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Verso la prima udienza Intervista al difensore
dell’antifascista italiana detenuta nelle carceri magiare. ‘Non c’era alcuna
possibilità che le lesioni potessero essere mortali e lei non appartiene a
nessuna organizzazione criminale’, afferma György Magyar. György Magyar è uno
dei più noti avvocati penalisti ungheresi, oltre che attivista per i diritti
civili e più volte impegnato in politica nella sua Budapest.
Nel 2014 ha vinto il premio antirazzista ‘Miklós Radnóti’
che ogni anno si assegna a chi, in Ungheria, si distingue ‘con il lavoro, la
presa di posizione e l’esempio personale contro razzismo, antisemitismo e ogni
forma di esclusione’. Magyar è anche l’avvocato chiamato a rappresentare Ilaria
Salis davanti alla corte di Budapest il prossimo 29 gennaio.
La
situazione carceraria in Ungheria è critica e, spesso e volentieri, il paese di
Viktor Orbán è finito al centro delle polemiche per questioni legate al
rispetto dello stato di diritto. Intervistate dal manifesto alcune settimane fa Zsófia Moldova ed Erika Farkas, due
avvocate dell’Ong Helsinki Hungarian Committee, hanno descritto una situazione
al limite: ‘Le leggi formulate dal 2010 hanno consentito un’attività
amministrativa sostanzialmente incontrollata per più di dieci anni. Siamo stati
testimoni di numerosi abusi ai danni dell’indipendenza della magistratura:
campagne diffamatorie contro i giudici più critici, revoca dei premi, nomine
irregolari di magistrati, iniziative disciplinari ingiuste e assunzioni dei più
importanti dirigenti dei tribunali sulla base di criteri puramente politici’.
È in questo
contesto che andrà in scena il processo a Ilaria Salis, accusata di aver aggredito
due neonazisti il 10 febbraio di un anno fa, ai margini di una manifestazione
in memoria di un battaglione delle SS.
Avvocato, Ilaria Salis è accusata di aver preso
parte all’aggressione di due persone, le cui ferite sono state giudicate
guarite in 6 e 8 giorni. Com’è possibile che rischia da 11 anni di carcere in
avanti?
Ilaria
Salis è accusata di aver tentato di ferire tre persone, causando loro lesioni
personali, cosa che, secondo l’accusa, ha commesso da appartenente a
un’organizzazione criminale. Le ferite non erano gravi, ma secondo la procura
potenzialmente mortali. La pena per reati che mettono in pericolo la vita è
elevata e qui la situazione è ulteriormente aggravata dal presunto
coinvolgimento in un’organizzazione criminale, motivo per cui la procura ha
proposto una punizione così severa. Tuttavia, a mio parere, non è stato
dimostrato che Salis abbia commesso questi crimini, non vi era alcuna
possibilità che le lesioni fossero mortali e non c’è alcuna organizzazione
criminale coinvolta. Ne discuteremo in tribunale.
Ci sono altre persone accusate degli stessi
fatti?
Attualmente, oltre a
Ilaria Salis, per questo caso è stato arrestato un cittadino tedesco e un
altro, sempre tedesco, è soggetto a misure cautelari. Le indagini sul caso si
sono già concluse, la procura ha già formulato le accuse e i procedimenti sono
in arrivo davanti al tribunale di primo grado.
Salis si è detta estranea ai fatti e innocente
rispetto alle accuse. Che prove ci sono contro di lei?
Non posso
fornire informazioni sulle prove specifiche, ma posso dire che, a mio avviso,
non esiste alcuna prova diretta e la signora Salis si è dichiarata non
colpevole fin dall’inizio del procedimento.
Tra poche settimane sarà passato un anno di
carcerazione preventiva.
Il tempo
massimo della custodia cautelare in carcere in Ungheria dipende dalla gravità
del reato di cui si viene accusati. Nel caso di specie, secondo la legge, la
durata dell’arresto precedente al processo può arrivare fino a tre anni.
Cosa accadrà il 29 gennaio, quando avrà inizio il
processo?
Quel giorno
la Corte ha convocato una sessione preparatoria. In tale sede gli imputati
dichiarano se ammettono la loro colpevolezza. Se la negano, insieme ai loro
difensori, hanno la possibilità di presentare istanze probatorie e richiedere,
ad esempio, l’audizione di testimoni o periti e la presentazione di documenti.
