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...E gli altri... chi sono? (12)
Accade
però che alla galleria dei trasporti segua l’atrio di Lavoisier, prospiciente
il grande scalone che sale ai piani superiori….
Quel
gioco di teche ai lati, quella sorta di altare alchemico al centro, quella
liturgia da civilizzata macumba settecentesca, non erano effetto di
disposizione casuale, bensì stratagemma simbolico.
Primo,
l’abbondanza di specchi.
Se
c’è uno specchio, è stadio umano, vuoi vederti.
E
lì non ti vedi.
Ti
cerchi, cerchi la tua posizione nello spazio in cui lo specchio ti dica ‘tu sei
lì, e sei tu’, e molto patisci, e t’affanni, perché gli specchi di Lavoisier,
concavi o convessi che siano, ti deludono, ti deridono: arretrando ti trovi,
poi ti sposti, e ti perdi.
Quel
teatro catottrico era stato disposto per toglierti ogni identità e farti
sentire insicuro del tuo luogo. Come a dirti:
‘tu
non sei il Pendolo, né nel luogo del Pendolo’.
…Così
ero entrato infatti al Conservatoire des
Arts et Métiers, a Parigi, dopo aver passato una corte settecentesca,
ponendo piede nella vecchia chiesa abbaziale, incastonata nel complesso più
tardo, come era un tempo incastonata nel priorato originario. Si entra e si
viene abbagliati da questa congiura che accomuna l’universo superiore delle
ogive celesti e il mondo ctonio dei divoratori di oli minerali.
A
terra si stende una teoria di veicoli automobili, bicicli e carrozze a vapore,
dall’alto incombono gli aerei dei pionieri, in alcuni casi gli oggetti sono
integri, ancorché scrostati, corrosi dal tempo, e tutti insieme appaiono, all’ambigua
luce in parte naturale e in parte elettrica, come coperti da una patina, da una
vernice di vecchio violino; talvolta rimangono scheletri, chassis,
disarticolazioni di bielle e manovelle che minacciano inenarrabili torture,
incatenato come già ti vedi a quei letti di contenzione dove qualcosa potrebbe
muoversi e rovistarti nelle carni, sino alla confessione.
E
al di là di questa sequenza di antichi oggetti mobili, ora immobili, dall’anima
arrugginita, puri segni di un orgoglio tecnologico che li ha voluti esposti
alla reverenza dei visitatori, vegliato a sinistra da una statua della Libertà,
modello ridotto di quella che Bartholdi aveva progettato per un altro mondo, e
a destra da una statua di Pascal, si apre il coro, dove fa corona alle
oscillazioni del Pendolo l’incubo di un entomologo malato - con le, mandibole,
antenne, proglottidi, ali, zampe - un cimitero di cadaveri meccanici che
potrebbero rimettersi a funzionare tutti allo stesso tempo - magneti,
trasformatori monofase, turbine, gruppi convertitori, macchine a vapore, dinamo
- e in fondo, oltre il Pendolo, nell’ambulacro, idoli assiri, caldaici,
cartaginesi, grandi Baal dal ventre un giorno rovente, vergini di Norimberga
col loro cuore irto di chiodi messo a nudo, quelli che un tempo erano stati
motori di aeroplano - indicibile corona di simulacri che giacciono in
adorazione del Pendolo, come se i figli della Ragione e delle Luci fossero
stati condannati a custodire per l’eternità il simbolo stesso della Tradizione
e della Sapienza.
E
i turisti annoiati, che pagano i loro nove franchi alla cassa ed entrano gratis
la domenica, possono dunque pensare che dei vecchi signori ottocenteschi con la
barba ingiallita di nicotina, il colletto sgualcito e unto, la cravatta nera a
fiocco, la redingote puzzolente di tabacco da fiuto, le dita imbrunite di
acidi, la mente acida di invidie accademiche, fantasmi da pochade che si
chiamavano a vicenda cher maître,
abbiano posto quegli oggetti sotto quelle volte per virtuosa volontà
espositiva, per soddisfare il contribuente borghese e radicale, per celebrare
le magnifiche sorti e progressive?
No,
no, Saint-Martindes- Champs era stato
pensato, prima come priorato e poi come museo rivoluzionario, quale silloge di
sapienze arcanissime e quegli aerei, quelle macchine automotrici, quegli
scheletri elettromagnetici stavano lì a intrattenere un dialogo di cui mi
sfuggiva ancora la formula.
Avrei
dovuto credere, come mi diceva ipocritamente il catalogo, che la bella impresa
era stata pensata dai signori della Convenzione per rendere accessibile alle
masse un santuario di tutte le arti e i mestieri, quando era così evidente che
il progetto, le stesse parole usate, erano quelle con cui Francesco Bacone
descriveva la Casa di Salomone della sua Nuova Atlantide?
Possibile
che solo io - io e Jacopo Belbo, e Diotallevi - avessimo intuito la verità?
Quella
sera forse avrei saputo la risposta.
