CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

sabato 17 novembre 2018

LA VARIANTE DELLA VITA nel Viaggio intorno al mondo (17)





































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La variante della vita (nel Viaggio intorno al mondo) (18)

Precedenti capitoli:

Là ove un angelo... viaggia (16/1)














…Dopo essere stata respinta due volte da un forte vento di sud-ovest, la nave di Sua Maestà, ‘Beagle’, un brigantino con dieci cannoni comandato dal capitano Fitz Roy, salpò da Devonport il 27 dicembre…

…E’ proprio nella eterogeneità espositiva del suo Viaggio che Darwin ci rende partecipi della vita…(*)




(*) Soggetta, però, alla ‘variante’ passo accelerato tradotto in diverso ed economico principio cui costretto il nostro tempo, giammai intento condiviso chi della truffa veste il proprio cammino, giacché qui rimembriamo il Tempo non certo antico, cui la vita e la sua evoluzione compresa ed interpretata nel secolo di transizione in cui l’industrioso progresso ebbe principio. In cui l’‘evo moderno’ progredì passo e sentiero al tramonto di un secolo all’alba di una stagione nuova ed ove il precipizio e la salita dell’Elemento pregato incidere porta di confino con cui dividere e condividere il cammino. 

L’inizio della rivoluzione! 

O il principio della fine? 

Vi è molto, tanto da disquisire. 

Troppo su cui poetare dalla porta cui usciti per il Tempo cui ogni Dio manifesto. 

Di certo di codesta nobile e distinta teoria si è cimentata e nutrita diversa favella al miracolo della stessa, spacciando la ‘variante’ agognata quale traguardo nell’economica certezza tradotta.

Ma noi ammiriamo la Vita!

Noi ammiriamo la saggia certezza della verità e con lei del dubbio!
Ed anche se il motivo celebrato e festeggiato impone ugual principio qui rimembrato, nella selezione di ogni ‘uomo-fortezza-regione-ragione-nazione-stato’  con cui si specchia e manifesta la specie (ed anche la via), noi preghiamo ed ammiriamo la Vita nel giorno in cui viene celebrato regalato e professato ogni ‘spirituale principio’ avverso alla ‘razza’ così eternamente nel tempio adorata per ogni ‘stato-confino-comune-economico-regolamento’. La quale ci condanna annoia e deruba ad ogni ora nel tempo così evoluto con la sua inutile formula.
Con l'inutile suo traguardo! 




Con il ‘politico primato’: specie in via di affermazione all’Olimpo ed assiso al trono sacerdotale dispensatore del falso mito pregato e spacciato per ogni favola dal popolo pregata. ‘Creazionista’ e principio d’una più triste ‘azione’ alla stabilità cui la specie assisa o suicida; ma paladino del popolo suo quando la corsa impone tal nutrimento al velo del dubbio intento, ma non certo ‘poesia’ dal Giano assistita o musa tradita. Quando, in verità e per il vero, sappiamo il bilancio suggerito dallo scienziato qui rimembrato, o forse solo mal interpretato, tradotto nella ‘cosa’ ‘pneumatico principio’ di un materiale enunciato, spacciato per traguardo della merce cui il corpo intuito, privato e spogliato, però, di ogni spirituale motivo. 

Vestito e coperto da una ‘tempestosa nuvola’ azzerare ogni ecologica pretesa nella specie così evoluta. Giacché nella corsa tradotta la razza evoluta & ad 8 corsie composta: una per la salita e sette per la sicura discesa all’inferno cui il ragno Blake rimembra, nella mia ed Eretica sua visione, comporre più degna dottrina alla morte composta quale sola ed unica certezza al casello pagata. Ove, non certo Dio custode del girone compiuto, forse solo un autovelox qual giusta punizione per aver corso tanto senza badare alle dovute tavole e comandamenti cui composta l’odierna guida, cui composta la legge di ogni ‘comunitario-creato’ alla ‘variante’ di ogni Eterodosso pensiero cui lo Spirito eternamente perseguitato al Sentiero di un diverso Universo pregato.




Nella terrena certezza qual arto che si rinnova alla branchia della vita così mal respirata, così mal assimilata, ed al platonico radiolare rimembrare crosta e speranza nello ‘stronzio’ non ancor digerito alla fucina di uno strano Dio. Adattamento alla (ri)nascita della vita questo il Viaggio alla coda della ‘bestia’ affissa cui l’uomo comporrà propria Natura. Sicché l’inganno, anche nel presunto traguardo dell’opera così ottenuta, appar miracolo ed intento al ‘pneumatico principio’, il qual corre ad annunciar ben più triste novella, non certo dal miracolo nata, ma materia sospesa ed ancora non precipitata a concimare terra o tetto cui celebrano il bambino nutrito nel Secondo nato (per taluni è solo un buon piatto…). 

