestivano l'accampamento.
In primavera, poi, riprendevano a cacciare e in estate si riuni-
vano nuovamente.
All'inizio gli incontri servivano per consegnare le pellicce accu-
mulate durante l'anno e spedirle a St. Louis. Man mano che




passava il tempo, centinaia di indiani si unirono al commercio
delle pellicce e attorno al 1830 le riunioni annuali diventarono
delle vere feste con gare di tiro a segno, corse di cavalli, bi-
sche e ragazze indiane da corteggiare (la cosa non durò a lun-
go).
Nel 1830 Bridger e quattro suoi compagni unirono i loro rispar-
 mi, assunsero dei dipendenti e fondarono la 'Rocky Mountain
 Fur Company'.




Speravano di diventare ricchi come Ashley & Henry, ma i
guai li attendevano dietro l'angolo.
...Finite le aggressioni e abbandonati i sogni di grandezza,
Bridger tornò a godersi la vita.
Sposò la figlia di un capo indiano Flathead e fece un viaggio
a St. Louis per rivedere un po' di civiltà.
Fu in quell'occasione che incontrò un eccentrico nobil-uomo
scozzese, William Drummond Stewart, il quale rimase affa-
scinato da quell'onesto montanaro sicuro di sé.




Anche Bridger rimase colpito da Stewart, che trovò un per-
fetto credulone per le storie che inventava e un eccellente
vittima dei suoi scherzi.
Jim Bridger, però non aveva nessuna intenzione di tornare al
mondo civile. Accortosi che sempre più gente emigrava ver-
so le terre dell'Oregon, giunse alla conclusione che avrebbe
potuto fare affari d'oro aprendo stazioni di ristoro lungo la
strada percorsa da carovane, dove la gente avrebbe potuto
riposare, rifornirsi di cibo, sistemare gli zoccoli ai cavalli e
riparare tende e carri.......














martedì 26 febbraio 2013

DAL DIARIO DELL' 'ITALIA' (3)










L'evento

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Mazzini: 'io non sono Nobile' (un varco per l'Oriente)

Prosegue in:

Dal diario dell' 'Italia' (4) 






Dal diario di Umberto Nobile


Partendo dall'Italia per la spedizione regolai le mie cose personali
come se non dovessi più tornarvi.
Lasciato dietro di me ogni pensiero, ogni cura personale, non vis-
si da quel momento che per la mia impresa e in essa concentrai il
mio spirito sicché ogni particolare delle sue vicende mi si inflisse
profondamente nella mente.




Tuttavia, dovendo qui riassumere, come mi par necessario di fare,
non potrei affidarmi alla memoria perché alla distanza di 40 anni,
non riuscirei mai a narrarle con la vivezza e precisione con cui lo
feci appena tornato in Italia.
Sono, dunque, costretto a rifarmi, nell'esposizione, a quanto scris-
si in quel tempo.




La spedizione fu effettuata nell'aprile e maggio del 928.
In quei mesi le condizioni meteorologiche in Europa e nelle re-
gioni artiche furono pessime.
Mentre con la nostra aeronave ci trovavamo già in Germania,
i meteorologi sovietici, che avevano speciali metodi statisti-
ci per pronosticare il tempo a lunga scadenza, mi avevano fat-
to




avvertire che in quella primavera nella regione polare avrem-
mo trovato condizioni atmosferiche assolutamente sfavorevo-
li.
Essi, perciò, consigliavano di rinviare la spedizione, ma l'avver-
timento era giunto troppo tardi. La spedizione era già in pieno
corso.




Partimmo da Milano nella notte tra il 14 e 15 aprile, alle 1.55
diretti a Stolp sul Mar Baltico.
Nell'attraversare le Alpi carsiche una violenta raffica di vento
spezzò una chiglia dell'aeronave. Più avanti sui monti Sudeti,
fummo investiti in pieno da un fronte di temporali.
Volavamo immersi nella nebbia sicché il terreno si vedeva a
stento.




All'improvviso vi fu una fitta grandinata che corrose il lembo
delle eliche. Fra la grandine guizzarono i primi lampi.
Il temporale ci circondò da ogni lato.
Le scariche elettriche si succedevano l'una all'altra, a sinistra,
avanti, dietro di noi.
In ogni istante un fulmine avrebbe potuto colpire l'aeronave
che, con i suoi 19.000 metri cubi di idrogeno, sarebbe preci-
pitata in fiamme.




