CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

lunedì 27 novembre 2023

OGGI PIU' CHE MAI ABBIAMO BISOGNO DELLE SUE PAROLE (discorso di insediamento del presidente John Kennedy gennaio 1961)

 









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Fuori Programma (9/11)  


Prosegue ancora? 


Sì! 










con due Fotogrammi 


rovesciati (13)  &  (11)  


&d ancora con la gloriosa 








esposizione Universale


qual glorioso Fatto?


senza numeri romani (...)



 





Prosegue ancora?! 


Sì a Dicembre (14)







Oggi osserviamo non una vittoria del partito ma una celebrazione della libertà simboleggiando una fine ma anche un inizio significa rinnovamento e cambiamento poiché ho prestato davanti a te e a Dio Onnipotente lo stesso solenne giuramento che i nostri antenati prescrissero quasi un secolo e tre quarti fa.

 

Il mondo adesso è molto diverso, perché l’uomo ha nelle sue mani mortali il potere di abolire tutte le forme di povertà umana e tutte le forme di vita umana. Eppure le stesse convinzioni rivoluzionarie per le quali combatterono i nostri antenati sono ancora in discussione in tutto il mondo la convinzione che i diritti dell’uomo non provengono dalla generosità dello stato ma dalla mano di Dio. Non osiamo dimenticare oggi che siamo gli eredi di quella prima rivoluzione.




Lasciamo che la parola esca da questo tempo e da questo luogo sia verso amici che nemici che il testimone è passato a una nuova generazione di cittadini (e non solo americani) nati in questo secolo (e il secolo futuro), temprati dalla guerra, disciplinati da una pace dura e amara, orgogliosi della nostra antica eredità e riluttante a testimoniare o permettere la lenta distruzione di quei diritti umani per i quali questa nazione si è sempre impegnata, e per i quali ci impegniamo anche noi oggi a casa e in giro per il mondo.




Fatelo sapere a ogni nazione se ci augura il bene o il male che pagheremo qualsiasi prezzo, sopporteremo qualsiasi fardello, affronteremo qualsiasi difficoltà, sosterremo qualsiasi amico, ci opporremo a qualsiasi nemico, per assicurare la sopravvivenza e il successo della libertà. Questo è il nostro impegno e altro ancora.

 

A quei vecchi alleati di cui condividiamo le origini culturali e spirituali: promettiamo la lealtà di amici fedeli. Uniti c’è poco che non possiamo fare in una serie di iniziative cooperative. Divisi c’è poco che possiamo fare perché non osiamo affrontare una sfida potente, entrare in conflitto e dividerci in due. A quei nuovi Stati ai quali diamo il benvenuto tra le fila dei liberi: diamo la nostra parola che una forma di controllo coloniale non sarà scomparsa semplicemente per essere sostituita da una tirannia molto più ferrea.

 

…Non sempre ci aspetteremo di trovarli a sostegno del nostro punto di vista….




A quelle persone che nelle capanne e nei villaggi di mezzo mondo che lottano per spezzare i vincoli della miseria di massa: ci impegniamo a fare del nostro meglio per aiutarli ad aiutare se stessi, per qualunque periodo sia necessario non perché i comunisti potrebbero farlo, non perché cerchiamo i loro voti, ma perché è giusto. Se una società libera non può aiutare i molti poveri, non può neppure salvare i pochi ricchi.

 

Alle nostre repubbliche sorelle a sud del nostro confine: offriamo un impegno speciale per trasformare le nostre buone parole in buone azioni in una nuova alleanza per il progresso aiutare uomini liberi e governi liberi a liberarsi dalle catene della povertà. Ma questa rivoluzione pacifica della speranza non può diventare preda di potenze ostili. Fate sapere a tutti i nostri vicini che ci uniremo a loro per opporci all’aggressione o alla sovversione ovunque nelle Americhe e far sapere a ogni altra potenza che questo emisfero intende restare padrone di casa propria.




