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ben stabilito (7/8)
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due fotogrammi
invertiti (10)
Prosegue ancora?
Sì certo! verso
la boscosa collina!
(dedicato a Woody) [11]
STAVO lavorando alla mia scrivania presso la sede del tribunale, quale procuratore distrettuale di New Orleans, quando la porta si spalancò e il mio viceprocuratore si precipitò dentro gridando: ‘Hanno sparato al presidente!’ Erano da poco passate le 12.30 di venerdì 22 novembre dell’anno 1963.
Oggi,
un quarto di secolo da allora, ricordo la mia confusione, la mia incredulità.
Dopo avere afferrato quello che Frank Klein mi stava dicendo, mi aggrappai alla
speranza che Kennedy fosse stato solamente ferito e che sarebbe sopravvissuto.
Frank
e io ci dirigemmo al ristorante Tortorich, in Royal Street nel quartiere
francese. Era un posto silenzioso e non affollato in cui si trovava un
apparecchio televisivo, in una delle sale da pranzo. Durante il tragitto,
l’autoradio annunciò che John Kennedy era stato assassinato. Il tempo restante
di quel percorso trascorse in un assoluto silenzio.
Al
ristorante, i clienti di mezzogiorno se ne stavano attoniti con gli occhi sbarrati
davanti al televisore posto in alto in uno degli angoli della sala. Provai un
senso di irrealtà mentre l’interminabile reportage proveniente da Dallas
continuava a inondare il locale. Ai tavoli la conversazione languiva. Si
avvicinò un cameriere e così ordinammo qualche cosa. Quando il cibo arrivò, ci
mettemmo a tormentarlo distrattamente con le posate, ma nessuno dei due riuscì
a mangiare.
Le informazioni provenienti dal televisore erano sconclusionate. Anche se il Secret Service, l’FBI e la polizia di Dallas, oltre alla grande massa degli spettatori, si erano trovati tutti davanti alla scena dell’assassinio di Dallas, per almeno due ore quelle voci agitate dei telecronisti non riuscirono a comunicare nessun fatto oggettivo riguardante l’individuo, o gli individui che avevano sparato. In ogni caso, eravamo come ipnotizzati dalla grande confusione, dagli interminabili sproloqui, dall’attrazione che esercitava su di noi quella trasmissione.
La
preoccupazione per quello che era successo al presidente e anche per il colpo
che noi stessi avevamo subito, fece sì che nessuno lasciasse il ristorante
prima del pomeriggio inoltrato. Gli uomini d’affari e i professionisti che
erano lì per colazione cancellarono i loro appuntamenti. Frank e io facemmo le
nostre telefonate all’ufficio e poi ritornammo subito davanti al televisore.
In
seguito, a metà pomeriggio, improvvisamente venne annunciato l’arresto di un
uomo accusato dell’assassinio. Circa quindici agenti della polizia di Dallas lo
avevano catturato mentre se ne stava seduto in una sala cinematografica, a una
considerevole distanza dal luogo dell’assassinio. Quell’arresto dilazionato
ebbe quasi l’effetto dello scoppio di una bomba proveniente dal televisore, e
il lungo silenzio nella sala del ristorante a quel punto cessò. Ora si poteva
avvertire un’improvvisa esplosione di rabbia, l’avanzare di un’ondata di odio
contro quel giovane che prima era soltanto uno sconosciuto.
Il
suo nome era Lee Harvey Oswald.
Mentre io e Frank Klein eravamo come paralizzati davanti al televisore del Tortorich, un incidente abbastanza insolito si verificava presso l’ufficio di Guy Banister, circa dodici isolati più avanti, dall’altro lato di Canal Street. O meglio qualcosa di insolito per Banister, un ex agente speciale della sezione dell’FBI di Chicago, poi anche vicecommissario della polizia di New Orleans, un uomo che nel corso della sua vita aveva sempre avuto la reputazione di intransigente difensore della legge e dell’ordine.