Crede sia possibile che i giudici di Budapest
decidano di far scontare in Italia l’eventuale condanna?
Ilaria
Salis si dichiara non colpevole. Se il tribunale ungherese la dovesse ritenere
colpevole, in quanto cittadina dell’Ue, ha comunque la possibilità di chiedere
il permesso di scontare la pena nel suo paese d’origine. Credo possibile che
Salis possa ottenere questo permesso.
Ritiene ci sia un particolare accanimento contro
questa donna in quanto antifascista?
Non posso parlare di accanimento giudiziario, non ne ho esperienza. Il conflitto tra fascismo e antifascismo viene da molto lontano e c’è chi trae conclusioni criminali sulla base di questo.
(il manifesto)
I POST NAZISTI
La Russia è
nata nel 1500 con Ivan il Terribile (e partire con uno che viene chiamato “il
terribile” già fa capire che non si tratta di una storia allegra), e con Ivan
parte anche il processo di “russificazione”, perché la Russia era un paese
sterminato popolato da decine e decine di tribù nomadi diverse, da popolazioni
con diverse lingue, religioni e culture. Questo processo non è mai terminato,
lo hanno proseguito tutti gli zar, e poi Stalin con deportazioni, eccidi e
propaganda, ma ancora oggi circa il 20% (non si hanno statistiche ufficiali)
della popolazione russa è mussulmano, e ci sono molte più minoranze etniche di
quanto comunemente si pensi.
Non è
probabilmente un caso se il congresso del 2019 si è svolto a Verona, nel Veneto
di Salvini, né credo lo abbia voluto
lui. Putin è un alleato ingombrante, e parte della sua strategia è
l’esportazione in Europa del modello russo, ora che ne ha costruito uno. Quindi
la sua propaganda si basa sui valori della famiglia e del cristianesimo, e la
lotta al terrorismo, agli stranieri e all’islam; per questo trova alleati solo
nei partiti di estrema destra.
In Europa
Salvini dopo il successo elettorale si è posto a capo del gruppo dei
nazionalisti euroscettici, “l’Europa delle Nazioni e della Libertà”. Ne fa
parte il partito di Marine le Pen e
vari altri partitini minori (gli austriaci del Fpo, Interesse fiammingo dei
belgi, gli olandesi del Pvv e i polacchi del Knp), e che spera di attirare a sé
anche i nazionalisti nordici (i Democratici svedesi, i Veri Finlandesi e il
Partito del Popolo Danese) e Vox, il partito sovranista spagnolo.
Il piano iniziale di Salvini era quello di creare una unione di partiti di destra abbastanza moderati che potesse sperare di governare assieme al Partito Popolare Europeo, ma non ha funzionato; un po’ perché Salvini viene visto con sempre maggiore diffidenza da tutte le forze moderate europee, un po’ perché il presidente polacco Jarosaw Kaczynski ha rifiutato l’alleanza per via della vicinanza di Salvini con Putin (i polacchi ricordano ancora bene le volte che i russi li hanno invasi e dominati, e non hanno nessun amore per essi). Così Salvini ha aperto le porte a Alternative für Deutschland, il partito tedesco di estrema destra che ha saldi legami con movimenti neonazisti, allo stesso modo della Lega in Italia con quelli neofascisti.
L’interesse
primario di Salvini è quello di
diventare l’ago della bilancia del prossimo parlamento europeo, l’Europa in
questi ultimi anni si è spostata a destra e si sa già che quasi certamente il
Ppe avrà la maggioranza, ma per avere la maggioranza assoluta potrebbe avere
bisogno dei voti di Salvini e dei
suoi alleati. Questo consentirebbe a Salvini
una certa protezione politica da possibili provvedimenti dell’Unione Europea
contro l’Italia per i conti pubblici sempre disastrati e le finanziarie
“fantasiose” come l’ultima.
