CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

domenica 28 luglio 2019

MATTEOTTI & L'AFFARE DEL PETROLIO (17)
































Precedenti capitoli:

Considerazioni filosofiche (16) 

Sull'amiko (nemico) amerikano e l'amato russo villano  (15/1)

Prosegue nell'affare...















...Del petrolio (18/1)
















& Progetti separatisti... (19)













& What shall it profit (?) (20)













Perché è stato ucciso Matteotti

‘La faccenda mi sembra davvero grave. Ma che si sono messi in testa di pubblicare? Dobbiamo stare attenti, perché questa storia potrebbe danneggiarci!’




È il 17 novembre 1941 quando il premier britannico Winston Churchill, allarmato, ordina ai membri del suo governo e agli agenti dei servizi segreti di Sua Maestà di stendere una coltre di silenzio sul caso Matteotti, il delitto politico avvenuto diciassette anni prima a Roma. Italia e Regno Unito sono in guerra da quasi un anno e mezzo. Si combatte in Libia. E le carte compromettenti che Churchill teme che vengano allo scoperto sono quelle rinvenute pochi mesi prima, nel marzo del 1941, nell’abitazione di uno dei sicari del deputato socialista  assassinato.

Si tratta di Amerigo Dumini, il quale dal 1934 lavora in Cirenaica per i servizi italiani, e probabilmente non solo per loro.

Con quei documenti si potrebbe assestare un colpo decisivo a Benito Mussolini e al suo regime, ma Churchill interviene inopinatamente per mettere tutto a tacere.

Perché?

Un favore personale al duce, suo grande amico, con il quale ha intrattenuto una fitta corrispondenza fino allo scoppio della guerra?

O paura che emergano anche responsabilità inglesi?




Torniamo indietro di diciassette anni e riprendiamo dall’inizio il filo di questa storia.

Il 10 giugno 1924 il deputato socialista Giacomo Matteotti viene sequestrato da un commando di squadristi, caricato su un’automobile, pestato a sangue, accoltellato e infine abbandonato, ormai privo di vita, in un bosco a venticinque chilometri da Roma, nella macchia della Quartarella, dove viene ritrovato più di due mesi dopo, il 16 agosto.

La notizia suscita una tale ondata di emozione e sdegno, in Italia e all’estero, da scuotere le stesse fondamenta su cui si sta formando il regime fascista. Il delitto è maturato in un crescendo di tensione politica e violenza. Il 6 aprile di quell’anno si sono svolte le nuove elezioni politiche, indette con l’obiettivo di rafforzare il governo presieduto da Mussolini. Lo schieramento liberal-fascista, appoggiato da monarchia, Confindustria, gerarchie militari e Vaticano, ha trionfato con quasi il 70 per cento dei voti contro il 30 per cento ottenuto dalle opposizioni di sinistra, che si sono presentate divise.

Grazie alla legge elettorale maggioritaria, la destra ha conquistato in parlamento 374 seggi su 535.




La vigilia è stata caratterizzata da numerose aggressioni nei confronti di esponenti della sinistra. Durante lo scrutinio, molti sono stati anche gli episodi di brogli.

Il 30 maggio Matteotti ha tenuto alla Camera un durissimo discorso contro Mussolini, chiedendo l’annullamento delle elezioni. E ha annunciato un secondo intervento, ancora più duro, per l’11 giugno. Ma lo hanno assassinato proprio il giorno prima, il 10.

Qualcuno sapeva che avrebbe detto cose molto imbarazzanti per il governo e ha ordinato che gli venisse tappata la bocca.

Per sempre.

Quando è stato rapito, sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, aveva con sé una borsa colma di documenti. Sparita insieme a lui. La chiave per decifrare il caso Matteotti è proprio in quel discorso mai pronunciato. Che cosa avrebbe potuto dire di tanto sconvolgente, il deputato socialista, da indurre qualcuno a ordinarne l’assassinio? Intorno al delitto e al suo movente, per molti decenni si sono accavallate diverse ricostruzioni e chiavi di lettura. Non si è mai giunti a una completa verità giudiziaria. Le inchieste della magistratura – ben tre nell’arco di un quarto di secolo (l’ultima risale al 1947) – individuano gli esecutori materiali: Amerigo Dumini e i suoi complici Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo. Tutti e cinque sono legati al Partito fascista e dipendono da Emilio De Bono (uno dei quadrumviri della marcia su Roma del 28 ottobre 1922), all’epoca del delitto capo della Pubblica sicurezza e della Milizia volontaria. Fanno parte di una sorta di squadrone della morte che chiamano ‘Ceka’, come la famigerata polizia politica sovietica (Čeka) specializzata in operazioni ‘sporche’.