Ed in cotal paradosso mi sia permesso breve enunciato all’Orwelliano traguardo cui si nutre e corre il mondo: speriamo ed auguriamo alla ‘variante’ qual miracolo predicato lieta evoluzione, in quanto i costi, i quali corrono ad annunciare lieto evento, sottratti alla particella (so)spesa che certo non evolve radiolare e platonico principio, dagli interventi in più sfavorevoli nebbie e gas scomposti di questo nuovo inizio, potranno fornire più reale e concreto bilancio di quanto, in verità e per il vero, al mondo annunciato. 

Certamente la branchia più sofferente, il respiro un poco affaticato, più corto nel percorso vissuto, la polvere sospesa in particella contesa ed in ugual giostra condividere gas scomposto dal doppio volto, concimare campi e foreste di amazzonico o antico evo rinato, ma il verme che salirà, o meglio (ri)nascerà, dal profondo mare in ‘onda’ nutrito (giacché ‘la parabola’, o meglio cotal nobile ‘visione’ vien (ri)composta nel miracolo cui il creazionista va fiero), correre già infermo nato dalla spiaggia della sua fatica verso il monte di una nuova alchimia cui la spirale compie nuovo e più incerto orizzonte cui ogni elemento abdicato compone incerta evoluzione contraria alla vita. 




Questo signori miei, in verità e per il vero, è il nuovo Universo! 

In nome del progresso altro ingegno mai sia concesso in quanto il Viaggio viene così interpretato: il più forte compone l’intento alla globalità della comune razza raggiunta: ‘specie’ ottenuta dall’economico principio di vita incrociato con solo il desiderio della materia la qual dona sogno e paradiso agognato nella promessa di ogni desiderio appagato, nel volontà di possedere dal tartaro profondo all’ultima stella udita il principio della vita. 

Che strana illusione! 

Qual limitato intento! 

Che limitata intuizione! 

Qual piccola dimensione! 

Qual umano principio alla porta ove Dio è appena uscito con diverso intento composto e nato alla crosta di una nuova Stagione nell’Infinita ed invisibile via. Lo Spirito è solo un mal visto Straniero cui sfogare l’istinto, cui donare una calunnia più evoluta dello stesso per la caccia della vita, per ogni Rima o Poesia avversa alla materia cui destinare l’inferno qual sicuro peccato mai consumato, giacché l’agnello comporrà il mito nato dall’istinto perdonato e sacrificato alla Natura con il dono della Parola, perché l’uomo mai l’ha compresa anche se nei secoli pregata. Ed in codesto cielo stellato preghiamo la favola e ammiriamo ogni satellite ad annunciar e portare evoluta (ed inutile) Parola: un Tempo fu Dio donare siffatta Opera, ora suggerita da una diversa...












lunedì 12 novembre 2018

IL BASTONE DEL FILOSOFO (13)



















Precedenti capitoli:

Tu sei lì e sei tu! Gli altri chi sono (11/12)

& Il bastone del Filosofo (9/10)

Prosegue in:

Il bastone del Filosofo (14) nel...











 ...Paradiso riconquistato (15) &




















Là dove un angelo viaggia... (16)












Contro il predominio del mercato, gli utopisti credono nel piano eudemonista e nella riorganizzazione paradisiaca della società. In questa disposizione d’animo, ma andando oltre il fourierismo, John Adolphus Etzler pubblica nel 1833 The Paradise within the Reach of all Men, without Labor, by Powers of Nature and Machinery [Il paradiso alla portata di tutti gli uomini, senza lavoro, per mezzo della potenza della natura e della meccanica], un successo ai suoi tempi.

In quest’opera Etzler inventa l’ecologia tecnofila chiedendo alla natura di fornire energie rinnovabili, non inquinanti, gratuite, per mettere in moto la potenza di macchine destinate a rendere possibile il vecchio sogno cartesiano e tecnofilo dell’uomo padrone e possessore della natura. Un simile progetto permetterebbe di realizzare niente di meno che il paradiso in terra. Etzler teneva conferenze e spiegava come mettere le macchine al servizio degli uomini per realizzare questo radioso futuro. Emerson ha probabilmente assistito a una di queste conferenze e consacrato a questo tema un articolo su The Dial, la rivista dei trascendentalisti.




In sostanza, il filosofo irride l’ottimismo degli uomini e la loro fiducia in soluzioni collettive, e punta invece a una lenta trasformazione della Storia da parte delle grandi personalità. Apprezza però l’energia, l’audacia e la generosità di simili progetti e chiede a Thoreau di recensire il suo libro.