Conoscevo
Banister abbastanza bene. Quando stava al dipartimento di polizia, pranzavamo
insieme di quando in quando scambiandoci i racconti più coloriti dei tempi
trascorsi nell’ambito dell’FBI. Era un uomo con un viso rubicondo, due occhi
blu che ti fissavano dritto, vestito con grande eleganza e con una piccola rosa
sempre all’occhiello della sua giacca.
Anche
se aveva l’abitudine di gustarsi qualche occasionale martini presso la
International House, Banister non era mai stato conosciuto come un grande
bevitore durante le ore della giornata. Era un uomo austero, un individuo molto
posato. A ogni modo, durante il lungo pomeriggio della trasmissione televisiva
sull’assassinio di Dallas, l’ex uomo dell’FBI si impegnò nel nobile sforzo di
ripulire di tutti i liquori il Katzenjammer Bar al numero 500 di Camp Street.
Come il sole cominciò a scendere sul vicino Mississippi, fece ritorno al suo
ufficio con Jack Martin, che era stato a bere con lui. A questo punto, Banister
iniziò una disputa accalorata con Martin, un tempo detective privato e ora
tirapiedi nel suo ufficio.
Il
guaio arrivò quando Martin si permise di fare un’osservazione poco giudiziosa.
Aveva informato Banister, con l’incalzare dei batti e ribatti, che non si era
dimenticato di certe cose un po’ strane che erano successe nel suo ufficio
durante l’estate. A quel punto Banister aveva tirato fuori la sua Magnum 357 e
aveva cominciato con questa a massaggiare per bene la testa di Martin.
Una Magnum 357 non è un’arma qualsiasi. È particolarmente pesante per poter controbilanciare l’effetto della notevole accelerazione che, con lo sparo, si verifica nella canna. Il breve alterco trasformò, nel giro di un minuto o due, Martin in un povero individuo sanguinante e coperto di lividi, e così una pattuglia di polizia lo raccattò e lo trasportò al Charity Hospital nella Tulane Avenue. 2 Come un minuscolo seme, il cui germoglio a quel tempo sarebbe passato inosservato, quell’insolita esplosione di violenza di Guy Banister alla fine avrebbe condotto all’unico procedimento giudiziario mai istruito per l’assassinio del presidente Kennedy. Spinto dal dolore sofferto e dall’umiliazione subita, Jack Martin nel giro di un giorno, o giù di lì, avrebbe confidato a un amico l’oscuro sospetto che David Ferrie, un socio di Guy Banister e assiduo frequentatore del suo ufficio, si fosse recato a Dallas nel giorno dell’assassinio per garantire come pilota la fuga degli uomini che vi erano coinvolti.
Mentre
Jack Martin si trovava mezzo svenuto all’ospedale, quel venerdì notte, il
flusso delle notizie provenienti da Dallas, fino ad allora scarse e confuse,
improvvisamente si modificò. Una vera e propria cascata di bollettini
incominciò a sgorgare dall’apparecchio televisivo. A partire dal giorno
seguente, il nome di Lee Harvey Oswald sarebbe stato ripetuto con una tale
insistenza dai media che sarebbe diventato un nome familiare nel mondo intero.
I riepiloghi si succedevano sempre più rapidamente, con sempre maggiori
dettagli riguardanti la sua permanenza a New Orleans nel corso dell’estate
precedente l’assassinio. Anche se personalmente non avevo motivo di dubitare
della versione ufficiale dell’assassino solitario, che stava tanto rapidamente
prendendo forma nei resoconti dei media, non potevo ignorare i tre mesi vissuti
da Lee Harvey Oswald in città. La connessione con New Orleans significava che,
per quanto marginale potesse risultare, il mio ufficio di procuratore avrebbe
dovuto indagare sui possibili contatti avuti da Oswald nella nostra
giurisdizione.
Decisi immediatamente di organizzare una riunione speciale con una mezza dozzina dei membri del mio staff. La domenica pomeriggio, i procuratori aggiunti del distretto e gli addetti alle indagini presero posto assieme a me nel mio ufficio. Riunioni del genere nel fine settimana erano diventate per noi abituali, ogni volta che un delitto avvenuto nell’ambito nazionale indicava una pista che portava a New Orleans.