Per ridurre il pericolo ordinai di volare basso (cosa che ci
riusciva assai bene...), a 100 o 150 metri dal suolo.
Navigammo così attraverso le montagne, in mezzo al tem-
porale, ora salendo per superare un rialzo del terreno, ora
discendendo per riavvicinarci al suolo, e deviando continua-
mente per non urtare contro le creste delle colline che all'-
improvviso ci comparivano davanti fra la nebbia.




Fu una corsa estremamente pericolosa, fatta a fior di terra,
fra un continuo lampeggiare e lo scoppiare lacerante dei tuo-
ni.
Una prova assai dura ci attende.
Alle 7.50 del 16 aprile discendemmo sul campo di Jesseritz,
 aiutati nella manovra dai soldati tedeschi fatti venire dal-
la guarnigione di Stolp.




Ci fermammo alcuni giorni a Stolp per riparare i danni avuti
durante il volo, ed anche per aspettare che la 'Città di Mila-
no', la nave che la Marina italiana aveva messo a nostra di-
sposizione e che portava allo Svalbard i materiali di riforni-
mento, giungesse alla baia del Re.
Essa era ferma a Tromso e tuttora non salpava perché la
baia era completamente ghiacciata.




Rimessa in ordine l'aeronave, mi recai a Berlino per essere
presentato al maresciallo Hinderburg, presidente del Reich,
e per incontrarmi con mia moglie che, insieme con la nostra
bambina, era giunta da Roma.
(U. Nobile, La Tenda rossa)










domenica 24 febbraio 2013

STREGONI (con la chitarra) (3)











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Carlos Castaneda (2)

Prosegue in:

Stregoni & asimmetrie (...non sono Mozart..) (4)







Sono state avanzate molte proposte riguardo alle possibili 'radici
africane' della musica chiamata blues.
I blues in quanto letteratura orale - sebbene studiati da diversi a-
utori riguardo alla loro funzione di cronaca sociale e storica, al lo-
ro valore letterario e alle loro strutture compositive - sono rima-
sti piuttosto negletti riguardo al loro retroterra africano in termi-
ni di contenuti, fraseologia e psicologia.
Finora il retroterra africano del blues in quanto letteratura orale
è stato studiato soprattutto rispetto a un ambito specifico della...
'magia' e del 'voodoo', ivi compresa la questione della diffusa pre-
senza del 'diavolo'.




Una tesi basilare di Finn e Spencer che il blues in quanto 'musica
del diavolo', come veniva popolarmente chiamata, dimostra un
processo di reinterpretazione delle figure religiose di 'Esù e Leg-
ba', rispettivamente 'yoruba e fo'.
Il bluesman è visto come un sacerdote 'voodoo' camuffato ed
...anche come uno 'sciamano'. Per quanto affascinanti possano
essere queste congetture, la mia personale esperienza sul cam-
po tra i Fo in Togo e Dahomey e tra gli Yoruba in Nigeria mi ha
insegnato a trattenermi di fronte al piacere delle associazioni
 a ruota libera.




Nella tradizione, 'Esù e Legba' non hanno le connotazioni nega-
tive che ha il concetto di 'diavolo'.
Le sculture di fango Legba che si possono rinvenire nei cortili di
molte abitazioni nel Dahomey e nel Togo hanno la funzione di met-
tere in guardia i residenti, per mezzo dei sogni, contro ogni peri-
colo imminente di malattia, e perfino di morte prematura, causa-
to da stregoneria.
...Probabilmente nessuno sosterrebbe che tutte quelle tradizioni
religiose africane variamente stigmatizzate dai cristiani come 'co-
se del diavolo' debbano essere sopravvissute in fondo alla mente
dei cantanti blues.




Ma allora perché prendere proprio 'Esù e Legba' che incorpora-
no idee religiose provenienti solo da un'area culturale delimita-
ta dell'Africa occidentale?
Le idee religiose 'yoruba e fo' hanno avuto sicuramente una evi-
dente estensione nei Caraibi ed in Brasile ma scarsa presenza
negli Stati Uniti del XIX secolo.
Persino in Louisiana il concetto di 'vodu', importato insieme agli
Haitiani, venne presto reinterpretato e trasformato in qualcosa
di molto differente, chiamato popolarmente 'voodoo'.
Il 'diavolo' si badi bene... è un'antica figura religiosa appartenen-
te al Mediterraneo e al Medio Oriente, molto importante nel Cri-
stianesimo...e nell'Islam....