Ma da chi viene impartito l’ordine di eliminare Matteotti?

Da Mussolini o da altri esponenti del regime?

E l’input è solo interno o qualche segnale viene lanciato anche da ambienti stranieri?

Insomma, quali oscure trame si celano dietro l’assassinio del più prestigioso e temuto esponente dell’opposizione?

L’opinione pubblica individua immediatamente in Mussolini il mandante del delitto. Anche perché diversi giornali sostengono la tesi di una sua responsabilità diretta. Una testata con più determinazione delle altre, il ‘Corriere della Sera’, e un suo cronista con più convinzione di tutti: si chiama Carlo Silvestri e all’epoca del delitto è vicino ai socialisti di Filippo Turati, ma in seguito, durante la Repubblica sociale, diventerà uno dei più ferventi sostenitori del duce e addirittura suo amico personale. Dopo la guerra, ammetterà di aver ingigantito le sue accuse contro Mussolini per fini di ‘convenienza politica’. Il comportamento di Mussolini non è proprio lineare. In un primo momento, con il cadavere di Matteotti ancora caldo, respinge sdegnosamente ogni accusa. Qualche mese dopo, il 3 gennaio 1925, in un famoso discorso pronunciato alla Camera, si assume l’intera responsabilità ‘politica, morale, storica’ di tutto quanto è accaduto prima e dopo le elezioni, del clima di intimidazione che le ha precedute e degli episodi di violenza che ne sono seguiti. Un discorso che preannuncia le ‘leggi fascistissime’ che di lì a poco porteranno al consolidamento del regime.




Successivamente, però, in diverse occasioni torna a proclamare la propria innocenza. Intervenendo di nuovo alla Camera a un anno esatto dall’assassinio, il 13 giugno 1925, dichiara: ‘Solo un nemico che da lunghe notti avesse pensato a qualcosa di diabolico contro di me poteva effettuare questo delitto che ci percuote di orrore e ci strappa grida di indignazione’. E poi, confidandosi con la sorella Edvige: ‘È una bufera che mi hanno scaraventato contro proprio quelli che avrebbero dovuto evitarla’. Insomma, un ‘cadavere gettato davanti ai miei piedi per farmi inciampare’, secondo le parole attribuite a Mussolini dal più autorevole storico del fascismo, Renzo De Felice.

Ma chi avrebbe dovuto evitare che il duce fosse investito da quella bufera?

Il riferimento è ad alcuni dei suoi stessi collaboratori, e fra i più stretti: il capo della sicurezza De Bono, il sottosegretario agli Interni Aldo Finzi e altri due alti gerarchi, Giovanni Marinelli e Cesare Rossi. Tutti e quattro legati da una comune appartenenza alla massoneria, quel filo invisibile che, sin dai tempi del Risorgimento, annoda gran parte delle relazioni segrete tra Roma e Londra. Molti credono all’innocenza di Mussolini. Persino alcuni dei più influenti e prestigiosi esponenti liberali dell’epoca. Personaggi come Giovanni Giolitti, Luigi Einaudi e Benedetto Croce. Proprio quest’ultimo, nel giugno del 1926, presenta al Senato un ordine del giorno a favore del duce. E dopo la scontata approvazione, dichiara entusiasta che si è trattato di un voto ‘prudente e patriottico’.




Guglielmo Salotti, allievo e collaboratore di De Felice, racconta che Nicola Bombacci, ex dirigente socialista che nel 1931 si avvicina al fascismo, aveva indagato a lungo sul delitto Matteotti, per giungere a questa conclusione: ‘Purtroppo gli imputati non sono qui. Magari, dopo essere stati manutengoli dei tedeschi, saranno oggi al servizio degli inglesi o meglio ancora degli americani’.

Le tangenti che Matteotti voleva denunciare

Mussolini e gli uomini a lui più vicini scaricano dunque la responsabilità del delitto sugli ambienti massonici che collegano il regime ai britannici. Ma quali legami possono mai esserci tra il delitto Matteotti e la Gran Bretagna?

Il 22 aprile 1924, meno di due mesi prima di essere assassinato, il deputato socialista arriva segretamente in Inghilterra. La sua permanenza a Londra, protetta dal più stretto riserbo, dura quattro giorni, durante i quali ha numerosi incontri con esponenti del Partito laburista, all’epoca al governo, e dirigenti sindacali. Il 26 aprile lascia il Regno Unito e sbarca in Francia, da dove poi rientra in Italia. Nonostante la segretezza del viaggio, uno dei suoi futuri esecutori, Albino Volpi, lo ha pedinato per tutto il tempo della sua permanenza in territorio francese. E Mussolini ha inviato un telegramma all’ambasciata italiana a Londra per avere informazioni sui suoi movimenti in terra inglese: quando è stato a Londra e quanto è durato il suo soggiorno, quali contatti ha avuto e perché, se ha incontrato anche membri del governo britannico ed esponenti di altre nazionalità.