In un certo
senso ricorda come Mussolini divenne un personaggio internazionale in quanto
inventore del fascismo, e la sua forma di governo sia stata poi copiata in
Spagna e Portogallo e abbia ispirato Hitler. Però ci sono anche tante
differenze: intanto il fascismo era un’idea originale di Mussolini, mentre
l’anti europeismo e il nazionalismo non li ha inventati Salvini, e poi perché
non c’è un reale contenuto politico nelle posizioni dei sovranisti. Certo pure
il fascismo non aveva chissà quali contenuti, ma i vari partiti e partitini
nazionalisti e sovranisti sono proprio delle scatole vuote, piene solo di
xenofobia, rabbia e slogan.
Il più grande successo internazionale di Mussolini fu la conferenza di Monaco, in cui organizzò l’incontro tra Hitler e i leader di Francia e Inghilterra convincendoli a lasciare alla Germania parte della Cecoslovacchia senza iniziare una nuova guerra mondiale. Vista col senno di poi si sa che non fu un grande affare, perché diede solo un anno in più di tempo a Hitler per preparare la guerra, ma dimostrò che il fascismo poteva avere un grande prestigio e potere a livello internazionale, e che Mussolini era in grado di farsi ascoltare da tutti i grandi d’Europa. Salvini di certo non è a quel livello, e quasi certamente non lo raggiungerà mai; non è capace di cercare il dialogo, di avere posizioni pacate, di cercare soluzioni vere a problemi reali.
I partiti
conservatori europei lo schifano perché fa paura, e non gli fa guadagnare voti
farsi vedere con lui. Il Guardian e l’Observer, ad esempio, riguardo alla
denuncia fatta contro Saviano intitolano “Gomorra
writer faces jail threat in libel battle with Italy’s deputy PM” (‘lo
scrittore di Gomorra affronta il rischio della prigione in un processo per
diffamazione col vice premier italiano’).
All’estero Salvini lo vedono così: come quello che
attacca i giornalisti antimafia, non si fa processare grazie all’immunità
parlamentare, rende più facile sparare in casa ai ladri, rade al suolo
baraccopoli come quella di San Ferdinando lasciando senza un tetto le persone
che ci vivevano, blocca la missione europea Sophia per contrastare il traffico
di persone e di armi nel Mediterraneo, partecipa a un congresso medievale sulla
famiglia, e rivaleggia con Di Maio per dimostrare di essere uno stallone
esibendo una nuova fidanzata. Tutte queste notizie sono state prese solo dai
giornali inglesi di marzo 2019, figurarsi come può essere visto Salvini all’estero dopo quasi un anno
di governo in cui fa parlare di sé in questo modo.
(M. Pizzirani)
È stato un
negazionista austriaco contemporaneo di nome Gerd Honsik a manipolare e
decontestualizzare alcune sue frasi per dare vita al presunto “piano”, che
prevedrebbe la sostituzione della popolazione europea con immigrati.
Un’invenzione che ha rapidamente fatto il giro del mondo e che, similmente a
quella dei famigerati Protocolli dei savi di Sion, non ha stentato ad
affermarsi in molte persone che non vedono l’ora di credere a un simile
scenario. Una teoria “buona da pensare”, ma assolutamente fasulla.
L’immagine
dell’invasione rimanda immediatamente e ovviamente a un pericolo.
Ecco allora
la storia del popolo oppresso, tipica della nascita dei nazionalismi classici,
che torna quanto mai utile per costruire un’immagine vittimista. Ciò che accomuna
questi nuovi etnonazionalismi o sovranismi è la vittimizzazione della popolazione
autoctona, con un classico rovesciamento della realtà.
Il vero razzismo sarebbe quello contro gli autoctoni, sfavoriti nell’assegnazione degli alloggi popolari e nell’accesso al welfare. È il ribaltamento dell’atteggiamento suprematista, secondo il quale loro sono la causa dei nostri mali. Il nuovo nazionalismo etnico si fonda su un’idea quasi primordiale: perché in fondo è vero che ‘l’ideologia nazionalista è una giustificazione per la difesa degli interessi personali’. Anche quella etnonazionalista lo è, ma ricorre a una narrazione nuova, che finge di appagare la richiesta di valori postmaterialistici, come l’identità etnica.
È
questo lo scenario della nuova Europa identitaria, che non si configura come
una sorta di internazionale nera, quanto piuttosto come una galassia gassosa in
continuo movimento, che trova spazi politici riconosciuti in paesi come
l’Ungheria e la Polonia, ma anche in Francia con il Front national (oggi
Rassemblement national), in Italia con la Lega e in Germania con la rapida
avanzata di Alternative für Deutschland, per non parlare dei sempre piú forti
rigurgiti nazisti nella ex Ddr.