E' certamente possibile scoprire nelle liriche blues parallelismi
con stili di pensiero africani.
Essi si ritrovano nella struttura e nel modellarsi delle idee simbo-
liche, in certe preferenze tematiche e, contrariamente a quanto
sostenuto in molta letteratura, nella 'non' preoccupazione del
blues nei confronti della religione.
'Dove andrò quando morirò, nessuno può dirlo', così Son Hou-
se esprimeva nel 1930 il suo rifiuto delle speranze della gente
per bene in una vita ultraterrena. House aveva abbandonato la
sua predicazione all'incirca nel 1927 per diventare un cantante
blues, sebbene rimanesse sotto una certa influenza di creden-
ze cristiane.




Robert Johnson (911/938) è stato indicato come un bluesman
i cui testi 'alludevano o si riferivano direttamente a temi come
la stregoneria e/o il soprannaturale in circa i due terzi delle sue
canzoni registrate'.
Era così perché l'ansia, i sensi di colpa e la paura della vendet-
ta degli altri attraverso i 'malefici' furono psicologicamente de-
terminanti nella sua vita breve ed errabonda. Cominciarono a
spargersi credenze popolari che avesse 'fatto un patto con il
diavolo'.




In realtà il 'patto con il diavolo', preferibilemte presso un qual-
che incrocio a mezzanotte, è un tema ben noto dell'occulto, che
attraverso la letteratura orale europea si può fare risalire fino
al Romanticismo ed olte, è proprio delle parallele concezioni afri-
cane evolversi in modo differente e non mostrare concetti bipo-
lari estremizzati come quello del 'diavolo' contrapposto a 'Dio'.
In Africa l'idea che un musicista faccia un patto con un perico-
loso essere spirituale in cambio di capacità musicali straordina-
rie è ben documentata.
E' perfino comune credere che nessuno possa sviluppare abili-
tà straordinarie o avere grande fama senza una qualche 'medi-
cina' o un rapporto segreto con il soprannaturale.




...Mentre i concetti di 'blue', 'blue devil' e così via erano utiliz-
zati nella lingua inglese almeno fin dal tardo XVIII secolo, con
riferimento a specifici stati d'animo, non si conosce chi abbia
applicato per primo il termine 'blues' al nuovo genere e se si
trattasse di persona interna o esterna alla comunità.
I testi dei blues, con le loro lamentele e il loro intenso linguag-
gio simbolico, suonano a volte come citazioni dal diario di un
paziente affetto o reduce da depressione clinica. Per motivi
psicologici, quindi non avrebbero mai potuto emergere nell'-
atmosfera sociale 'benestante' e 'rilassata' di New Orleans,




né probabilmente nel XVIII secolo prima dello sviluppo del-
le piantagioni intensive di cotone.
Come la Louisiana rurale, anche la società di New Orleans
era altamente stratificata, ma si trattava di una stratifi-
cazione articolata che in fondo permetteva una qualche
mobilità sociale, mentre la società delle piantagioni era
essenzialmente bipolare.








mercoledì 20 febbraio 2013

LEONID KULIK (il padre di Tunguska)










L'evento...

Precedenti capitoli:

Tunguska &

ALH84001 (da dove viene la vita?) &

ALH84001  (2)









Leonid Kulik è la figura chiave nella vicenda di Tunguska.
Se non fosse stato per lui, per quella che veniva definita la
sua testardaggine, forse oggi non sapremmo neanche che
in quella zona, nel 1908, un corpo cosmico è esploso ab-
battendo 2000 chilometri quadrati di foresta.
Fu lui a trovare il luogo dell'esplosione.
Trovò il sito in cui l'evento si era verificato, affrontando i
pericoli della taiga e le critiche, feroci, da parte dei colle-
ghi. Nessuno allora credeva alla storia dell'impatto cosmi-
co.




Leonid A. Kulik era nato, in Estonia, nel 1883.
Aveva studiato a San Pietroburgo, all'Istituto forestale, e
si era poi laureato in fisica e matematica all'Università di
Kazan.
Rischiò la vita più volte in Siberia, non aveva paura di con-
trastare l'establishment scientifico sovietico.
Molti dei suoi colleghi pensavano che stesse inseguendo
un fantasma.
Lui sapeva di aver ragione.