Occorreva
che riuscissi a rimanere nel museo, oltre l’ora di chiusura, attendendo la
mezzanotte. Da dove essi sarebbero entrati non lo sapevo - sospettavo che lungo
il reticolo delle fogne di Parigi un condotto legasse qualche punto del museo a
qualche altro punto della città, forse vicino alla Porte-St-Denis - ma
certamente sapevo che, se fossi uscito, da quella parte non sarei rientrato. E
dunque dovevo nascondermi, e rimanere dentro. Cercai di sfuggire alla fascinazione
del luogo e di guardare la navata con occhi freddi. Ora non stavo più cercando
una rivelazione, volevo un’informazione. Immaginavo che nelle altre sale
sarebbe stato difficile trovare un luogo dove avrei potuto sfuggire al
controllo dei guardiani (è il loro mestiere, al momento di chiudere, fare il
giro delle sale, attenti che un ladro non si acquatti da qualche parte), ma qui
nella navata, affollata di veicoli, quale luogo migliore per allogarsi come
passeggero da qualche parte?
Nascondersi,
vivo, in un veicolo morto.
Di
giochi ne avevamo fatti anche troppi, per non tentare ancora questo. Orsù,
animo, mi dissi, non pensare più alla Sapienza: chiedi aiuto alla Scienza.
…E
non ti senti solo incerto di te ma degli stessi oggetti collocati fra te e un altro
specchio.
Certo,
la fisica sa dirti che cosa e perché avviene: poni uno specchio concavo che
raccolga i raggi emanati dall'oggetto - in questo caso un alambicco su di una pignatta
in rame - e lo specchio rinvierà i raggi incidenti in modo che tu non veda l’oggetto,
ben delineato, dentro lo specchio, ma lo intuisca fantomatico, evanescente, a mezz’aria,
e rovesciato, fuori dallo specchio.
Naturalmente
basterà che tu ti muova di poco e l’effetto svanisce. Ma poi di colpo vidi me, rovesciato,
in un altro specchio. Insostenibile. Che cosa voleva dire Lavoisier, che cosa
volevano suggerire i registi del Conservatoire? E dal medioevo arabo, da
Alhazen, che conosciamo tutte le magie degli specchi. Valeva la pena di fare l’Enciclopedia,
e il Secolo dei Lumi, e la Rivoluzione, al fine di affermare che basta flettere
la superficie di uno specchio per precipitare nell’immaginario?
E
non è illusione quella dello specchio normale, l’altro che ti guarda condannato
a un mancinismo perpetuo, ogni mattina quando ti radi?
Valeva
la pena di dirti solo questo, in questa sala, o non è stato detto per
suggerirti di guardare in modo diverso tutto il resto, le vetrinette, gli
strumenti che fingono di celebrare i primordi della fisica e della chimica
illuminista?
Maschera
in cuoio per protezione nelle esperienze di calcinazione.
Ma
davvero?
Davvero
il signore delle candele sotto la campana si metteva quella bautta da topo di
chiavica, quella parure da invasore ultraterreno, per non irritarsi gli occhi? Oh, how delicate,
doctor Lavoisier.
Se volevi studiare la teoria cinetica dei gas, perché ricostruire così
puntigliosamente la piccola eolipila, un beccuccio su una sfera che,
riscaldata, ruota vomitando vapore, quando la prima eolipila era stata
costruita da Erone, al tempo della Gnosi, come sussidio per le statue parlanti
e gli altri prodigi dei preti egizi?
E
cos’era quell’apparecchio per lo studio della fermentazione putrida, 1781,
bella allusione ai puteolenti bastardi del Demiurgo?
Una
sequenza di tubi vitrei che da un utero a bolla passano per sfere e condotti,
sostenuti da forcelle, entro due ampolle, e dall’una trasmettono qualche
essenza all’altra per serpentine che sfociano nel vuoto... Fermentazione
putrida? Balneum
Mariae,
sublimazione dell’idrargirio, mysterium conjunctionis, produzione dell’Elisir!
E
la macchina per studiare la fermentazione (ancora) del vino? Un gioco di archi
di cristallo che va da atanòr ad atanòr, uscendo da un alambicco per finire in
un altro? E quegli occhialini, e la minuscola clessidra, e il piccolo
elettroscopio, e la lente, il coltellino da laboratorio che sembra un carattere
cuneiforme, la spatola con leva d’espulsione, la lama di vetro, il crogiolino
in terra refrattaria di tre centimetri per produrre un homunculus a misura di gnomo,
utero infinitesimale per minuscolissime donazioni, le scatole d’acajou piene di
pacchettini bianchi, come cachet di ipotecario di villaggio, avvolti in
pergamene vergate di caratteri intraducibili, con specimen mineralogici (ci si
dice), in verità frammenti della Sindone di Basilide, reliquiari col prepuzio
di Ermete Trismegisto, e il martello da tappezziere lungo ed esile per battere
l’inizio di un brevissimo giorno del giudizio, un’asta di quintessenze da
svolgersi tra il Piccolo Popolo degli Elfi di Avalon, e l’ineffabile piccolo
apparecchio per l’analisi della combustione degli oli, i globuli di vetro
disposti a petali di quadrifoglio, più quadrifogli collegati l’un l’altro da
tubi d’oro, e i quadrifogli ad altri tubi di cristallo, e questi a un cilindro
cupreo, e poi – a picco in basso – un altro cilindro d’oro e di vetro, e altri
tubi, a discesa, appendici pendule, testicoli, glandole, escrescenze, creste...
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