Qual è la tesi di quest’opera?

Che la natura dispone di straordinarie fonti di energia: le correnti dei venti, i movimenti dell’acqua, la regolarità delle maree, il calore del sole, la potenza delle cascate. Qualunque cosa accada, queste forze si rinnovano incessantemente, andando generosamente a sostituire quelle che si esauriscono, senza mai giungere a prosciugare questo capitale autorigenerantesi.

Al contrario delle energie fossili, che impiegano secoli per formarsi e poche ore per essere consumate, che sono rare, dunque costose, e inquinanti, le risorse naturali non aspettano che l’intelligenza degli uomini per essere correttamente utilizzate a scopi di eudemonismo sociale.




Prima delle invenzioni decantate da Jules VerneVentimila leghe sotto i mari è del 1870, Viaggio al centro della Terra del 1864, Il giro del mondo in ottanta giorni del 1873 – Etzler annuncia sin dal 1833 l’aereo, la nave gigantesca, le norie di macchine agricole, la città moderna, i trasporti collettivi veloci, i progressi della medicina, ad esempio l’allungamento della durata della vita, i materiali di costruzione allora inediti, il bagno, gli ascensori, l’aria condizionata, la ristorazione mobile, l’illuminazione notturna…

Etzler si tiene al corrente delle ultime invenzioni, constatando che nel primo quarto di secolo fioriscono in tutti i settori: profetizza per i dieci anni a venire una rivoluzione del mondo e il suo ingresso nella modernità. Sappiamo che ciò avverrà, come predetto dall’utopista, ma nell’arco di più di un secolo.

Indubbiamente, questa visione non si addice affatto a Thoreau, che si prende un po’ gioco di Etzler. A quel progresso tecnico, generatore di felicità per gli uomini, egli non crede neanche per un attimo. Crede anzi che quello che Etzler chiama progresso costituisca piuttosto un ‘regresso’. L’ingegnere utopista tedesco inventa l’ecologia tecnofila, Thoreau, l’ecologia tecnofoba.




Il primo pensa che la felicità degli uomini passi per una rivoluzione industriale, il secondo per una riforma morale. L’uno crede a un uso moderno della natura, l’altro a una pratica millenaria della sua realtà.

A ventisei anni, Thoreau afferma che il paradiso in terra non è questione di macchine industriali, di progresso tecnologico, di ascensore o di vasca da bagno, ma di un nuovo rapporto con la natura. Non, come in Etzler, di dominio, di sfruttamento, di sottomissione, ma di rispetto, di affetto, di simpatia nei suoi confronti, anzi d’amore.

Per realizzare il suo progetto Etzler confida nei governi, Thoreau al contrario li esecra e ha fiducia solo negli individui.

Thoreau afferma che il progresso tecnologico serva solo a soddisfare i bisogni umani. Costruire il futuro su queste prospettive condurrebbe a un’impasse.




La disattenzione verso la natura, i cattivi trattamenti che gli uomini le infliggono, le brutalità che l’uomo moderno le fa subire, ipotecano le sue possibilità di sopravvivenza. Proteggerla è indispensabile, e perciò è anzitutto necessario conoscerla.

L’ingegnere non deve dettare legge; il poeta sì!

La natura può darci lezioni, noi dobbiamo metterci a sua disposizione.

Etzler s’inganna ed inganna: la natura non deve servire l’uomo, perché è l’uomo che deve servire la natura.




Il filosofo non esclude di utilizzare la natura, ma usando saggiamente la conoscenza delle sue leggi. Per esempio, un apicultore si è posto all’ascolto delle sue api. Osservando l’arnia e il comportamento dei suoi abitanti, ne ha dedotto che la quantità di miele prodotto dipende dall’orientamento dell’apertura dell’alveare in direzione dei raggi del sole. Forte del suo sapere e ricco della sua filosofia della natura, gira di un grado l’arnia verso est e ottimizza in tal modo il raccolto, in quanto, offrendo alle sue api due ore di vantaggio sulle altre, esse raggiungono più rapidamente i fiori e bottinano prima. Ecco come l’uomo può intervenire sulla natura: accompagnandola dopo averla compresa, e non forzandola ignorandone i meccanismi.