A quell’assemblea mondiale di stati sovrani: le Nazioni Unite nostra ultima speranza in un’epoca in cui gli strumenti di guerra hanno superato di gran lunga gli strumenti di pace, rinnoviamo la nostra promessa di sostegno per evitare che diventi semplicemente un luogo di invettiva per rafforzare il suo scudo contro i nuovi e i deboli e di ampliare l’area in cui può essere eseguito il suo mandato.

 

Infine, a quelle nazioni che volessero farsi nostre avversarie, offriamo non un impegno ma una richiesta: che entrambe le parti ricomincino la ricerca della pace; prima che gli oscuri poteri di distruzione scatenati dalla scienza travolgano tutta l’umanità in un’autodistruzione pianificata o accidentale.

 

Non osiamo tentarli con debolezza.




Perché solo quando le nostre armi saranno sufficienti al di là di ogni dubbio possiamo essere certi che non verranno mai impiegate. Ma neppure due grandi e potenti gruppi di nazioni possono trarre conforto dal nostro corso attuale entrambe le parti sono sovraccaricate dal costo delle armi moderne, entrambe giustamente allarmate dalla costante diffusione dell’atomo mortale, eppure entrambe corrono per alterare quell’incerto equilibrio di terrore che tiene in mano la guerra finale dell’umanità.

 

Quindi cominciamo daccapo ricordando da entrambe le parti che la civiltà non è segno di debolezza e che la sincerità è sempre soggetta a prove. Non negoziamo mai per paura, ma non temiamo mai di negoziare. Lasciamo che entrambe le parti esplorino quali problemi ci uniscono invece di insistere su quelli che ci dividono. Entrambe le parti formulino, per la prima volta, proposte serie e precise per l’ispezione e il controllo degli armamenti e abolirne il loro improprio utilizzo per qual si voglia distruzione di massa.




Lasciamo che entrambe le parti cerchino di invocare le meraviglie della scienza invece dei suoi terrori. Insieme esploriamo le stelle, conquistiamo i deserti, sradichiamo le malattie, esploriamo le profondità dell’oceano e incoraggiamo le arti e il commercio. Lasciamo che entrambe le parti si uniscano per ascoltare in tutti gli angoli della terra il comando di Isaia per “alleviare i pesanti fardelli... lasciare liberi gli oppressi”.

 

E se una testa di ponte di cooperazione possa respingere la giungla del sospetto lasciamo che entrambe le parti si uniscano per creare un nuovo equilibrio di potere ma un nuovo mondo del diritto dove i forti sono giusti e i deboli al sicuro e la pace preservata.

 

Tutto questo non finirà nei primi cento giorni. Né sarà finito nei primi mille giorni né nella vita di questa amministrazione, e forse nemmeno durante la nostra vita su questo pianeta. Ma cominciamo.




Nelle vostre mani, miei concittadini più del mio deciderà il successo o il fallimento finale del nostro corso. Da quando questo paese è stato fondato, ogni generazione di americani è stata chiamata a testimoniare la propria lealtà nazionale. Le tombe dei giovani americani che hanno risposto alla chiamata al servizio circondano il mondo.

 

Ora la tromba ci chiama di nuovo non come un appello a portare le armi, anche se di armi abbiamo bisogno non come un appello alla battaglia anche se siamo combattuti ma una chiamata a sopportare il peso di una lunga lotta crepuscolare anno dopo anno, gioendo nella speranza, pazienti nella tribolazione una lotta contro il nemico comune dell’uomo: la tirannia povertà malattia e la guerra stessa. Possiamo stringere contro questi nemici un’alleanza grande e globale Nord e Sud Est e Ovest che può assicurare una vita più fruttuosa a tutta l’umanità?

 

Ti unirai a questo sforzo storico?




Nella lunga storia del mondo, solo a poche generazioni è stato concesso il ruolo di difendere la libertà nell’ora di massimo pericolo; non mi sottraggo a questa responsabilità la accolgo con favore. Non credo che nessuno di noi scambierebbe il posto con un altro popolo o con un’altra generazione. L’energia, la fede, la devozione che portiamo in questo impegno illumineranno il nostro Paese e tutti coloro che lo servono e il bagliore di quel fuoco può davvero illuminare il mondo.