Nel
corso dell’esame di tutti i possibili collegamenti avuti da Oswald in città,
scoprimmo che il sospetto assassino era stato visto, nel corso dell’estate, con
un uomo chiamato David Ferrie. Misi tutti i miei immediatamente al telefono per
indagare su un possibile rapporto Oswald-Ferrie.
Avevo
incontrato David Ferrie una sola volta. Quell’incontro era stato casuale, ma
anche difficile da dimenticare. Appena dopo la mia elezione a procuratore
distrettuale, me ne stavo passeggiando lungo Carondelet Street, presso Canal
Street. Con la vaga impressione che l’andamento del traffico stesse per
permettermi di passare, cominciai ad accelerare il passo. Proprio in quel
momento, un uomo mi afferrò con entrambe le braccia e mi arrestò con decisione.
Il
viso atteggiato in un ghigno feroce aveva un che della maschera di Halloween.
Le sue sopracciglia erano chiaramente posticce, una visibilmente più alta
dell’altra; una parrucca rossiccia e trasandata, fatta in casa, era attaccata
di traverso sulla sua testa. Mi guardava fisso negli occhi. Le macchine ci
venivano quasi addosso, mentre mi teneva bloccato e avevo molta difficoltà a
udire quanto mi diceva nel bel mezzo di tutto quel frastuono di clacson.
Mi urlò le sue congratulazioni per la mia recente elezione. Come io feci la mossa di scansare un’automobile, per potere almeno liberarmi dalla sua stretta, mi gridò che era un investigatore privato. Il nostro breve incontro per strada si era verificato in un certo periodo del 1962, quindi l’anno precedente.
Quei
ricordi ne fecero emergere altri. Mi rammentai della notorietà di Ferrie come
avventuriero e pilota. Dal momento che anch’io ero stato pilota durante la
seconda guerra mondiale, la sua fama di sapere sia atterrare sia decollare in
un fazzoletto di terra mi era rimasta impressa nella mente. E così vennero
fuori altri frammenti, il suo coinvolgimento nella fallita invasione di Cuba
alla Baia dei Porci, le attività anticastriste, i suoi frequenti discorsi a
gruppi di veterani sul patriottismo e l’anticomunismo. Il nome di David Ferrie
era molto conosciuto a New Orleans.
In
quel momento, uno dei miei viceprocuratori, Herman Kohlman, arrivò con alcune
notizie allarmanti. Aveva saputo che Ferrie aveva compiuto un viaggio
precipitoso in Texas solo quarantotto ore prima, il giorno stesso
dell’assassinio. La fonte, che Kohlman aveva verificato come completamente
attendibile, era l’uomo con cui Jack Martin si era confidato dopo essere stato percosso
con il calcio della pistola da Guy Banister. Martin gli aveva parlato dei suoi
gravi sospetti riguardo all’improvvisa partenza di Ferrie per il Texas.
Una semplice occhiata al nostro schedario ci rivelò un rapporto di polizia basato su una querela contro Ferrie. Riguardava un reato minore ed era stata proceduralmente ritirata, ma il rapporto ci conduceva all’attuale residenza di Ferrie in Louisiana, in Avenue Parkway. Mandai Frank Klein con un gruppo di investigatori sul luogo. In una gabbia per conigli malridotta all’interno della camera ammobiliata di Ferrie, trovarono un assortimento di carabine dell’esercito, caricatori, borracce, equipaggiamenti militari e, appesa al muro, una grande carta di Cuba. Oltre alla generale confusione, c’erano anche due giovanotti che attendevano il suo arrivo. Affermarono che Ferrie si era recato in Texas con la sua macchina all’inizio del pomeriggio di venerdì, approssimativamente un’ora dopo l’assassinio.
La
loro versione dell’orario venne confermata in seguito da altri testimoni che
avevano visto Ferrie a New Orleans attorno al mezzogiorno del 22 novembre.