Per tale ragione Thoreau dedicherà in seguito la sua (breve) vita a costruire un’enciclopedia della Natura: osservare i suoi movimenti, annotare le sue variazioni, misurare le sue trasformazioni, scrivere le sue modificazioni, misurare a grandi passi – in tutti i sensi del termine – i laghi, i corsi d’acqua, i campi, i boschi, scrutare i dettagli di un’ala o di un filo d’erba al microscopio, sorprendere l’intimità di una covata in un nido, che se ne sta appollaiato in alto su un albero, sia arrampicandosi fisicamente sia dirigendo il suo cannocchiale sulla scena, stare acquattati in un frutteto vestiti con i colori della stagione.














domenica 11 novembre 2018

TU SEI LI’ E SEI TU! GLI ALTRI CHI SONO? (11)



















Precedenti capitoli:

Il bastone del Filosofo (9/10)

Prosegue in:

...E gli altri... chi sono? (12)














Accade però che alla galleria dei trasporti segua l’atrio di Lavoisier, prospiciente il grande scalone che sale ai piani superiori….

Quel gioco di teche ai lati, quella sorta di altare alchemico al centro, quella liturgia da civilizzata macumba settecentesca, non erano effetto di disposizione casuale, bensì stratagemma simbolico.

Primo, l’abbondanza di specchi.

Se c’è uno specchio, è stadio umano, vuoi vederti.

E lì non ti vedi.

Ti cerchi, cerchi la tua posizione nello spazio in cui lo specchio ti dica ‘tu sei lì, e sei tu’, e molto patisci, e t’affanni, perché gli specchi di Lavoisier, concavi o convessi che siano, ti deludono, ti deridono: arretrando ti trovi, poi ti sposti, e ti perdi.

Quel teatro catottrico era stato disposto per toglierti ogni identità e farti sentire insicuro del tuo luogo. Come a dirti:

‘tu non sei il Pendolo, né nel luogo del Pendolo’.




…Così ero entrato infatti al Conservatoire des Arts et Métiers, a Parigi, dopo aver passato una corte settecentesca, ponendo piede nella vecchia chiesa abbaziale, incastonata nel complesso più tardo, come era un tempo incastonata nel priorato originario. Si entra e si viene abbagliati da questa congiura che accomuna l’universo superiore delle ogive celesti e il mondo ctonio dei divoratori di oli minerali.

A terra si stende una teoria di veicoli automobili, bicicli e carrozze a vapore, dall’alto incombono gli aerei dei pionieri, in alcuni casi gli oggetti sono integri, ancorché scrostati, corrosi dal tempo, e tutti insieme appaiono, all’ambigua luce in parte naturale e in parte elettrica, come coperti da una patina, da una vernice di vecchio violino; talvolta rimangono scheletri, chassis, disarticolazioni di bielle e manovelle che minacciano inenarrabili torture, incatenato come già ti vedi a quei letti di contenzione dove qualcosa potrebbe muoversi e rovistarti nelle carni, sino alla confessione.




E al di là di questa sequenza di antichi oggetti mobili, ora immobili, dall’anima arrugginita, puri segni di un orgoglio tecnologico che li ha voluti esposti alla reverenza dei visitatori, vegliato a sinistra da una statua della Libertà, modello ridotto di quella che Bartholdi aveva progettato per un altro mondo, e a destra da una statua di Pascal, si apre il coro, dove fa corona alle oscillazioni del Pendolo l’incubo di un entomologo malato - con le, mandibole, antenne, proglottidi, ali, zampe - un cimitero di cadaveri meccanici che potrebbero rimettersi a funzionare tutti allo stesso tempo - magneti, trasformatori monofase, turbine, gruppi convertitori, macchine a vapore, dinamo - e in fondo, oltre il Pendolo, nell’ambulacro, idoli assiri, caldaici, cartaginesi, grandi Baal dal ventre un giorno rovente, vergini di Norimberga col loro cuore irto di chiodi messo a nudo, quelli che un tempo erano stati motori di aeroplano - indicibile corona di simulacri che giacciono in adorazione del Pendolo, come se i figli della Ragione e delle Luci fossero stati condannati a custodire per l’eternità il simbolo stesso della Tradizione e della Sapienza.




E i turisti annoiati, che pagano i loro nove franchi alla cassa ed entrano gratis la domenica, possono dunque pensare che dei vecchi signori ottocenteschi con la barba ingiallita di nicotina, il colletto sgualcito e unto, la cravatta nera a fiocco, la redingote puzzolente di tabacco da fiuto, le dita imbrunite di acidi, la mente acida di invidie accademiche, fantasmi da pochade che si chiamavano a vicenda cher maître, abbiano posto quegli oggetti sotto quelle volte per virtuosa volontà espositiva, per soddisfare il contribuente borghese e radicale, per celebrare le magnifiche sorti e progressive?