 

E così, miei concittadini americani, e non solo perché mi rivolgo all’intero mondo, non chiederti cosa può fare il tuo Paese per te chiedi cosa puoi fare per il tuo Paese. I miei concittadini del mondo non chiederti cosa farà l’America per te, ma cosa possiamo fare insieme per la libertà dell’uomo.




Infine, che siate cittadini dell’America o cittadini del mondo, chiedete a noi qui gli stessi elevati standard di forza e sacrificio che chiediamo a voi. Con la buona coscienza la nostra unica ricompensa sicura, con la storia il giudice finale delle nostre azioni; andiamo a guidare la terra che amiamo, chiedendo la sua benedizione e il suo aiuto, ma sapendo che qui sulla terra l’opera di Dio deve essere veramente la nostra.


(J.F.K)







martedì 21 novembre 2023

FUORI PROGRAMMA (ovvero, 22 NOVEMBRE...) (9)









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circa un Programma 


ben stabilito  (7/8)  








Prosegue con: 


due fotogrammi 


invertiti  (10)  


Prosegue ancora?



 





Sì certo! verso 


la boscosa collina! 


(dedicato a Woody) [11]







STAVO lavorando alla mia scrivania presso la sede del tribunale, quale procuratore distrettuale di New Orleans, quando la porta si spalancò e il mio viceprocuratore si precipitò dentro gridando: ‘Hanno sparato al presidente!’ Erano da poco passate le 12.30 di venerdì 22 novembre dell’anno 1963.

 

Oggi, un quarto di secolo da allora, ricordo la mia confusione, la mia incredulità. Dopo avere afferrato quello che Frank Klein mi stava dicendo, mi aggrappai alla speranza che Kennedy fosse stato solamente ferito e che sarebbe sopravvissuto.

 

Frank e io ci dirigemmo al ristorante Tortorich, in Royal Street nel quartiere francese. Era un posto silenzioso e non affollato in cui si trovava un apparecchio televisivo, in una delle sale da pranzo. Durante il tragitto, l’autoradio annunciò che John Kennedy era stato assassinato. Il tempo restante di quel percorso trascorse in un assoluto silenzio.

 

Al ristorante, i clienti di mezzogiorno se ne stavano attoniti con gli occhi sbarrati davanti al televisore posto in alto in uno degli angoli della sala. Provai un senso di irrealtà mentre l’interminabile reportage proveniente da Dallas continuava a inondare il locale. Ai tavoli la conversazione languiva. Si avvicinò un cameriere e così ordinammo qualche cosa. Quando il cibo arrivò, ci mettemmo a tormentarlo distrattamente con le posate, ma nessuno dei due riuscì a mangiare.




Le informazioni provenienti dal televisore erano sconclusionate. Anche se il Secret Service, l’FBI e la polizia di Dallas, oltre alla grande massa degli spettatori, si erano trovati tutti davanti alla scena dell’assassinio di Dallas, per almeno due ore quelle voci agitate dei telecronisti non riuscirono a comunicare nessun fatto oggettivo riguardante l’individuo, o gli individui che avevano sparato. In ogni caso, eravamo come ipnotizzati dalla grande confusione, dagli interminabili sproloqui, dall’attrazione che esercitava su di noi quella trasmissione.

 

La preoccupazione per quello che era successo al presidente e anche per il colpo che noi stessi avevamo subito, fece sì che nessuno lasciasse il ristorante prima del pomeriggio inoltrato. Gli uomini d’affari e i professionisti che erano lì per colazione cancellarono i loro appuntamenti. Frank e io facemmo le nostre telefonate all’ufficio e poi ritornammo subito davanti al televisore.

 

In seguito, a metà pomeriggio, improvvisamente venne annunciato l’arresto di un uomo accusato dell’assassinio. Circa quindici agenti della polizia di Dallas lo avevano catturato mentre se ne stava seduto in una sala cinematografica, a una considerevole distanza dal luogo dell’assassinio. Quell’arresto dilazionato ebbe quasi l’effetto dello scoppio di una bomba proveniente dal televisore, e il lungo silenzio nella sala del ristorante a quel punto cessò. Ora si poteva avvertire un’improvvisa esplosione di rabbia, l’avanzare di un’ondata di odio contro quel giovane che prima era soltanto uno sconosciuto.