A confermare il legame tra il delitto Matteotti e la Gran Bretagna arrivano oggi i risultati di lunghe ricerche condotte da due studiosi molto diversi tra loro ma che, seguendo lo stesso filo, sono giunti a un’identica conclusione. Il primo è lo storico Mauro Canali, docente all’Università di Camerino, che ha scavato negli archivi inglesi e americani. Il secondo è Benito Li Vigni, amico personale e stretto collaboratore di Enrico Mattei all’Eni, nonché per un lungo periodo responsabile dei servizi d’informazione dell’ente petrolifero italiano.

Secondo entrambi il legame sarebbe costituito dal petrolio, l’oro nero che nei primi decenni del Novecento stava diventando sempre più una risorsa strategica per i processi di industrializzazione delle grandi potenze, per la riconversione della loro forza militare e per i loro interessi geopolitici. Una risorsa preziosissima, per la quale gli stati erano (e sono ancora oggi) disposti a qualsiasi cosa.

È proprio in questo contesto che si situerebbe il delitto Matteotti: la guerra del petrolio combattuta fra Italia e Gran Bretagna, senza esclusione di colpi e attraverso l’uso di quinte colonne politiche, militari, diplomatiche e giornalistiche. A Londra Matteotti affronta con i laburisti un argomento molto imbarazzante per il regime. Questi lo mettono infatti al corrente delle tangenti che Arnaldo Mussolini, fratello del duce, e alcuni membri di Casa Savoia, hanno intascato per stipulare una convenzione tra il governo italiano e una società petrolifera americana, la Sinclair Oil. Non solo: Matteotti riceve anche documenti che provano quei maneggi. Ed è questo lo scandalo che il deputato socialista avrebbe voluto denunciare alla Camera l’11 giugno 1924, se il giorno prima non lo avessero fatto sparire insieme alle prove che aveva raccolto.




L’accordo segreto con gli americani colpiva gli interessi inglesi

Sullo sfondo del primo tra i grandi delitti politici italiani del Novecento ci sarebbero dunque i conflitti per il petrolio. Una guerra combattuta anche sul territorio italiano, in primo luogo tra i due colossi energetici dell’epoca: l’americana Standard Oil, privata, e la britannica Anglo-Persian Oil Company (Apoc), di proprietà statale. La prima ha iniziato la sua scalata al mercato italiano sin dalla fine dell’Ottocento, conquistando di fatto una posizione di monopolio dei prodotti raffinati distribuiti nel nostro paese: all’epoca dell’assassinio Matteotti, controlla una quota dell’80 per cento. Una supremazia dovuta al fatto che gli inglesi non possiedono una raffineria nell’area mediterranea e non sono in grado di trattare il petrolio che hanno cominciato a estrarre in Medio Oriente, cosicché la loro presenza sul mercato italiano ed europeo è fortemente penalizzata. Ma, proprio in quel periodo, il governo inglese decide di muovere all’attacco del gigante Usa. Alla fine del 1923, grazie a un accordo con l’Italia, la Apoc rileva una vecchia raffineria austriaca in disuso, a Trieste, a due passi dai depositi della Standard Oil. E nel gennaio del 1924 apre una filiale italiana, la British Petroleum (Bp), una società con capitale misto angloitaliano intorno alla quale si aggregano anche quegli interessi politico finanziari del fascismo più vicini a Londra che a Washington.




L’accordo tra la Apoc e il governo italiano nasconde almeno altre due insidie per la compagnia americana. La prima è nella clausola, inserita su esplicita richiesta di Roma, secondo la quale gli inglesi possono impegnarsi nell’esplorazione del sottosuolo nazionale e nell’eventuale sfruttamento dei giacimenti che venissero scoperti. La seconda insidia risiede in un’altra clausola che consente alla Bp la costruzione in tempi brevi di uno stabilimento in Italia per la raffinazione e la distribuzione anche sul nostro territorio del petrolio estratto in Iraq e in Persia. La raffineria di Trieste, una volta a regime, consentirà alla Gran Bretagna di conquistare un  indubbio vantaggio logistico rispetto agli americani. Perché il greggio Usa, per giungere da New York al porto di Messina, dove si concentra l’intero traffico del petrolio della Standard Oil prima di essere distribuito sul mercato italiano ed europeo, deve compiere un tragitto di 4200 miglia.