No, no, Saint-Martindes- Champs era stato pensato, prima come priorato e poi come museo rivoluzionario, quale silloge di sapienze arcanissime e quegli aerei, quelle macchine automotrici, quegli scheletri elettromagnetici stavano lì a intrattenere un dialogo di cui mi sfuggiva ancora la formula.




Avrei dovuto credere, come mi diceva ipocritamente il catalogo, che la bella impresa era stata pensata dai signori della Convenzione per rendere accessibile alle masse un santuario di tutte le arti e i mestieri, quando era così evidente che il progetto, le stesse parole usate, erano quelle con cui Francesco Bacone descriveva la Casa di Salomone della sua Nuova Atlantide?

Possibile che solo io - io e Jacopo Belbo, e Diotallevi - avessimo intuito la verità?

Quella sera forse avrei saputo la risposta.

Occorreva che riuscissi a rimanere nel museo, oltre l’ora di chiusura, attendendo la mezzanotte. Da dove essi sarebbero entrati non lo sapevo - sospettavo che lungo il reticolo delle fogne di Parigi un condotto legasse qualche punto del museo a qualche altro punto della città, forse vicino alla Porte-St-Denis - ma certamente sapevo che, se fossi uscito, da quella parte non sarei rientrato. E dunque dovevo nascondermi, e rimanere dentro. Cercai di sfuggire alla fascinazione del luogo e di guardare la navata con occhi freddi. Ora non stavo più cercando una rivelazione, volevo un’informazione. Immaginavo che nelle altre sale sarebbe stato difficile trovare un luogo dove avrei potuto sfuggire al controllo dei guardiani (è il loro mestiere, al momento di chiudere, fare il giro delle sale, attenti che un ladro non si acquatti da qualche parte), ma qui nella navata, affollata di veicoli, quale luogo migliore per allogarsi come passeggero da qualche parte?




Nascondersi, vivo, in un veicolo morto.

Di giochi ne avevamo fatti anche troppi, per non tentare ancora questo. Orsù, animo, mi dissi, non pensare più alla Sapienza: chiedi aiuto alla Scienza.

 …E non ti senti solo incerto di te ma degli stessi oggetti collocati fra te e un altro specchio.

Certo, la fisica sa dirti che cosa e perché avviene: poni uno specchio concavo che raccolga i raggi emanati dall'oggetto - in questo caso un alambicco su di una pignatta in rame - e lo specchio rinvierà i raggi incidenti in modo che tu non veda l’oggetto, ben delineato, dentro lo specchio, ma lo intuisca fantomatico, evanescente, a mezz’aria, e rovesciato, fuori dallo specchio.




Naturalmente basterà che tu ti muova di poco e l’effetto svanisce. Ma poi di colpo vidi me, rovesciato, in un altro specchio. Insostenibile. Che cosa voleva dire Lavoisier, che cosa volevano suggerire i registi del Conservatoire? E dal medioevo arabo, da Alhazen, che conosciamo tutte le magie degli specchi. Valeva la pena di fare l’Enciclopedia, e il Secolo dei Lumi, e la Rivoluzione, al fine di affermare che basta flettere la superficie di uno specchio per precipitare nell’immaginario?

E non è illusione quella dello specchio normale, l’altro che ti guarda condannato a un mancinismo perpetuo, ogni mattina quando ti radi?

Valeva la pena di dirti solo questo, in questa sala, o non è stato detto per suggerirti di guardare in modo diverso tutto il resto, le vetrinette, gli strumenti che fingono di celebrare i primordi della fisica e della chimica illuminista?

Maschera in cuoio per protezione nelle esperienze di calcinazione.




Ma davvero?

Davvero il signore delle candele sotto la campana si metteva quella bautta da topo di chiavica, quella parure da invasore ultraterreno, per non irritarsi gli occhi? Oh, how delicate, doctor Lavoisier. Se volevi studiare la teoria cinetica dei gas, perché ricostruire così puntigliosamente la piccola eolipila, un beccuccio su una sfera che, riscaldata, ruota vomitando vapore, quando la prima eolipila era stata costruita da Erone, al tempo della Gnosi, come sussidio per le statue parlanti e gli altri prodigi dei preti egizi?

E cos’era quell’apparecchio per lo studio della fermentazione putrida, 1781, bella allusione ai puteolenti bastardi del Demiurgo?

Una sequenza di tubi vitrei che da un utero a bolla passano per sfere e condotti, sostenuti da forcelle, entro due ampolle, e dall’una trasmettono qualche essenza all’altra per serpentine che sfociano nel vuoto... Fermentazione putrida? Balneum Mariae, sublimazione dell’idrargirio, mysterium conjunctionis, produzione dell’Elisir!