Una
galassia in cui si mescolano toni populisti, antieuropeisti e pulsioni che
possiamo definire, senza dubbio alcuno, fasciste. Tutte accomunate da un
atteggiamento razzista nei confronti del nemico simbolico, che sta al centro
della questione: il migrante contrapposto alla purezza della razza, della
cultura, della Patria. Di fatto il vero nemico degli identitari sono in realtà
i diritti umani.
In che modo i giovani identitaristi europei che si rifanno a Julius Evola o i gruppi di skinhead che, nella terza generazione dopo la Shoah, imitano tragicamente i rituali e il linguaggio nazifascisti, rappresentano una forma di memoria collettiva delle nostre società?
Si tratta
di uno dei modi possibili in cui la memoria collettiva
contribuisce a disegnare i parametri del razzismo attuale. Una memoria a un tempo corta e lunga: con la progressiva
scomparsa della generazione che ha subito il razzismo più feroce e che ha
combattuto il nazifascismo, svaniscono le ultime testimonianze dirette di
quell’orrore; e l’avvento in Europa di molti governi di destra, che ben poco,
se non nulla, fanno per mantenere vivo quel ricordo con rituali, celebrazioni,
divulgazione, unito alle nuove paure nate con il fenomeno migratorio e
alimentate ad arte da una certa politica xenofoba, ha finito per rendere sempre
più evanescente e inconsistente quella memoria.
Come
contraltare, la scomparsa di questa barriera morale, fondata proprio sulla
volontà di impedire che certe cose si ripetano, ha lasciato campo libero al
ritorno di quelle ideologie, vecchie per alcuni, nuove per i più giovani.
Al di là
degli aspetti rituali, della riproposizione di simboli vecchi, il neorazzismo
si fonda su principî diversi da quello storico, anche se alla base c’è sempre
una forma di classificazione a cui segue una gerarchizzazione.
Classificazione
e gerarchia sono operazioni di naturalizzazione per eccellenza o, più
precisamente, di proiezione storica e sociale di differenze nel regno di una
natura immaginaria.
In qualunque sua versione, il razzismo teorico rappresenta la sintesi ideale di trasformazione e fissità, di ripetizione e destino. Anche quando sostituisce la razza con la cultura, lo fa per attribuire a quest’ultima un retaggio di ancestralità immutata e immutabile.
È difficile
pensare a un puro “differenzialismo”, perché i criteri utilizzati per
differenziare non possono mai essere neutrali in un contesto reale. Qui,
infatti, si impone una distinzione tra il differenzialismo proposto dai teorici
delle nuove destre e la traduzione in pratiche quotidiane di tali idee, che
finiscono poi per differenziarsi ben poco da quelle passate e per proporsi come
espressioni del razzismo piú basso. L’obiettivo dei neorazzisti non è piú
l’Altro in quanto esponente di una razza specifica, ma in quanto portatore di
caratteristiche culturali, che grazie a una certa propaganda politica gli sono
state assegnate. L’obiettivo non è l’arabo in sé, ma l’arabo in quanto
terrorista, l’albanese in quanto stupratore e cosí via.
Se
l’elaborazione etnodifferenzialista fa riferimenti consapevoli a valori
universali, la sua traduzione pratica viaggia su piani ben diversi. Gli
esponenti politici che portano avanti progetti cosiddetti sovranisti, fondati
essenzialmente sull’avversione per i migranti, non si esprimono certamente con
il linguaggio forbito dei teorici identitari e forse, in molti casi, ne
ignorano persino le proposte.
I governi neorazzisti sono in genere connotati dal populismo, che si fonda essenzialmente sulla comunicazione, più che sulla politica e sull’azione.
Comunicazione
urlata, diretta, semplificata all’osso, come abbiamo visto, perché anche questo
fa parte dell’essere diversi da quelli di prima. Infatti, questi esponenti del
“nuovo” riscuotono simpatie perché usano un linguaggio terra terra, simile a
quello di chi li vota. In passato ci si attendeva che il politico fosse più
capace del cittadino, oggi questo non vale più, conta essere nuovi e pertanto
innocenti.