Agli inglesi, invece, basterà percorrerne mille per portare il loro prodotto dal Medio Oriente e dai pozzi che controllano nel Mar Nero sino alla raffineria di Trieste. Gli americani reagiscono con prontezza, firmando una convenzione con il governo di Roma che avrebbe spalancato il nostro mercato a un’altra società statunitense, la Sinclair Oil appunto, ‘cugina’ della Standard. ‘I padroni della Sinclair e i loro compari sono pronti a fare qualsiasi cosa pur di colpire gli interessi specifici inglesi, come ottenere concessioni o fare accordi di questo genere’ telegrafa al proprio governo l’ambasciata britannica di Washington.




Per i britannici l’accordo della Sinclair Oil con il governo italiano punta a ledere i loro interessi. Attraverso il colloquio con il deputato socialista, essi intendono quindi attirare l’attenzione dell’opposizione italiana sulle manovre che la loro concorrente d’oltreoceano sta conducendo in combutta con il regime. Che proprio i documenti ricevuti a Londra da Matteotti siano il movente del suo assassinio, lo ipotizzano del resto non solo la stampa italiana, ma anche quella britannica e americana subito dopo la scoperta del cadavere del leader socialista.

‘Si vuole che l’onorevole Matteotti dovesse pronunziare alla Camera – in sede di discussione sull’esercizio provvisorio – un discorso di critica alla convenzione Sinclair’ scrive il ‘Nuovo Paese’, il giornale diretto da Carlo Bazzi. La preoccupazione negli ambienti politici romani è confermata anche da un’informativa datata 14 giugno 1924 (quattro giorni dopo il sequestro del deputato, ma in un momento in cui non si sa ancora della sua morte), secondo la quale sarebbero ‘sulla bocca di tutti le constatazioni che l’onorevole Matteotti possedesse documenti su cui avrebbe parlato alla Camera e che si riferivano a prove contro il Finzi sugli affari compiuti per i petroli, per le case da gioco, e altro’.

Adesso si può capire cosa è successo

Ma torniamo al punto: scoperti gli esecutori materiali e accertati i loro legami con esponenti del regime, restano da individuare i mandanti del delitto. L’implicazione del fratello del duce, di altri esponenti fascisti e della casa reale nell’affare Sinclair farebbe pensare che sia stato direttamente Mussolini a impartire l’ordine di eliminare Matteotti. Ma Mussolini, come abbiamo visto, pur attribuendosi la responsabilità politica e morale di quanto è accaduto, respinge con decisione i sospetti di chi gli addossa la colpa dell’omicidio, scaricandoli di fatto su alcuni gerarchi legati alla massoneria inglese... 


(Prosegue...)











lunedì 15 luglio 2019

L’AMICO AMERIKANO (& un produttore cinematografico) (15)












































Precedenti capitoli circa la...

....Verità  (13)   ..... Barattata (14)

Prosegue nelle dovute...

Considerazioni filosofiche... (16)














Nel luglio 2016, non molto tempo dopo il referendum sulla Brexit, Donald Trump disse:

‘Putin non ha intenzione di entrare in Ucraina, potete segnarvelo’.

…L’invasione russa era cominciata più di due anni prima, nel febbraio 2014, subito dopo che i cecchini avevano assassinato dei cittadini ucraini sul Maidan.




Fu grazie a questa serie di eventi che Trump riuscì a procurarsi un manager per la sua campagna elettorale. Janukovy fuggì in Russia, ma il suo consigliere Paul Manafort continuò a lavorare per un partito ucraino filorusso per tutto il 2015. Il suo nuovo datore di lavoro, Blocco Opposizione, era esattamente la parte del sistema politico ucraino che voleva fare affari con la Russia mentre questa invadeva l’Ucraina.




Era la transizione perfetta per il nuovo incarico di Manafort. Nel 2016, si trasferì a New York e prese in mano la gestione della campagna di Trump. Nel 2014, Trump sapeva che i russi avevano invaso l’Ucraina. Sotto la guida di Manafort, proclamò l’innocenza della Russia. Lyndon LaRouche e Ron Paul seguirono la stessa linea: la Russia non aveva fatto niente di male, ed erano europei e americani che bisognava incolpare dell’invasione, che forse c’era stata e forse no. Scrivendo su ‘The Nation’ nell’estate e nell’autunno del 2016, Cohen difese Trump e Manafort, sognando che un giorno Trump e Putin potessero unirsi per rifare l’ordine mondiale...