E la macchina per studiare la fermentazione (ancora) del vino? Un gioco di archi di cristallo che va da atanòr ad atanòr, uscendo da un alambicco per finire in un altro? E quegli occhialini, e la minuscola clessidra, e il piccolo elettroscopio, e la lente, il coltellino da laboratorio che sembra un carattere cuneiforme, la spatola con leva d’espulsione, la lama di vetro, il crogiolino in terra refrattaria di tre centimetri per produrre un homunculus a misura di gnomo, utero infinitesimale per minuscolissime donazioni, le scatole d’acajou piene di pacchettini bianchi, come cachet di ipotecario di villaggio, avvolti in pergamene vergate di caratteri intraducibili, con specimen mineralogici (ci si dice), in verità frammenti della Sindone di Basilide, reliquiari col prepuzio di Ermete Trismegisto, e il martello da tappezziere lungo ed esile per battere l’inizio di un brevissimo giorno del giudizio, un’asta di quintessenze da svolgersi tra il Piccolo Popolo degli Elfi di Avalon, e l’ineffabile piccolo apparecchio per l’analisi della combustione degli oli, i globuli di vetro disposti a petali di quadrifoglio, più quadrifogli collegati l’un l’altro da tubi d’oro, e i quadrifogli ad altri tubi di cristallo, e questi a un cilindro cupreo, e poi – a picco in basso – un altro cilindro d’oro e di vetro, e altri tubi, a discesa, appendici pendule, testicoli, glandole, escrescenze, creste...













ta è la chimica moderna? 

venerdì 9 novembre 2018

IL BASTONE DEL FILOSOFO (avverso al Tempo e al metodo) (9)









































Precedenti capitoli:

Da Dio al religioso (8)

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Il bastone del filosofo (10)











                                             
Emerson e gli altri trascendentalisti eccellono come teorici della natura; Thoreau, da pratico. Il primo ne parla, la racconta, la utilizza, la strumentalizza, la verbalizza, la teorizza, la sottomette al suo sistema accanto al fuoco di un caminetto, nel corso di una conversazione con dei conoscitori di Platone, Plotino e Kant, mai lontano dai libri che costituiscono il suo orizzonte; il secondo la vive, la tocca, la assapora, la respira, in canotto sul fiume, nudo nell’acqua del lago, sulla cima degli alberi sui quali si arrampica, impantanato in un oscuro acquitrino, vestito con colori naturali per non turbare il movimento della natura, vivendo in un capanno di legno costruito con le sue mani, mangiando il pesce pescato da lui o le verdure coltivate nel suo orto.

Emerson il filosofo, anche nella caricatura la quale vuole che, come Talete, il pensatore sia caduto nel pozzo che non aveva visto perché completamente assorto a contemplare le stelle; Thoreau il saggio.

Oppure, e più giustamente, Emerson il professore di filosofia, mai troppo diverso dal pastore carente di divinità da adorare, e Thoreau il filosofo che, come i filosofi antichi, vive il suo pensiero e pensa la sua vita.




Ossia, il teorico, re del verbo, e il pratico, imperatore di sé e della sua vita filosofica. Ecco perché una frase del Journal che potrebbe essere considerata un aneddoto, se non una cattiveria gratuita, ha invece un grande valore filosofico: Thoreau afferma di non vedere come Emerson potrebbe attraversare Concord spingendo una carriola.

Sotto la causticità della battuta, si cela una lezione: la teoria di un pensatore implica, per essere convalidata, la sua incarnazione in una vita filosofica. Le dichiarazioni liriche fatte da Emerson sulla Natura obbligano a una pratica conseguente. Altrimenti, è solo una filosofia da salotto, dunque una faccenda da professore di filosofia, e nient’affatto una filosofia o di una saggezza.




La storia di Romolo e Remo allevati con latte di lupa ha evidentemente un suo significato: non si realizzano grandi cose senza avere una relazione privilegiata con l’energia della natura. Thoreau fa l’elogio degli ‘stimolanti e delle cortecce che rinvigoriscono l’umanità’. Invita ad allungare il tè americano con infusioni di abete per tonificare l’anima dei civilizzati troppo saturata di Europa.

Il filosofo, alla maniera di Diogene, vuole ‘rendere selvatico’ il suo popolo. Il cavernicolo negli Indiani ama anche il loro senso dell’orientamento. Nessuno di loro si è mai smarrito nella natura: in qualunque ora, di notte e di giorno, d’estate e d’inverno, il selvaggio sa leggere le informazioni che essa gli dà. Dispone di un magnetismo infallibile che gli impedisce di smarrirsi. Nessun Indiano ha infatti tagliato il cordone ombelicale con la natura, né si considera pari o superiore ad essa, ma dentro la natura, come uno dei suoi elementi costitutivi.