Nel '21, a San Pietroburgo, che da poco aveva cambiato
nome per divenire Pietrogrado, il Museo lo incaricò di rac-
cogliere tutto il materiale possibile sui meteoriti eventual-
mente caduti sul territorio sovietico.
Nel 1921, comunque, nessuno metteva più in discussione
il fatto che dal cosmo giungono pericolosi proiettili, e che
la Terra, come qualsiasi altro pianeta, costituisce un ber-
saglio.




Nessuno evento di rilievo però aveva ancora portato l'evi-
denza sotto gli occhi di tutti.
Non si aveva notizia di un incontro tanto ravvicinato da
dimostrare l'enorme capacità distruttiva di un corpo co-
smico di una certa entità lanciato contro la Terra a tutta
velocità.
Kulik, che ne era consapevole più degli altri, sentiva, in
questa sua ricerca, di non dover trascurare nulla; l'incre-
dulità del passato aveva fatto sì che tanti episodi accadu-
ti fossero stati ricondotti ad altre cause; non erano stati




compresi, erano stati trascurati e dimenticati.
Controllava pazientemente ogni rapporto, ogni testimo-
nianza e perfino ogni diceria proveniente dalle più remo-
te regioni del territorio dell'Unione Sovietica. Fu questa
sua fanatica meticolosità a condurlo a Tunguska.
Mentre raccoglieva materiali per la sua ricerca sui meteo-
riti in Russia, un collega gli diede un vecchio calendario.
Sul resto di una pagina qualcuno, anni prima, aveva incol-
lato il ritaglio di un giornale siberiano, il 'Sibirskaja'.




'Nel bel mezzo del giugno 1908', recitava il trafiletto,
'si dice che un grosso meteorite sia caduto nella regione
di Tomsk, poco distante dal nodo ferroviario di Filimo-
novo.
La caduta sembra sia stata accompagnata da un immenso
boato udito fino a 40 verste (poco più di 40 Km) di distan-
za. I passeggeri della Transiberiana si sono terribilmente
spaventati. Il macchinista ha fermato il treno facendo scen-
dere tutti.




Aveva avvertito le rotaie muoversi ed era convinto che si
trattasse di un terremoto. Ma a poca distanza dalle rotaie
giaceva, quasi completamente interrato, un grosso sasso
infuocato...'. 
Dell'intero resoconto giornalistico, l'unica cosa che risultò
poi vera era che il treno si era fermato e i passeggeri era-
no scesi perché il macchinista aveva avvertito forti scosse
e un tremendo boato.
Ma Kulik non buttava mai via niente, doveva accertare
cosa ci fosse di concreto in quella storia e si mise dunque
a scartabellare la stampa regionale dell'epoca.




Cominciò a inciampare in tante indicazioni curiose.
Riguardavano tutte l'anno 1908. Un giornale di Irkutsk, a
 mille chilometri da Tunguska, raccontava che una matti-
na di giugno del 1908 nella cittadina di Kirensk, al di là del
lago Baikal, alcuni contadini avevano visto passare nel cie-
lo 'un corpo troppo splendente per poterlo guardare a oc-
chio nudo, circondato da una luce azzurrina'.
Aveva forma cilindrica e scendeva verticalmente - diceva
il giornale - lasciandosi dietro una spessa nuvola di fumo
dentro la quale si vedeva una lingua di fuoco.




Tutti gli edifici del villaggio avevano tremato e gli abitanti
si erano riversati nelle strade in preda al panico, convinti
che fosse giunta la fine del mondo.
Il corrispondente di Kirensk per il 'Sibir' si era inoltrato
nella foresta per circa due chilometri, e lì aveva sentito
dei colpi, simili a spari, in rapida successione.
Il direttore dell'Osservatorio meteorologico della stessa
città, Kulesh, vide che rullo del suo barografo vibrava
violentemente.
Erano le 7.15 del mattino....
(N. Riccobono, Tunguska)












martedì 19 febbraio 2013

MAZZINI: 'IO NON SONO NOBILE' (un varco per l'Oriente...) (2)









































Precedenti capitoli:

gli orrori dei ghiacci e delle tenebre

con Pietro Autier sulle orme del Payer

Mazzini: 'io non sono Nobile' (un varco per l'Oriente)










.....Dinanzi a una carta geografica....
del Circolo Polare Artico che pendeva grande come un arazzo,
tra i quadri, stava un busto bronzeo di Ronald Amundsen, un al-
tare.
Amundsen!
Quel mattino Fagerlien tornò ripetutamente a parlare di lui: che
cos'era tutto quello che il visitatore italiano andava raccontando
di marinai dalmati e delle fatiche dei suoi semidei di fronte alla
grandezza di questo personaggio unico?
Ed egli, il conquistatore del passaggio a nordovest, il primo al
Polo Sud, mentore del volo polare artico svolto insieme a No-
bile ed eroe norvegese, non aveva forse avuto proprio con l'Ita-
lia delle esperienze fatali?