…Le fonti aperte mettevano in luce le interazioni fuori dall’ordinario fra i consiglieri di Trump e la Federazione Russa…

Non era un segreto che Paul Manafort, che si unì alla campagna di Trump nel marzo del 2016 e la guidò da giugno fino a tutto agosto, aveva profonde connessioni di vecchia data con l’Europa dell’Est. Come manager della campagna di Trump, Manafort non riceveva nessuno stipendio da un uomo che sosteneva di essere un miliardario, cosa che risultava alquanto insolita. Magari agiva solo per senso civico. O, forse, si aspettava che il vero pagamento arrivasse da qualche altra parte.




Tra il 2006 e il 2009, Manafort aveva lavorato per l’oligarca russo Oleg Deripaska con il compito di ammorbidire gli Stati Uniti di fronte all’influenza politica russa. Manafort promise al Cremlino ‘un modello che potrebbe giovare molto al governo Putin’ e, si dice, Deripaska lo pagò ventisei milioni di dollari. Dopo un progetto di investimento congiunto, Manafort si ritrovò in debito con Deripaska di circa 18,9 milioni di dollari.

Nel 2016, mentre Manafort stava lavorando come manager della campagna di Trump, questo debito era – a quanto pare – una sua fonte di preoccupazione: scrisse per offrire a Deripaska dei ‘briefing privati’ sulla campagna, e cercò di mettere a frutto la propria influenza per farsi condonare il debito dall’oligarca russo, nella speranza di ‘mettere tutto a posto’.




È interessante notare come l’avvocato di Trump, Marc Kasowitz, rappresentasse anche Deripaska. A parte il suo precedente lavoro per indebolire gli Stati Uniti per conto della Russia, Manafort aveva anche esperienza nel far nominare presidenti i candidati preferiti dai russi.

Nel 2005, Deripaska lo raccomandò all’oligarca ucraino Rinat Achmetov, che era un sostenitore di Viktor Janukovy . Nella sua attività in Ucraina tra il 2005 e il 2015, Manafort usò quella stessa ‘strategia del Sud’ che i repubblicani avevano sviluppato negli Stati Uniti negli anni Ottanta: dire a una parte della popolazione che la sua identità è a rischio e, quindi, tentare di trasformare ogni elezione in un referendum sulla cultura. Negli Stati Uniti il destinatario di questo messaggio erano i bianchi del Sud, mentre in Ucraina era la comunità russofona, ma l’appello era lo stesso.




Nel 2010, Manafort riuscì a far eleggere Janukovy alla presidenza, anche se in seguito ci sarebbero state una rivoluzione e l’invasione russa. Dopo aver portato le tattiche americane nell’Europa dell’Est, Manafort portò le tattiche dell’Europa dell’Est negli Stati Uniti. Come manager della campagna di Trump, supervisionò l’importazione della fiction politica in stile russo. Fu durante il suo incarico che Trump dichiarò a una televisione che la Russia non avrebbe invaso l’Ucraina (due anni dopo che l’aveva fatto); e fu sempre sotto lo sguardo di Manafort che Trump chiese pubblicamente alla Russia di trovare e pubblicare le email di Hillary Clinton.




Manafort dovette dimettersi dal suo incarico dopo che emerse che aveva ricevuto in nero da Janukovy 12,7 milioni di dollari in contanti. Fino all’ultimo, Manafort mostrò il tocco di un vero tecnologo della politica russo, non tanto negando i fatti quanto cambiando l’argomento e trasformandolo in una spettacolare finzione. Il giorno in cui venne a galla la storia dei suoi pagamenti in nero, il 14 agosto 2016, Manafort aiutò la Russia a divulgare una storia del tutto inventata su un attacco condotto dai terroristi islamici contro una base della NATO in Turchia.

Manafort venne rimpiazzato come manager della campagna dal produttore cinematografico e ideologo di destra Steve Bannon, la cui qualifica consisteva nell’aver fatto entrare i suprematisti bianchi nel mainstream del dibattito americano.




Come direttore del Breitbart News Network, Bannon aveva fatto conoscere i loro nomi al grande pubblico. I principali esponenti del razzismo americano erano unanimi nella loro ammirazione per Trump e Putin. Matthew Heimbach, un difensore dell’invasione russa dell’Ucraina, parlò di Putin come del ‘leader delle forze anti-globaliste di tutto il mondo’, e della Russia come del ‘più potente alleato’ della supremazia bianca e come di un ‘asse per i nazionalisti’. Heimbach era talmente entusiasta di Trump che, durante un comizio di quest’ultimo a Louisville, nel marzo del 2016, spinse via con violenza un contestatore (al processo, la sua difesa sostenne che aveva agito su istruzioni di Trump).