Un Indiano fa parte della natura allo stesso titolo di un arcobaleno, di una rana o delle formiche, né più, né meno. Un’ombra, una traccia, un ramo spezzato, la presenza di un muschio particolare e il suo orientamento, la densità del fogliame di un albero, le stelle, il sole e la luna ovviamente, un profumo, un odore, una deiezione animale, la sua consistenza, il colore, una piuma, un ciuffo di peli, un fiore particolare, il colore di un cielo, la temperatura di un’acqua, la sua trasparenza, e mille altre cose costituiscono altrettanti geroglifici enigmatici e insignificanti, se non addirittura invisibili per il civilizzato, il camminatore urbano, ma è grazie ad essi che la tribù vive, sopravvive, si sposta e si armonizza con le stagioni.

Il cristianesimo ha separato gli uomini dalla natura, ha posto l’uomo al vertice della creazione e gli ha dato il diritto di farne un uso smodato e irrazionale. Gli animali, sprovvisti di anima, come d’altronde il resto della creazione, i vegetali e i minerali, esistono ontologicamente al di sotto degli umani i quali, in base a questa falsa gerarchia, si vedono accordare tutti i diritti sulla natura, dunque contro di essa.




L’homo sapiens sfrutta la natura, vive di fronte ad essa, da nemico. Gli Indiani pensano e agiscono, all’inverso, da amici, complici, partner.

Per Thoreau sono loro i grandi uomini: gli Indiani.

Quando scrive Uomini rappresentativi, sottotitolo I superuomini, Emerson esalta artisti planetari, poeti di fama mondiale, capi militari costruttori di imperi, parla di Platone e di Swedenborg, di Goethe e di Napoleone, di Montaigne e di Shakespeare. Con Margaret Fuller, scopriva Michelangelo e Leonardo da Vinci. Conversando col suo caro amico Carlyle in Inghilterra, si era trovato d’accordo nel condividere il ‘culto degli eroi e l’eroico nella Storia’, sottotitolo dell’opera Gli eroi, tra i quali la palma spetta a Odino, Maometto, Dante, Cromwell, Napoleone e altri.

Ma questi grandi uomini non impressionano Thoreau.

Nel suo universo semplicemente essi non esistono.




Gli eroi di Walden sono topi e marmotte, uccelli e pesci, formiche e nenufari. Mentre Emerson si eccita per gli ‘uomini universali’, Thoreau si rallegra per gli uomini naturali.

L’uno si preoccupa della trascendenza cosmica incarnata in figure insigni di carne e ossa; l’altro apprezza al di sopra di tutto l’immanenza naturale di sconosciuti rimasti semplici, a contatto diretto con la natura, senza la mediazione o il concorso di qualche artificio culturale.

Emerson gira attorno a Napoleone come una falena attirata dalla luce di un lampo?

Thoreau descrive minutamente il suo piacere nell’incontrare un eremita del bosco di ventotto anni, una variazione sul tema del selvaggio.

Ai suoi grandi uomini, l’Indiano e l’eremita dei boschi, Thoreau aggiunge il Bramino.




Sappiamo che fu un lettore attento della letteratura vedica, un buon conoscitore dei testi induisti, e a più riprese, ma in modo impressionistico, esprime la sua simpatia per quei filosofi antichissimi che furono i bramini, saggi indù che praticavano l’ascesi più austera, incarnavano la loro teoria in una pratica e conducevano una vita filosofica.

In un passo di Walden relativo alla sua dieta, Thoreau fa sapere al lettore che, lui che ama tanto la filosofia indù, avrebbe dovuto mangiare più riso. Ciò che a Thoreau piace del pensiero orientale è il modo di vivere distaccato nei confronti di ciò che non è essenziale. La mattina, legge il Bhagavad-Gita e si dice stupefatto di quella antica verità che fa impallidire tutta la letteratura del suo tempo, improvvisamente diventata insignificante e trascurabile.



Immagina di chiudere il suo libro, andare a cercare l’acqua del pozzo, incontrare gli eroi della mitologia induista e impregnare il proprio mondo della saggezza vedica.

Scrive:

‘L’acqua pura di Walden si mescola all’acqua sacra del Gange’.

E poi, un racconto che fonde la saggezza degli Indiani, il talento per la scultura del legno dell’eremita e la pazienza di chi è tormentato dall’assoluto del Bramino: a Kouroo, un artista si era proposto di arrivare alla perfezione. Decise di fare un bastone.