Questo significava che probabilmente Ferrie non era stato uno dei piloti della
fuga, come credeva Jack Martin, ma nemmeno ci consentiva di considerarlo
completamente estraneo all’omicidio.
Feci
picchettare il suo appartamento per ventiquattro ore in attesa del suo ritorno.
La mattina di lunedì, Ferrie apparve e venne condotto nel mio ufficio per
essere interrogato. Era vestito, come al solito, come se fosse stato colpito da
un cannone mentre si trovava in un magazzino dell’Esercito della Salvezza. Mi
apparve assolutamente sconcertante come quando lo avevo visto l’ultima volta
nel 1962 in Carondelet Street. Negò di avere mai conosciuto Lee Oswald, ma
ammise che si era recato a Houston nel primo pomeriggio di venerdì.
Considerando tutta quella esuberante confidenza che mi aveva propinato in occasione del nostro ultimo incontro, ora era, invece, chiaramente a disagio e nervoso. Più parlava, e meno la sua storia stava insieme. Per esempio, quando gli chiesi la ragione della sua partenza da New Orleans soltanto un’ora dopo l’assassinio, mi rispose che era andato a Houston per pattinare sul ghiaccio. Quando poi gli domandai perché avesse scelto uno dei giorni più temporaleschi dell’anno per andare a pattinare, non riuscì a trovare una risposta adeguata.
In
seguito, avremmo appreso come, alla pista di pattinaggio, non si fosse mai
messo i pattini, ma avesse piuttosto trascorso tutto il suo tempo a un telefono
pubblico, facendo e ricevendo delle chiamate. Avremmo anche saputo che Ferrie
aveva continuato il suo viaggio proseguendo da Houston per Galveston, nel
Texas, dove riuscì a essere presente quando Jack Ruby chiamò la notte prima di
sparare a Oswald, uccidendolo. Inutile dire che questi dettagli difficilmente
sarebbero potuti venire fuori dallo stesso Ferrie quando lo interrogai.
In
base alle sue risposte, non trovai nulla che potesse collegare direttamente
Ferrie all’assassinio, tuttavia arrivai alla conclusione che fosse necessaria
un’ulteriore indagine su questo strano individuo e su quella sua gita che era
stata decisa, curiosamente, proprio in quel particolare momento. Ordinai ai
miei investigatori di portarlo al primo distretto di polizia, registrarlo e
trattenerlo perché fosse poi interrogato dall’FBI.
Ero fiducioso che un’indagine dell’FBI su David Ferrie e su altre questioni, anche solo lontanamente connesse all’uccisione del presidente, sarebbe stata esauriente. Probabilmente questa fiducia era un atteggiamento tipico della maggioranza degli americani nel 1963. Comunque, nel mio caso, era qualcosa anche di più consistente, a causa della tradizione nella quale ero cresciuto. Mio padre era stato procuratore legale come suo padre, prima di lui. Quindi, per un processo di osmosi e di assimilazione culturale, avevo acquisito un grande rispetto per la legge.
Thomas
Jefferson Garrison, il mio nonno paterno, era stato il rappresentante legale
della società ferroviaria Northwestern Railway, con sede a Chicago. Uno dei membri
del suo staff, un giovane avvocato di nome Clarence Darrow, aveva procurato a
mio nonno molti dispiaceri per la sua tendenza a ribellarsi contro alcune delle
più rigide consuetudini procedurali del diritto. Mi fu riferito che mio nonno
tirò un gran sospiro di sollievo quando Darrow si dimise dallo staff dei legali
della compagnia ferroviaria, per mettersi al servizio del leader socialista
Eugene Debs. Darrow, come è ben noto, finì per diventare uno dei più grandi
penalisti d’America. Per quanto stimassi mio nonno, per ironia della sorte,
finii per provare una grande ammirazione per le ineguagliate capacità di Darrow
come penalista e per la sua grande passione per la giustizia. Per questa
ragione (ma forse anche a causa del suo rapporto con mio nonno), uno dei miei
figli si chiama Darrow.