L'archivio di Fagerlien - 'Qui guardi un po'; e qui...' - contene-
va anche i ritagli di giornale che documentavano gli orrendi at-
tacchi scagliati da Nobile all'Unico.
Dopo il volo congiunto al Polo, il generale italiano aveva cerca-
to di contestargli la gloria, si era infilato tra Amundsen e l'entu-
siasmo mondiale e aveva scritto dei pamphlet.




Anche se Nobile aveva costruito il dirigibile, il Norge, e Musso-
lini aveva sovvenzionato la spedizione, a che sarebbero valsi
tutti i mezzi senza un geniale organizzatore, senza Amundsen?
- Conosco la storia,
disse Mazzini.
E poi, quando due anni più tardi il generale, nel suo volo artico,
precipitò così malamente tra i ghiacci con l'Italia e l'avventura
sortì così pietosa fine, chi, se non Amundsen, avrebbe possedu-
to la nobiltà d'animo di decollare per andare in soccorso di un
nemico?




Dal giorno di quel volo - era il 18 giugno 1928 - Amundsen era
scomparso con cinque accompagnatori; sacrificatosi per un fana-
tico pluridecorato, un pazzo e incompetente...
Dopo un ultimo radiomessaggio dall'isola degli Orsi non si era
più sentito nulla.
Un galleggiante dell'apparecchio Latham rinvenuto sulle rive di
Spitsbergen era tutto ciò che era stato ritrovato.
- Io non sono Nobile,




disse Mazzini sottovoce in italiano alzandosi per accomiatarsi
dal proprio ospite. I suoi abiti bagnati dalla pioggia non si era-
no asciugati nemmeno durante la visita di cortesia.
Era tarda mattinata.
- Il mio nome è Josef Mazzini,
disse l'ospite....

(Certo io so bene, caro Mazzini, che non sei (come quel pallone 
gonfiato di) 'nobile', perché le tue costruzioni, o meglio, i tuoi 
viaggi polari, sono molto remunerativi e anche vantaggiosi, per 
non dire o usare altri termini offensivi per la tua spiccata ed a-
cuta sensibiltà, ...dicono...., scusami la metafora e ciao ...Maz-
zini....)

(C. Ransmayr, Gli orrori dei ghiacci e delle tenebre)











giovedì 14 febbraio 2013

JOHN MUIR




















































Precedente capitolo:

negli stessi anni (gli Stati da fare)

Prosegue in:

negli stessi anni un pioniere dell'ecologia: G. P. Marsh &

negli stessi anni un pioniere dell'ecologia: J. Muir

una notizia.....

Bob Kennedy jr e figlio arrestati davanti alla Casa Bianca 









....Seguendo la MonoTrail risaliamo la costa orientale del bacino fin
 quasi alla sommità, poi pieghiamo in direzione sud per una valletta
poco profonda che si estende fino al ciglio di Yosemite.
Qui a mezzogiorno ci accampiamo.
Dopo pranzo impaziente risalgo i pendii della conca e raggiungo la
cima del Crestone che si trova a ovest di Indian Canon. Qui mi si
para davanti uno dei più grandiosi panorami di monti che io abbia
mai visto.




Sotto i miei occhi si spalanca quasi tutto il bacino superiore del Mer-
ced, con le cupole sublimi, i canon, i pendii neri dei boschi e la gran-
diosa mostra di picchi innevati contro il cielo, un panorama in cui o-
gni singolo elemento è circonfuso di luce ed emana una bellezza che
penetra nella carne e nelle ossa come il calore del fuoco.
Sopra ogni cosa il sole; non un alito di vento a scompigliare la pen-
sosa quiete dell'ora. Mai mi sono trovato dinanzi a tanto imponente
spettacolo, a tanta illimitata profusione di sublime bellezza montana.




A chi non abbia almeno una volta ammirato un simile panorama con
i  propri occhi nessuna descrizione, per quanto elaborata, potrà co-
municare un'idea della grandiosità e spiritualità che da questa vedu-
ta emana.
In un empito di irrefrenabile entusiasmo urlo e gesticolo, con gran-
de meraviglia del San Bernardo Carlo che mi raggiunge di corsa
con uno sguardo di stupefatta preoccupazione assai comico a ve-
dersi e che mi fa tornare subito in me.