Bannon sosteneva di essere un nazionalista economico e, pertanto, un difensore del popolo; tuttavia, doveva la sua carriera e la sua impresa mediatica a un clan oligarchico americano, i Mercer, e guidò una campagna per portare un altro clan oligarchico, i Trump, alla Casa Bianca (collaborando con un uomo che aveva aiutato ad aprire gli Stati Uniti a contributi elettorali illimitati in una causa legale sponsorizzata da un terzo clan oligarchico americano, i Koch). 





L’ideologia di estrema destra di Bannon agevolava l’oligarchia americana, come idee simili avevano fatto nella Federazione Russa. Bannon era una versione molto meno sofisticata ed erudita di Vladislav Surkov; mancava di strumenti intellettuali adeguati e veniva battuto con facilità nei confronti. Portando avanti il gioco della Russia a un livello terra-terra, si assicurò che la Russia vincesse. Al pari degli ideologi russi che vedevano il richiamo ai fatti come una tecnologia nemica, Bannon parlava dei giornalisti come del ‘partito di opposizione’. Non negava la verità delle affermazioni fatte contro la campagna di Trump; non smentì, per esempio, che Donald Trump avesse atteggiamenti sessuali predatori. Ciò che faceva, invece, era rappresentare i giornalisti che mettevano in luce i fatti rilevanti come dei nemici della nazione.




I film di Bannon erano semplicistici e privi di interesse in confronto alla letteratura di Surkov o alla filosofia di Il’in, ma l’idea di base era la stessa: una politica dell’eternità nella quale la nazione innocente si ritrova sempre sotto attacco.

Come i suoi amici russi più brillanti, Bannon si dedicò alla riabilitazione di fascisti dimenticati, nel suo caso Julius Evola. Come Surkov, puntava a seminare confusione e oscurità, anche se i suoi riferimenti erano un po’ più banali:

‘L’oscurità è una buona cosa. Dick Cheney. Darth Vader. Satana. Questo è potere’.




Bannon era convinto che ‘Putin sostiene le istituzioni tradizionali’; di fatto, però, la presunta difesa russa della tradizione era un attacco agli Stati sovrani dell’Europa e alla sovranità degli Stati Uniti d’America. La campagna presidenziale guidata da Bannon rappresentava a sua volta un attacco russo contro la sovranità americana. Bannon se ne rese conto in seguito: quando apprese di un incontro tra i vertici della campagna di Trump e i russi avvenuto nella Trump Tower nel giugno del 2016, lo definì come un ‘tradimento’ e qualcosa di ‘non patriottico’. In fin dei conti, però, Bannon era d’accordo con Putin nel ritenere che il governo federale degli Stati Uniti (e l’Unione Europea, da lui definita ‘un protettorato dall’importanza ingigantita’) dovesse essere distrutto.




Per l’intera durata della campagna, a prescindere dal fatto che a capo ci fossero formalmente Manafort oppure Bannon, Trump fece affidamento su suo genero, l’imprenditore immobiliare Jared Kushner. A differenza di Manafort, che aveva una storia, e di Bannon, che aveva un’ideologia, gli unici collegamenti di Kushner con la Russia erano il denaro e l’ambizione. Il modo più facile per seguire questi collegamenti consiste nel prender nota dei suoi silenzi. Dopo la vittoria di suo suocero alle elezioni, Kushner dimenticò di menzionare che la sua società, la Cadre, aveva ricevuto un pesante investimento da parte di un russo le cui compagnie avevano incanalato miliardi di dollari su Facebook e 191 milioni di dollari su Twitter per conto dello Stato russo.




Vale anche la pena di notare che la Deutsche Bank, che aveva riciclato miliardi per gli oligarchi russi e che era l’unica banca ancora disposta a prestare soldi al suocero di Kushner, concesse a quest’ultimo un prestito di 285 milioni di dollari solo poche settimane prima delle elezioni presidenziali. Dopo che suo suocero era stato eletto presidente, e dopo aver ottenuto un’ampia gamma di responsabilità alla Casa Bianca, Kushner dovette fare domanda per un nullaosta di sicurezza. Nella sua documentazione, non menzionò nessun contatto con funzionari russi. Di fatto, però, nel giugno del 2016 aveva preso parte a un incontro alla Trump Tower, assieme a Manafort e Donald Trump Jr., durante il quale Mosca aveva offerto alla campagna di Trump dei documenti come parte (per citare le parole del loro intermediario) dell’appoggio della Russia e del governo russo a Trump….

(T. Snyder, La paura & la Ragione)












sabato 13 luglio 2019

L’UNICA VERITA’ (del politico & il suo regime) L’ASSENZA DI VERITA’ (13)




















Precedenti capitoli:

Circa il politico (11/2)

& la politica del suo ed altrui regime (9/10)

Prosegue con lo...