Il
mio nonno materno, William Oliver Robinson, era uno degli uomini più
patriottici d’America. Veniva da una famiglia in prevalenza irlandese ed era
alto qualcosa come due metri e venti. (I suoi due fratelli erano sui due metri
e dieci.) Non aveva nessuna pazienza con gli sciocchi e con chiunque non
mostrasse di credere che gli Stati Uniti fossero il più grande paese al mondo.
Uomo di successo nel settore immobiliare e in quello del commercio del carbone,
aveva un portamento ritto come un palo, portava dei magnifici baffi fine
secolo, vestiva elegantemente, con abiti confezionati presso una sartoria di
New York. (Ovviamente a quei tempi nei negozi non esistevano abiti già pronti
per uomini di quella taglia.)
In qualità di uomo d’affari fra i più importanti di Knoxville, nello Iowa, e senza dubbio anche per la sua spiccata personalità, era l’individuo che per lo più rappresentava la città alla stazione ferroviaria quando un importante notabile, spostandosi in treno, vi faceva tappa. Quando ciò avveniva, si vestiva col costume rosso, bianco e blu dello zio Sam, cappello a cilindro compreso, per dare una dimostrazione del patriottismo dei cittadini di Knoxville. Possiedo una fotografia di lui, solenne e imponente in tutto il suo splendore, mentre ossequia il presidente William Howard Taft appena sceso dal treno.
Sono
nato con il patriottismo di Knoxville nel sangue e sono diventato adulto a New
Orleans, ma gli anni della gioventù più importanti per la mia formazione sono
stati quelli della vita militare. Sono entrato nell’esercito un anno prima di
Pearl Harbour, a diciannove anni, e l’esercito mi piacque tanto che finì per
sostituire la famiglia. Dopo essere stato nominato tenente di artiglieria nel
1942, mi offrii volontario per diventare pilota su quegli aerei «cavalletta»
che avevano il compito di individuare gli obiettivi nemici. Dopo aver seguito
il corso di istruzione tattica presso Fort Sill, nell’Oklahoma, venni inviato
in Europa dove volai in azioni di guerra oltre le linee del fronte prima in
Francia e poi in Germania.
Come
gli altri uomini della mia unità, divenni pilota d’artiglieria principalmente
per amore dell’avventura. Comunque, volavo anche per sostenere lo sforzo del
governo degli Stati Uniti per sconfiggere il nazismo e il male che
rappresentava. E se pure ero consapevole di questo fatto, non lo sono mai stato
così tanto come nel giorno in cui giungemmo a Dachau, appena dopo l’arrivo
della fanteria appoggiata dalla mia unità di artiglieria, quando prendemmo il
campo nazista e vedemmo tutta quella desolazione, i corpi denutriti degli
internati morti, accatastati gli uni sugli altri, a fianco del forno crematorio
con le sue enormi ciminiere di mattoni anneriti, ricoperti da quella spessa
coltre di fuliggine.
Nel corso dei cinque anni passati nell’esercito durante la seconda guerra mondiale e dei diciotto come ufficiale di artiglieria della Guardia Nazionale, non ho mai provato delusioni di alcun genere.
Per
me, l’esercito era sinonimo di governo degli Stati Uniti. Devo aggiungere che
appartenevo ancora alla Guardia Nazionale, e ancora identificavo l’esercito con
il governo degli Stati Uniti, quando il presidente Kennedy venne assassinato e
arrestai David Ferrie.
Dopo
il mio ritorno alla vita civile, con la fine della seconda guerra mondiale,
seguii la tradizione della mia famiglia e feci gli studi di diritto a Tulane,
ottenendo la laurea in legge e il master di diritto civile. Poco tempo dopo,
entrai a fare parte dell’FBI. Come agente speciale a Seattle e a Tacoma, ero
molto impressionato della competenza e dell’efficienza del Bureau.
Tuttavia,
mi annoiava molto dover suonare i campanelli per fare cose come l’indagare
sulla regolarità delle associazioni degli aspiranti a un impiego per conto
delle imprese. Per questo motivo presi la decisione di ritornare alla
professione giuridica.