Allo spettacolo deve aver assistito anche un orso, giacché poco
più in là ne stano uno dal fitto del bosco. Deve essersi fatta un'-
idea ch'io sia un essere pericolosissimo, perché come mi vede si
dà a precipitosa fuga, rotolando nella foga sopra il groviglio degli
arbusti di 'Arctostaphilos'.
Carlo si tira indietro, le orecchie basse come fosse intimorito, e
non mi perde d'occhio, quasi si aspetti che io insegua l'animale e
spari, come nelle cacce cui partecipava ai suoi tempi.
Seguendo il crestone, che gradualmente scende verso Sud, giun-
go sull'orlo di quell'imminente salto di roccia che si leva tra Indian
Canon e le Yosemite Falls.




Qui all'improvviso la valle si spalanca davanti ai miei occhi in qua-
si tutta la sua estensione, le maestose pareti scolpite in infinita va-
rietà di cupole, frontoni, guglie, contrafforti e muraglie, tutte nel
sottofondo risonanti del rombo di tuono dell'acqua.
Il fondo pianeggiante della valle pare da quassù un giardino cura-
to, con prati solatii punteggiati qua e là di macchie di pini e quer-
ce; in mezzo fluisce maestoso il fiume della Misericordia, scintillan-
te sotto i raggi del sole.




Il grande Tissiack, detto altrimenti Half Dome, si leva nitido in mi-
rabili proporzioni, per quasi un miglio di altezza, alla testata della
valle, grandioso più di ogni altra formazione di roccia; costantemen-
te richiamato da cascate e prati e financo dalla schiera delle lonta-
ne montagne, dove pure corre, l'occhio vi indugia in devota ammi-
razione.
O magnifiche rocce, magnifiche nella vertiginosa verticalità e gran-
diosa architettura, forme dell'eternità. Da migliaia d'anni si levano
in cielo, esposte a piogga e neve, a gelo, terremoti, valanghe, pu-
re indossano ancora lo splendore della giovinezza.




Da qui proseguo verso ovest; il ciglio del precipizio è piuttosto ar-
rotondato e non è facile trovare un punto in cui sporgersi per os-
servare la parete sottostante in tutta la sua altezza.
Quando trovo una sporgenza adatta e mi ci arrampico e cauta-
mente mi rizzo in piedi: non posso trattenermi dal pensare per un
attimo che la roccia possa spaccarsi e precipitarmi di sotto; e quan-
to di sotto - tremila piedi e più!
Non temo un improvviso tremore delle membra, ché anzi su di es-
se sento di poter fare massimo affidamento. Il mio unico timore è




che ceda una lama di roccia, giacché il granito in più punti mostra
spaccature e fessure più o meno aperte, che corrono parallele al-
la faccia della parete.  
Ogni volta, ritiratomi da quei punti di osservazione entusiasta del-
la veduta, mi dico: 'Ora basta, non tornerò sul ciglio'.
Ma che può il consiglio della cautela di fronte allo spettacolo di
Yosemite?
Sedotto dall'incantesimo il corpo va dove più gli aggrada, mosso
da una volontà sulla quale apparentemente abbiamo ben poco po-
tere.




Dopo circa un miglio di questo memorabile percorso lungo il ci-
glio della valle raggiungo Yosemite Creek ammirando la grazia,
la leggerezza, la baldanza con cui coraggiosamente avanza nell'-
angusto letto verso il suo destino cantando il suo ultimo canto
montano: pochi passi ancora sul lucente granito, e via, un tuffo
di mezzo miglio in un ribollire di spuma lo porterà a dissolversi
nel Merced; ed è tutt'altro mondo laggiù, diverso il clima, diver-
si vegetazione e abitanti.




Uscendo dall'ultima forra il torrente scorre in un merletto di ra-
pide lungo lisci lastroni fino a una pozza quieta, quasi a prender
fiato e ricomporre le sue grigie acque agitate prima di affrontare
il gran salto; poi, lentamente tracimando oltre il bordo della poz-
za, si lancia per un pendio erboso via via acquistando velocità,
fin sull'orlo del terribile precipizio, e con sublime, fiduciosa disin-
voltura si getta nel ....vuoto.....
(John Muir, La mia Prima Estate sulla Sierra)