Scambiatore Universale (14)













La Russia ha raggiunto per prima la politica dell’eternità. La cleptocrazia rendeva impossibili le virtù politiche della successione, dell’integrazione e della novità, cosicché la fiction politica doveva renderle impensabili.

A dare forma alla politica dell’eternità erano le idee di Ivan Il’in. Una nazione russa immersa nella menzogna della propria innocenza poteva imparare a nutrire un amore totale per se stessa.

Vladimir Surkov ha mostrato come l’eternità possa animare i media moderni. Mentre lavorava per Putin, ha scritto un romanzo, Almost Zero (2009), che rappresenta una sorta di confessione politica. Nella storia, l’unica verità è il nostro bisogno di bugie, l’unica libertà la nostra accettazione di questo verdetto. In un episodio che si inserisce nella trama più ampia, il protagonista è turbato da un coinquilino che non fa che dormire. Uno specialista emette un responso: ‘Scompariremo tutti’, confida ‘non appena apre gli occhi. Il dovere della società, e il vostro in particolare, è continuare il suo sogno’.




La perpetuazione di questo stato onirico era la descrizione del lavoro di Surkov.

Se l’unica verità era l’assenza di verità, i mentitori erano onorevoli servitori della Russia. Mettere fine alla fattualità significa dare inizio all’eternità.

Se i cittadini dubitano di tutto, non possono vedere dei modelli alternativi al di là dei confini russi, non possono condurre delle discussioni sensate sulla riforma, e non possono fidarsi abbastanza l’uno dell’altro per organizzarsi in vista del cambiamento politico.

Un futuro plausibile richiede un presente fattuale.

Sulla scia di Il’in, Surkov parla della ‘contemplazione del tutto’ che consente una visione di ‘realtà geopolitica’; dice che gli stranieri, con i loro regolari attacchi, tentano di allontanare i russi dalla loro innata innocenza.




I russi devono essere amati per la loro ignoranza; amarli significa perfezionare quell’ignoranza.

Il futuro contiene solo più ignoranza sul futuro più lontano.

Come ha scritto in Almost Zero:

‘La conoscenza dà soltanto conoscenza, ma l’incertezza dà speranza’.

Come Il’in prima di lui, Surkov considera il cristianesimo come una via per accedere alla propria superiore creazione. Il Dio di Surkov è un solitario collega con dei limiti, un altro demiurgo da incoraggiare con qualche virile pacca sulle spalle. Al pari di Il’in, Surkov evoca dei versi familiari della Bibbia al fine di capovolgerne il significato. Nel suo romanzo, una suora fa riferimento alla Prima lettera ai Corinzi (13,13): ‘L’incertezza dà fede. Speranza. Carità’.




Se i cittadini possono essere tenuti nell’incertezza creando regolarmente delle crisi, è possibile gestire e orientare le loro emozioni.

Questo è l’esatto contrario dell’ovvio significato del passo biblico citato da Surkov: fede, speranza e carità (o amore) sono le tre virtù che si articolano man mano che impariamo a vedere il mondo così com’è.

Subito prima di questo verso c’è il famoso passaggio sulla maturità in quanto capacità di osservare le cose dal punto di vista dell’altro: ‘Poiché ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte; ma allora conoscerò pienamente, come anch’io sono stato perfettamente conosciuto’.




La prima cosa che apprendiamo quando guardiamo dalla prospettiva di un altro è che non siamo innocenti. Surkov intendeva mantenere lo specchio oscuro.

Nella Russia degli anni Duemiladieci, lo specchio oscuro era lo schermo televisivo. Il 90% dei russi faceva affidamento sulla televisione per avere notizie. Surkov era direttore delle pubbliche relazioni di Pervyi Kanal, il principale canale televisivo del Paese, prima di diventare responsabile delle comunicazioni per Boris Eltsin e Vladimir Putin. Ha sovrinteso alla trasformazione della televisione russa da un’autentica pluralità che rappresentava vari interessi a una finta pluralità dove le immagini erano diverse, ma il messaggio era lo stesso.




A metà degli anni Duemiladieci, il finanziamento pubblico di Pervyi Kanal ammontava a circa 850 milioni di dollari all’anno. Ai suoi dipendenti, e a quelli di altre reti di Stato, veniva insegnato che il potere era reale, ma che i fatti del mondo non lo erano. Il viceministro delle Comunicazioni russo, Aleksej Volin, ha così descritto le loro carriere:

‘Vanno a lavorare per il Capo, e il Capo dirà loro che cosa scrivere, che cosa non scrivere, e come questa o quell’altra cosa dev’essere scritta. E il Capo ha il diritto di farlo, perché li paga’.