Diventai
procuratore distrettuale di New Orleans quasi per caso. Richard Dowling, che
era il titolare dell’ufficio della procura alla fine degli anni Cinquanta e nei
primi anni Sessanta, nel periodo in cui praticavo come avvocato la libera
professione in uno studio legale, era stato un eccellente procuratore per le
cause civili e le vertenze locali. Tuttavia, l’amministrazione del suo ufficio
istruzione lasciava alquanto a desiderare.
Come
ex viceprocuratore distrettuale, un lavoro che mi aveva occupato negli anni dal
1954 al 1958, provavo un forte interesse per questo tipo di incarico.
Quando
Dowling si presentò per la rielezione nel 1961, io mi candidai contro di lui
assieme a un certo numero di altri aspiranti.
Non avevo nessuna possibilità di vincere. A ogni modo pensai che il mio concorrere all’elezione avrebbe potuto favorire qualcun altro in modo da ottenere un migliore servizio giudiziario. Durante la mia campagna, io non me ne andai per le strade a stringere le mani e ad assestare pacche sulle spalle.
Non
cercai di organizzare riunioni. Non feci spedizioni di lettere in mio favore, e
non sollecitai nessun intervento da parte di associazioni politiche. Mi limitai
semplicemente a parlare alla gente attraverso la televisione. E dal momento che
davvero non avevo alcun supporto organizzativo da parte di chicchessia,
eccettuato quello di un gruppetto di amici, mi ero riproposto di apparire alla
televisione da solo, per sottolineare la mia indipendenza, per trasformare
quindi quella mancanza di appoggio politico in un fattore che tornasse a mio
vantaggio.
Finì
con un testa a testa fra me e Dowling e, inaspettatamente, ottenni il sostegno
del quotidiano locale; al secondo turno, condussi la stessa campagna elettorale
del primo turno.
Con
mia sorpresa, e con lo stupore di parecchi altri, fui eletto e presi possesso
della mia carica il 3 marzo 1962. Era la prima volta nella storia di New
Orleans che a una qualunque carica cittadina venisse eletto qualcuno privo
completamente di appoggio politico.
Di
conseguenza, diedi alla città un ufficio della procura con un marchio inedito
di assoluta e reale indipendenza. Fin dall’inizio, scelsi i miei
viceprocuratori fra i migliori laureati in diritto dei dintorni e fra i
migliori giovani procuratori legali della città.
Nel mio staff non risultava nessun raccomandato politico. Perciò noi tutti eravamo in grado di agire senza nessun obbligo di contropartita verso qualsiasi individuo o qualsivoglia organizzazione.
Avevo
quarantatré anni ed ero diventato procuratore distrettuale da un anno e nove
mesi quando John Kennedy venne assassinato. Ero un patriota vecchio stile, un
prodotto della mia famiglia, della mia esperienza militare e dei miei anni trascorsi
nella professione legale. E non mi sarei mai immaginato che il governo sarebbe
giunto al punto di deludere i cittadini di questa nazione. Per questo motivo,
quando l’FBI rilasciò David Ferrie con grande speditezza, affermando che non
erano state trovate prove di un collegamento con l’assassinio, io ne presi
atto.3 Io supposi che il Bureau avesse sufficientemente indagato sul viaggio di
Ferrie e lo avesse trovato privo d’importanza. Quello che mi irritò un poco fu
una gratuita affermazione dell’agente speciale responsabile dell’ufficio di New
Orleans che disse che l’arresto di Ferrie non era stata un’idea dell’FBI ma del
procuratore distrettuale.
Si
trattava di una dichiarazione senza precedenti di un funzionario addetto al
rispetto della legge che prendeva le distanze da un altro.
Avrei
potuto aspettarmi una qualche osservazione dall’avvocato difensore di Ferrie,
ma non certo da un funzionario governativo. Io supponevo che il governo
federale e il sottoscritto stessero dalla stessa parte. A ogni modo, ignorai
quel commento e tornai a occuparmi dei furti con scasso, dei furti a mano
armata, e di altri crimini locali.
(J. Garrison)
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