I nuovi
politici piacciono perché non sono conformi al linguaggio abituale degli esperti.
La retorica dell’uno-vale-uno trasforma l’incompetenza del singolo in virtù del
popolo, degna di per sé del comando, perché incontaminata dal sapere elitario.
Trionfa la medietà, non ci si vergogna più della propria ignoranza.
Il
comportamento scanzonato, il linguaggio pesante ai limiti del volgare che vuole
apparire ironico, servono ai nuovi protagonisti della politica per apparire
come gente del popolo, del tutto diversi da quelli del passato.
Parlare in questo modo serve a fare apparire come più ‘naturali’ i politici che, liberati dagli obblighi della forma e dell’abilità retorica, considerate ormai indici di ipocrisia, possono lasciarsi andare a esprimersi senza peli sulla lingua, abdicando, in questo modo, a ogni principio di responsabilità nei confronti del ruolo ricoperto. L’introduzione della battuta pesante, l’abolizione di ogni remora formale, rievoca il ‘Me ne frego’ dei fascisti, espressione utilizzata anche allora per spezzare la retorica dominante. Il linguaggio greve, l’indifferenza se non addirittura il disprezzo quasi ostentati per la cultura diventano chiavi per la ricerca del consenso popolare più basso.
(M. Aime)
Il populismo (propriamente detto dal punto di vista storico) nasce come movimento intellettuale e politico nella seconda metà dell’Ottocento in Russia in seguito all’abolizione della servitù della gleba voluta dallo Zar Alessandro II nel 1861. Questo movimento propugnava una forma di socialismo contadino legato alla tradizione delle obscine, comunità rurali autogovernate e autosufficienti, per migliorare le condizioni di vita delle classi contadine e dei servi della gleba appena affrancati.
Negli Stati Uniti un fenomeno simile,
anch’esso improntato alla difesa delle classi più deboli, si manifestò nel 1892 con la nascita del Populist
Party (Partito Populista). Questo partito, sopravvissuto fino al 1908, fu fondato a difesa degli interessi degli
agricoltori, degli artigiani e dei piccoli imprenditori del Midwest e degli
stati del sud degli Stati Uniti, danneggiati dalle concentrazioni politiche,
industriali e finanziarie che sorsero in seguito alla vittoria nordista nella
guerra di secessione.
Un’altra
manifestazione del populismo statunitense degli albori fu la lotta iniziata dal
presidente Andrew Jackson contro gli eccessi delle borse valori e contro il
sistema bancario e monetario. Jackson, primo democratico ad essere eletto
presidente, durante la sua presidenza, non solo si scagliò contro le élite
finanziarie che al tempo dominavano il nord, ma riuscì anche nell’intento di
rivoluzionare parte delle strutture politiche americane. Primo presidente
americano di estrazione non aristocratica, Jackson divenne ben presto il
beniamino di gran parte del popolo statunitense, principalmente perché
percepito come uno di loro.
In Europa la prima manifestazione politica etichettabile come populista (tirando un po’ la corda), la si ebbe in Francia con Napoleone Bonaparte la cui politica fu ispirata ed influenzata dal pensiero politico di Jean Jacques Rousseau che teorizzò l’esistenza di una volontà generale del popolo e l’esigenza di una democrazia diretta, senza mediazioni o rappresentanza. Napoleone riuscì infatti ad imporsi e a legittimare la propria immagine agli occhi del popolo francese, non ricorrendo a strumenti di repressione, ma bensì basandosi sul largo consenso delle masse (esautorato il parlamento francese, fu un plebiscito ad incoronare Napoleone a leader della Francia).
Nel ventesimo secolo si torna a parlare di
populismo con particolare riferimento ai movimenti latino americani e a quelli
europei di breve durata come quello poujadista in Francia e quello qualunquista
in Italia.
Trascurando
le “meteore” europee, i movimenti latino americani come ad esempio quelli di
Peron in Argentina, di Vargas in Brasile e di Cardenas in Messico, ebbero tutti
un percorso di sviluppo comune e cioè: dal punto di vista economico essi videro
la luce in un periodo di transizione segnato dal passaggio da un’economia
prevalentemente agricola, ad una industriale, mentre dal punto di vista politico
si svilupparono nel corso di un periodo storico che vide l’allargamento della
base partecipativa popolare (fino a quel momento ancora molto limitata),
segnando così l’ingresso delle masse nel gioco della politica.