 

Il suo nome era Lee Harvey Oswald.




Mentre io e Frank Klein eravamo come paralizzati davanti al televisore del Tortorich, un incidente abbastanza insolito si verificava presso l’ufficio di Guy Banister, circa dodici isolati più avanti, dall’altro lato di Canal Street. O meglio qualcosa di insolito per Banister, un ex agente speciale della sezione dell’FBI di Chicago, poi anche vicecommissario della polizia di New Orleans, un uomo che nel corso della sua vita aveva sempre avuto la reputazione di intransigente difensore della legge e dell’ordine.

 

Conoscevo Banister abbastanza bene. Quando stava al dipartimento di polizia, pranzavamo insieme di quando in quando scambiandoci i racconti più coloriti dei tempi trascorsi nell’ambito dell’FBI. Era un uomo con un viso rubicondo, due occhi blu che ti fissavano dritto, vestito con grande eleganza e con una piccola rosa sempre all’occhiello della sua giacca.

 

Anche se aveva l’abitudine di gustarsi qualche occasionale martini presso la International House, Banister non era mai stato conosciuto come un grande bevitore durante le ore della giornata. Era un uomo austero, un individuo molto posato. A ogni modo, durante il lungo pomeriggio della trasmissione televisiva sull’assassinio di Dallas, l’ex uomo dell’FBI si impegnò nel nobile sforzo di ripulire di tutti i liquori il Katzenjammer Bar al numero 500 di Camp Street. Come il sole cominciò a scendere sul vicino Mississippi, fece ritorno al suo ufficio con Jack Martin, che era stato a bere con lui. A questo punto, Banister iniziò una disputa accalorata con Martin, un tempo detective privato e ora tirapiedi nel suo ufficio.

 

Il guaio arrivò quando Martin si permise di fare un’osservazione poco giudiziosa. Aveva informato Banister, con l’incalzare dei batti e ribatti, che non si era dimenticato di certe cose un po’ strane che erano successe nel suo ufficio durante l’estate. A quel punto Banister aveva tirato fuori la sua Magnum 357 e aveva cominciato con questa a massaggiare per bene la testa di Martin.




Una Magnum 357 non è un’arma qualsiasi. È particolarmente pesante per poter controbilanciare l’effetto della notevole accelerazione che, con lo sparo, si verifica nella canna. Il breve alterco trasformò, nel giro di un minuto o due, Martin in un povero individuo sanguinante e coperto di lividi, e così una pattuglia di polizia lo raccattò e lo trasportò al Charity Hospital nella Tulane Avenue. 2 Come un minuscolo seme, il cui germoglio a quel tempo sarebbe passato inosservato, quell’insolita esplosione di violenza di Guy Banister alla fine avrebbe condotto all’unico procedimento giudiziario mai istruito per l’assassinio del presidente Kennedy. Spinto dal dolore sofferto e dall’umiliazione subita, Jack Martin nel giro di un giorno, o giù di lì, avrebbe confidato a un amico l’oscuro sospetto che David Ferrie, un socio di Guy Banister e assiduo frequentatore del suo ufficio, si fosse recato a Dallas nel giorno dell’assassinio per garantire come pilota la fuga degli uomini che vi erano coinvolti.

 

Mentre Jack Martin si trovava mezzo svenuto all’ospedale, quel venerdì notte, il flusso delle notizie provenienti da Dallas, fino ad allora scarse e confuse, improvvisamente si modificò. Una vera e propria cascata di bollettini incominciò a sgorgare dall’apparecchio televisivo. A partire dal giorno seguente, il nome di Lee Harvey Oswald sarebbe stato ripetuto con una tale insistenza dai media che sarebbe diventato un nome familiare nel mondo intero. I riepiloghi si succedevano sempre più rapidamente, con sempre maggiori dettagli riguardanti la sua permanenza a New Orleans nel corso dell’estate precedente l’assassinio. Anche se personalmente non avevo motivo di dubitare della versione ufficiale dell’assassino solitario, che stava tanto rapidamente prendendo forma nei resoconti dei media, non potevo ignorare i tre mesi vissuti da Lee Harvey Oswald in città. La connessione con New Orleans significava che, per quanto marginale potesse risultare, il mio ufficio di procuratore avrebbe dovuto indagare sui possibili contatti avuti da Oswald nella nostra giurisdizione.