La fattualità non costituiva un vincolo.

Come ha spiegato Gleb Pavlovskij, un tecnologo politico di spicco:

‘Puoi dire di tutto. Creare delle realtà’.




Le notizie dall’estero hanno finito per sostituire quelle regionali e locali, quasi scomparse dalla televisione. La copertura internazionale equivaleva alla quotidiana registrazione dell’eterno corso della corruzione, dell’ipocrisia e dell’ostilità dell’Occidente. Nulla, in Europa o in America, era degno di emulazione. Il vero cambiamento era impossibile, questo era il messaggio.

RT, l’emittente propagandistica russa rivolta al pubblico straniero, aveva il medesimo scopo: reprimere la conoscenza che poteva indurre all’azione e fare opera di persuasione per trasformare l’emozione in inerzia. Ha stravolto il format dei notiziari abbracciando senza battere ciglio una serie di grottesche contraddizioni: ha invitato a parlare un negazionista dell’Olocausto e l’ha identificato come un attivista dei diritti umani; ha ospitato un neonazista e l’ha presentato come un esperto del Medio Oriente.




Nelle parole di Vladimir Putin, RT è ‘sovvenzionata dal governo, quindi non può che rispecchiare la posizione ufficiale del governo russo’. Tale posizione era l’assenza di un mondo fattuale, e l’ammontare del finanziamento si aggirava sui 400 milioni di dollari all’anno. Americani ed europei trovavano in RT un amplificatore dei propri dubbi – a volte assolutamente giustificati – sulla sincerità dei loro stessi leader e la vitalità dei loro stessi media.

Lo slogan del canale televisivo, ‘Question More’ (Metti tutto in dubbio), ispirava un desiderio di maggior incertezza. Non aveva senso mettere in dubbio la fattualità di quello che RT trasmetteva, poiché ciò che trasmetteva era la negazione della fattualità. Come ha asserito il suo direttore: ‘Non esiste un’informazione obiettiva’. RT voleva far passare il messaggio che tutti i media mentivano, ma che soltanto RT era onesta, perché non fingeva di dire la verità.




La fattualità è stata soppiantata da un sagace cinismo che non chiedeva niente allo spettatore se non un occasionale cenno del capo prima di addormentarsi.

‘La guerra dell’informazione è oggi il principale tipo di guerra’. Dmitrij Kiselëv lo sapeva bene, vista la posizione che occupava. Era infatti il coordinatore dell’agenzia di Stato russa per l’informazione internazionale, nonché il conduttore di un popolare programma serale della domenica.

I primi uomini inviati dal Cremlino in Ucraina, l’avanguardia dell’invasione russa, erano dei tecnologi politici. Una guerra in cui Surkov è al comando si combatte nell’irrealtà. Nel febbraio 2014, Surkov era in Crimea e a Kiev, e in seguito ha svolto la funzione di consigliere di Putin per l’Ucraina. Il tecnologo politico russo Aleksandr Borodaj era l’addetto stampa per la Crimea durante la sua annessione. Nell’estate del 2014, i ‘primi ministri’ delle due ‘repubbliche popolari’ appena create nell’Ucraina sudorientale erano degli esperti di comunicazione russi.




Pur trattandosi di un evento modesto in termini militari, l’invasione russa della regione meridionale e poi sudorientale dell’Ucraina vide l’impiego della più sofisticata campagna di propaganda nella storia della guerra. Essa operò su due livelli: primo, come attacco diretto alla realtà di fatto, negando l’ovvio, persino la guerra stessa; secondo, come incondizionata proclamazione di innocenza, negando che la Russia potesse essere responsabile di qualsiasi sopruso.

Non c’era nessun conflitto in corso, e ciò era pienamente giustificato. Quando la Russia diede il via all’invasione della Crimea, il 24 febbraio 2014, il presidente Putin mentì deliberatamente.





Il 28 febbraio, dichiarò:

‘Non abbiamo alcuna intenzione di agitare la spada e mandare delle truppe in Crimea’.

Lo aveva già fatto.

Nel momento in cui pronunciava queste parole, le forze russe marciavano ormai da quattro giorni nel territorio sovrano ucraino. Oltretutto, in Crimea c’erano anche i Lupi della notte, che seguivano ovunque i soldati russi in un’assordante concerto di motori rombanti, una trovata mediatica per rendere inequivocabile la presenza russa.

…Eppure, Putin scelse di prendersi gioco dei cronisti che notavano questi semplici fatti. Il 4 marzo, affermò che i soldati russi altro non erano che cittadini ucraini che avevano acquistato le loro uniformi nei negozi locali…

(T. Snyder, La paura & la Ragione)