Altro tratto comune dei populismi sudamericani, fu l’essere fondati e guidati da figure carismatiche, da leader che mobilitarono le masse esaltando (spesso retoricamente) i valori nazionali e facendosi portavoce delle esigenze popolari.
Il grande
limite di questi populismi fu il basare il proprio consenso su una base sociale
troppo eterogenea, che se in un primo momento risultò essere l’elemento
vincente per l’ascesa dei leader, successivamente portò ad una limitata azione
di governo a causa delle difficoltà di intermediare tra posizioni ed interessi
a volte fortemente contrastanti.
Ma è negli ultimi decenni che il termine populismo
comincia ad essere utilizzato sempre propriamente, ma in maniera difforme, dal
punto di vista accademico, ed impropriamente dal punto di vista politico e
comunicativo, come vedremo più avanti.
È sul finire del ventesimo e all’inizio
del ventunesimo secolo che vengono accostati al populismo diversi movimenti e
partiti.
I movimenti bolivaristi di ascendenza socialista sudamericani di Chàvez in Venezuela, di Correa in Ecuador e di Morales in Bolivia, la Lega Nord di Bossi e Salvini, Forza Italia di Berlusconi e il Movimento Cinque Stelle di Grillo e Casaleggio in Italia, il Front National di Jean Marie e di Marie Le Pen in Francia, l’Alternative für Deutschland di Lucke in Germania, in Ungheria il Fidesz di Viktor Orbán in Ungheria, l’UKIP di Nigel Farage nel Regno Unito, Syriza di Alexis Tsipras e gli estremisti di Alba Dorata in Grecia, il Movimento Socialista Democratico Podemos di Pablo Iglesias Turrión, in Spagna, e giocoforza il Partito Repubblicano di Donald Trump negli Stati Uniti.
Come
osservato per i partiti populisti sudamericani della prima metà del ventesimo
secolo, anche quelli recenti sono caratterizzati fortemente dalla presenza di
leader che mobilitano le masse esaltando i valori nazionali e facendosi
portavoce delle istanze popolari e del diffuso malcontento.
A ciò si
aggiungono le dure critiche verso la politica e i partiti tradizionali, e verso
le forme assunte dalla modernità a valle dei processi di globalizzazione.
Seppur con
le dovute differenze, anche questi nuovi leader populisti si ergono ad unica
alternativa valida rispetto ad un contesto socio-economico considerato ormai ai
limiti dell’accettabile.
Recessione, terrorismo e fenomeni migratori incontrollabili, risultano essere i principali elementi che infervorano il dibattito pubblico odierno e allo stato attuale non esiste alcun partito o leader, che non abbia fatto o non faccia leva su tematiche affini.
L’inevitabile
conseguenza di queste prese di posizione è l’appropriazione, direi indebita, di
concetti apparentemente aleatori come popolo (e sovranità popolare), unicità e
specificità nazionale (che non di rado sfocia in atteggiamenti marcatamente
xenofobi), così come il mai sopito slancio di contrapposizione tra “popolo
puro” ed élite “corrotte”.
Ulteriore
novità per questo populismo di fine ventesimo secolo è poi il contesto dello
sviluppo tecnologico: tutti questi “nuovi” populismi (chi prima chi dopo), si
sviluppano in un periodo storico ben preciso che vede nella crescita
“spropositata” dell’influenza dei media, il trampolino di lancio per la
ridefinizione della dialettica comunicativa in ambito politico. Dalla discesa
in campo di Berlusconi fino ad arrivare all’oramai ben noto Beppe Grillo, in
Italia (così come in altre parti d’Europa), si è assistito ad un progressivo
incremento della sfera d’influenza sia dei media tradizionali (televisione in
primis), che dei più moderni “social media”, e dunque più in generale di
internet.
In conclusione, ci troviamo di fronte ad una lunga lista di movimenti e partiti decisamente diversi tra loro per orientamento politico e geografia, nati in diversi momenti storici, ma tutti uniti da questa indefinita parola: populismo.
(F. Casagrande)