Decisi immediatamente di organizzare una riunione speciale con una mezza dozzina dei membri del mio staff. La domenica pomeriggio, i procuratori aggiunti del distretto e gli addetti alle indagini presero posto assieme a me nel mio ufficio. Riunioni del genere nel fine settimana erano diventate per noi abituali, ogni volta che un delitto avvenuto nell’ambito nazionale indicava una pista che portava a New Orleans.

 

Nel corso dell’esame di tutti i possibili collegamenti avuti da Oswald in città, scoprimmo che il sospetto assassino era stato visto, nel corso dell’estate, con un uomo chiamato David Ferrie. Misi tutti i miei immediatamente al telefono per indagare su un possibile rapporto Oswald-Ferrie.

 

Avevo incontrato David Ferrie una sola volta. Quell’incontro era stato casuale, ma anche difficile da dimenticare. Appena dopo la mia elezione a procuratore distrettuale, me ne stavo passeggiando lungo Carondelet Street, presso Canal Street. Con la vaga impressione che l’andamento del traffico stesse per permettermi di passare, cominciai ad accelerare il passo. Proprio in quel momento, un uomo mi afferrò con entrambe le braccia e mi arrestò con decisione.

 

Il viso atteggiato in un ghigno feroce aveva un che della maschera di Halloween. Le sue sopracciglia erano chiaramente posticce, una visibilmente più alta dell’altra; una parrucca rossiccia e trasandata, fatta in casa, era attaccata di traverso sulla sua testa. Mi guardava fisso negli occhi. Le macchine ci venivano quasi addosso, mentre mi teneva bloccato e avevo molta difficoltà a udire quanto mi diceva nel bel mezzo di tutto quel frastuono di clacson.




Mi urlò le sue congratulazioni per la mia recente elezione. Come io feci la mossa di scansare un’automobile, per potere almeno liberarmi dalla sua stretta, mi gridò che era un investigatore privato. Il nostro breve incontro per strada si era verificato in un certo periodo del 1962, quindi l’anno precedente.

 

Quei ricordi ne fecero emergere altri. Mi rammentai della notorietà di Ferrie come avventuriero e pilota. Dal momento che anch’io ero stato pilota durante la seconda guerra mondiale, la sua fama di sapere sia atterrare sia decollare in un fazzoletto di terra mi era rimasta impressa nella mente. E così vennero fuori altri frammenti, il suo coinvolgimento nella fallita invasione di Cuba alla Baia dei Porci, le attività anticastriste, i suoi frequenti discorsi a gruppi di veterani sul patriottismo e l’anticomunismo. Il nome di David Ferrie era molto conosciuto a New Orleans.

 

In quel momento, uno dei miei viceprocuratori, Herman Kohlman, arrivò con alcune notizie allarmanti. Aveva saputo che Ferrie aveva compiuto un viaggio precipitoso in Texas solo quarantotto ore prima, il giorno stesso dell’assassinio. La fonte, che Kohlman aveva verificato come completamente attendibile, era l’uomo con cui Jack Martin si era confidato dopo essere stato percosso con il calcio della pistola da Guy Banister. Martin gli aveva parlato dei suoi gravi sospetti riguardo all’improvvisa partenza di Ferrie per il Texas.




Una semplice occhiata al nostro schedario ci rivelò un rapporto di polizia basato su una querela contro Ferrie. Riguardava un reato minore ed era stata proceduralmente ritirata, ma il rapporto ci conduceva all’attuale residenza di Ferrie in Louisiana, in Avenue Parkway. Mandai Frank Klein con un gruppo di investigatori sul luogo. In una gabbia per conigli malridotta all’interno della camera ammobiliata di Ferrie, trovarono un assortimento di carabine dell’esercito, caricatori, borracce, equipaggiamenti militari e, appesa al muro, una grande carta di Cuba. Oltre alla generale confusione, c’erano anche due giovanotti che attendevano il suo arrivo. Affermarono che Ferrie si era recato in Texas con la sua macchina all’inizio del pomeriggio di venerdì, approssimativamente un’ora dopo l’assassinio.