‘Avendo riflettuto che, per un’opera imperfetta, il tempo conta, mentre per un’opera perfetta il tempo è una quantità trascurabile, si disse: sarà perfetto sotto ogni punto di vista, anche se non dovessi fare altro nella mia vita’.

Si mise perciò in cerca del materiale migliore perlustrando senza sosta i boschi. E siccome il tempo non contava niente, si prese tutto il tempo che gli serviva. Ma i suoi amici persero la pazienza, lo abbandonarono e ognuno finì per invecchiare e morire nel proprio cantuccio.

Lui, invece, non invecchiava.




La sua eterna giovinezza derivava ‘dal suo unico scopo, dalla sua risoluzione e dalla sua profonda pietà’.

La sua determinazione a non scendere a patti col tempo ebbe ragione del tempo, che finì per scomparire dalla sua vita. L’artista continuava a cercare il legno adatto. Il tempo lo risparmiava, ma continuava a produrre i suoi effetti sul resto del mondo: la città di Kouroo non esisteva più da molto tempo, e lui si sedette sulle rovine per iniziare il suo lavoro; la dinastia più potente era scomparsa, e lui cominciò a tagliare il suo legno; scrisse con la punta del bastone il nome dell’ultimo rappresentante di quella razza; riprese il suo lavoro; finì di grattare e di pulire il suo bastone, la stella polare non esisteva più; posò la bacchetta e l’impugnatura ornata di pietre preziose, nel frattempo Brahma si era addormentato e svegliato molte volte – e sappiamo che ognuna delle sue giornate è lunga due miliardi centosessanta milioni di anni; l’oggetto finito divenne la più bella delle creazioni di questo dio indiano, mentre si erano succedute nuove città e nuove dinastie; guardando i trucioli caduti ai suoi piedi, vide che lo scorrere del tempo era stato un’illusione: il materiale era puro, la sua arte anche, il risultato meraviglioso.




Conclude Thoreau:

‘Aveva fatto nascere un nuovo sistema facendo del bastone un mondo dalle proporzioni belle e definite’.

La storia, enigmatica – come parecchi brani dell’opera del filosofo, lettore e appassionato della letteratura vedica – ha dato luogo a diverse interpretazioni.

Il bastone conta poco in questa vicenda, mentre l’essenziale è il progetto: arrivare alla perfezione. La risoluzione sospende il tempo, la costruzione di sé dà accesso all’eternità. In questa vicenda, la solitudine è grande. Gli avvenimenti che l’accompagnano non contano nulla. Esiste solo la volontà del progetto che sospende il tempo e dona l’immortalità. Volersi, costruirsi, significa assicurare di non morire mai.

Verità vedica.



Thoreau manifesta a più riprese questa predilezione per parabole che fanno sudare i cattedratici da più di un secolo. Una di esse somiglia a una specie di enigma, su cui gli ermeneuti impazziscono, mi sembra senza successo.

Eccola:

‘Tempo fa ho perduto un cavallo baio e una tortora, e ancora li cerco. Ho chiesto a numerosi viaggiatori se li avessero visti, descrivendo la strada che avevano imboccato, e a quali nomi rispondevano. Ne ho incontrati uno o due che avevano sentito il cane e il passo del cavallo, e alcuni che avevano visto la tortora scomparire dietro una nuvola, e sembravano anche desiderosi di ritrovarli come se a perderli fossero stati loro stessi’.

Un cane? Un cavallo? Una tortora?

Gli specialisti di simboli possono lasciar perdere.

I più furbi andranno magari a cercare in un bestiario orientale, inseguiranno questi animali nei testi vedici, ma Thoreau non è il tipo che si mette a creare enigmi intellettualistici, a criptare i suoi scritti per godere della cerebralità necessaria a decifrarli. Niente gli si addice meno della citazione dissimulata, del significato nascosto destinato agli iniziati. In compenso, il senso di queste storie straordinarie è dato dal filosofo in parecchi altri luoghi della sua opera, quando afferma di preferire di gran lunga il poema al ragionamento, l’immagine alla dimostrazione, la sensazione alla dialettica.




Non c’è affatto bisogno, quindi, di fornire un canovaccio logico, una proposta filosofica chiara e distinta, quando bastano una parabola, una storia, un mito, una favola, una allegoria.

L’artista della città di Kouroo e il suo bastone non servono a sostituire un discorso sul tempo, l’eternità e la potenza dell’uomo su queste istanze a partire dal momento in cui dispone di una volontà e di un progetto, ma a produrre nel lettore una finzione generatrice di immagini e di sensazioni. Il bestiario degli animali smarriti anche. 

(M. Onfray; Fotografie di A. Masuri)