 

La loro versione dell’orario venne confermata in seguito da altri testimoni che avevano visto Ferrie a New Orleans attorno al mezzogiorno del 22 novembre. Questo significava che probabilmente Ferrie non era stato uno dei piloti della fuga, come credeva Jack Martin, ma nemmeno ci consentiva di considerarlo completamente estraneo all’omicidio.

 

Feci picchettare il suo appartamento per ventiquattro ore in attesa del suo ritorno. La mattina di lunedì, Ferrie apparve e venne condotto nel mio ufficio per essere interrogato. Era vestito, come al solito, come se fosse stato colpito da un cannone mentre si trovava in un magazzino dell’Esercito della Salvezza. Mi apparve assolutamente sconcertante come quando lo avevo visto l’ultima volta nel 1962 in Carondelet Street. Negò di avere mai conosciuto Lee Oswald, ma ammise che si era recato a Houston nel primo pomeriggio di venerdì.




Considerando tutta quella esuberante confidenza che mi aveva propinato in occasione del nostro ultimo incontro, ora era, invece, chiaramente a disagio e nervoso. Più parlava, e meno la sua storia stava insieme. Per esempio, quando gli chiesi la ragione della sua partenza da New Orleans soltanto un’ora dopo l’assassinio, mi rispose che era andato a Houston per pattinare sul ghiaccio. Quando poi gli domandai perché avesse scelto uno dei giorni più temporaleschi dell’anno per andare a pattinare, non riuscì a trovare una risposta adeguata.

 

In seguito, avremmo appreso come, alla pista di pattinaggio, non si fosse mai messo i pattini, ma avesse piuttosto trascorso tutto il suo tempo a un telefono pubblico, facendo e ricevendo delle chiamate. Avremmo anche saputo che Ferrie aveva continuato il suo viaggio proseguendo da Houston per Galveston, nel Texas, dove riuscì a essere presente quando Jack Ruby chiamò la notte prima di sparare a Oswald, uccidendolo. Inutile dire che questi dettagli difficilmente sarebbero potuti venire fuori dallo stesso Ferrie quando lo interrogai.

 

In base alle sue risposte, non trovai nulla che potesse collegare direttamente Ferrie all’assassinio, tuttavia arrivai alla conclusione che fosse necessaria un’ulteriore indagine su questo strano individuo e su quella sua gita che era stata decisa, curiosamente, proprio in quel particolare momento. Ordinai ai miei investigatori di portarlo al primo distretto di polizia, registrarlo e trattenerlo perché fosse poi interrogato dall’FBI.




Ero fiducioso che un’indagine dell’FBI su David Ferrie e su altre questioni, anche solo lontanamente connesse all’uccisione del presidente, sarebbe stata esauriente. Probabilmente questa fiducia era un atteggiamento tipico della maggioranza degli americani nel 1963. Comunque, nel mio caso, era qualcosa anche di più consistente, a causa della tradizione nella quale ero cresciuto. Mio padre era stato procuratore legale come suo padre, prima di lui. Quindi, per un processo di osmosi e di assimilazione culturale, avevo acquisito un grande rispetto per la legge.

 

Thomas Jefferson Garrison, il mio nonno paterno, era stato il rappresentante legale della società ferroviaria Northwestern Railway, con sede a Chicago. Uno dei membri del suo staff, un giovane avvocato di nome Clarence Darrow, aveva procurato a mio nonno molti dispiaceri per la sua tendenza a ribellarsi contro alcune delle più rigide consuetudini procedurali del diritto. Mi fu riferito che mio nonno tirò un gran sospiro di sollievo quando Darrow si dimise dallo staff dei legali della compagnia ferroviaria, per mettersi al servizio del leader socialista Eugene Debs. Darrow, come è ben noto, finì per diventare uno dei più grandi penalisti d’America. Per quanto stimassi mio nonno, per ironia della sorte, finii per provare una grande ammirazione per le ineguagliate capacità di Darrow come penalista e per la sua grande passione per la giustizia. Per questa ragione (ma forse anche a causa del suo rapporto con mio nonno), uno dei miei figli si chiama Darrow.

 

Il mio nonno materno, William Oliver Robinson, era uno degli uomini più patriottici d’America. Veniva da una famiglia in prevalenza irlandese ed era alto qualcosa come due metri e venti. (I suoi due fratelli erano sui due metri e dieci.) Non aveva nessuna pazienza con gli sciocchi e con chiunque non mostrasse di credere che gli Stati Uniti fossero il più grande paese al mondo. Uomo di successo nel settore immobiliare e in quello del commercio del carbone, aveva un portamento ritto come un palo, portava dei magnifici baffi fine secolo, vestiva elegantemente, con abiti confezionati presso una sartoria di New York. (Ovviamente a quei tempi nei negozi non esistevano abiti già pronti per uomini di quella taglia.)




In qualità di uomo d’affari fra i più importanti di Knoxville, nello Iowa, e senza dubbio anche per la sua spiccata personalità, era l’individuo che per lo più rappresentava la città alla stazione ferroviaria quando un importante notabile, spostandosi in treno, vi faceva tappa. Quando ciò avveniva, si vestiva col costume rosso, bianco e blu dello zio Sam, cappello a cilindro compreso, per dare una dimostrazione del patriottismo dei cittadini di Knoxville. Possiedo una fotografia di lui, solenne e imponente in tutto il suo splendore, mentre ossequia il presidente William Howard Taft appena sceso dal treno.

 

Sono nato con il patriottismo di Knoxville nel sangue e sono diventato adulto a New Orleans, ma gli anni della gioventù più importanti per la mia formazione sono stati quelli della vita militare. Sono entrato nell’esercito un anno prima di Pearl Harbour, a diciannove anni, e l’esercito mi piacque tanto che finì per sostituire la famiglia. Dopo essere stato nominato tenente di artiglieria nel 1942, mi offrii volontario per diventare pilota su quegli aerei «cavalletta» che avevano il compito di individuare gli obiettivi nemici. Dopo aver seguito il corso di istruzione tattica presso Fort Sill, nell’Oklahoma, venni inviato in Europa dove volai in azioni di guerra oltre le linee del fronte prima in Francia e poi in Germania.

 

Come gli altri uomini della mia unità, divenni pilota d’artiglieria principalmente per amore dell’avventura. Comunque, volavo anche per sostenere lo sforzo del governo degli Stati Uniti per sconfiggere il nazismo e il male che rappresentava. E se pure ero consapevole di questo fatto, non lo sono mai stato così tanto come nel giorno in cui giungemmo a Dachau, appena dopo l’arrivo della fanteria appoggiata dalla mia unità di artiglieria, quando prendemmo il campo nazista e vedemmo tutta quella desolazione, i corpi denutriti degli internati morti, accatastati gli uni sugli altri, a fianco del forno crematorio con le sue enormi ciminiere di mattoni anneriti, ricoperti da quella spessa coltre di fuliggine.




Nel corso dei cinque anni passati nell’esercito durante la seconda guerra mondiale e dei diciotto come ufficiale di artiglieria della Guardia Nazionale, non ho mai provato delusioni di alcun genere.

 

Per me, l’esercito era sinonimo di governo degli Stati Uniti. Devo aggiungere che appartenevo ancora alla Guardia Nazionale, e ancora identificavo l’esercito con il governo degli Stati Uniti, quando il presidente Kennedy venne assassinato e arrestai David Ferrie.

 

Dopo il mio ritorno alla vita civile, con la fine della seconda guerra mondiale, seguii la tradizione della mia famiglia e feci gli studi di diritto a Tulane, ottenendo la laurea in legge e il master di diritto civile. Poco tempo dopo, entrai a fare parte dell’FBI. Come agente speciale a Seattle e a Tacoma, ero molto impressionato della competenza e dell’efficienza del Bureau.

 

Tuttavia, mi annoiava molto dover suonare i campanelli per fare cose come l’indagare sulla regolarità delle associazioni degli aspiranti a un impiego per conto delle imprese. Per questo motivo presi la decisione di ritornare alla professione giuridica.

 

Diventai procuratore distrettuale di New Orleans quasi per caso. Richard Dowling, che era il titolare dell’ufficio della procura alla fine degli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta, nel periodo in cui praticavo come avvocato la libera professione in uno studio legale, era stato un eccellente procuratore per le cause civili e le vertenze locali. Tuttavia, l’amministrazione del suo ufficio istruzione lasciava alquanto a desiderare.

 

Come ex viceprocuratore distrettuale, un lavoro che mi aveva occupato negli anni dal 1954 al 1958, provavo un forte interesse per questo tipo di incarico.

 

Quando Dowling si presentò per la rielezione nel 1961, io mi candidai contro di lui assieme a un certo numero di altri aspiranti.




Non avevo nessuna possibilità di vincere. A ogni modo pensai che il mio concorrere all’elezione avrebbe potuto favorire qualcun altro in modo da ottenere un migliore servizio giudiziario. Durante la mia campagna, io non me ne andai per le strade a stringere le mani e ad assestare pacche sulle spalle.

 

Non cercai di organizzare riunioni. Non feci spedizioni di lettere in mio favore, e non sollecitai nessun intervento da parte di associazioni politiche. Mi limitai semplicemente a parlare alla gente attraverso la televisione. E dal momento che davvero non avevo alcun supporto organizzativo da parte di chicchessia, eccettuato quello di un gruppetto di amici, mi ero riproposto di apparire alla televisione da solo, per sottolineare la mia indipendenza, per trasformare quindi quella mancanza di appoggio politico in un fattore che tornasse a mio vantaggio.

 

Finì con un testa a testa fra me e Dowling e, inaspettatamente, ottenni il sostegno del quotidiano locale; al secondo turno, condussi la stessa campagna elettorale del primo turno.

 

Con mia sorpresa, e con lo stupore di parecchi altri, fui eletto e presi possesso della mia carica il 3 marzo 1962. Era la prima volta nella storia di New Orleans che a una qualunque carica cittadina venisse eletto qualcuno privo completamente di appoggio politico.

 

Di conseguenza, diedi alla città un ufficio della procura con un marchio inedito di assoluta e reale indipendenza. Fin dall’inizio, scelsi i miei viceprocuratori fra i migliori laureati in diritto dei dintorni e fra i migliori giovani procuratori legali della città.




Nel mio staff non risultava nessun raccomandato politico. Perciò noi tutti eravamo in grado di agire senza nessun obbligo di contropartita verso qualsiasi individuo o qualsivoglia organizzazione.

 

Avevo quarantatré anni ed ero diventato procuratore distrettuale da un anno e nove mesi quando John Kennedy venne assassinato. Ero un patriota vecchio stile, un prodotto della mia famiglia, della mia esperienza militare e dei miei anni trascorsi nella professione legale. E non mi sarei mai immaginato che il governo sarebbe giunto al punto di deludere i cittadini di questa nazione. Per questo motivo, quando l’FBI rilasciò David Ferrie con grande speditezza, affermando che non erano state trovate prove di un collegamento con l’assassinio, io ne presi atto.3 Io supposi che il Bureau avesse sufficientemente indagato sul viaggio di Ferrie e lo avesse trovato privo d’importanza. Quello che mi irritò un poco fu una gratuita affermazione dell’agente speciale responsabile dell’ufficio di New Orleans che disse che l’arresto di Ferrie non era stata un’idea dell’FBI ma del procuratore distrettuale.

 

Si trattava di una dichiarazione senza precedenti di un funzionario addetto al rispetto della legge che prendeva le distanze da un altro.

 

Avrei potuto aspettarmi una qualche osservazione dall’avvocato difensore di Ferrie, ma non certo da un funzionario governativo. Io supponevo che il governo federale e il sottoscritto stessero dalla stessa parte. A ogni modo, ignorai quel commento e tornai a occuparmi dei furti con scasso, dei furti a mano armata, e di altri crimini locali.

(J. Garrison)