IL GENOCIDIO

IL GENOCIDIO
DUE FOTOGRAMMI ROVESCIATI

domenica 27 giugno 2021

ENTRA IL MATTO (3)

 










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Dell'antropologo (& i diversi) (1/2)


Prosegue con i....:








Sovranisti 










& Uno strano matrimonio 







& La psicologia delle folle








Entra il MATTO

 

MATTO - Permetti allora che l’assuma anch’io

al mio servizio. Toh, il mio berretto.

 

(Porge a Kent il suo berretto da buffone)

 

LEAR - Ah, sei qua, mio bel tomo, come va?

 

MATTO - (A Kent)

 

Faresti meglio a portarlo tu, amico,

il mio berretto.

 

KENT - Perché io, Matto?

 

MATTO - Perché ti metti a prendere le parti

di uno ch’è in disgrazia. Attento a te,

ché se non sei capace di sorridere

alla parte da dove spira il vento,

presto ti buscherai il raffreddore.

Toh, ecco, prenditi il mio berretto.

Vedi, questo buon uomo

ha messo al bando due delle sue figlie

e della terza ha fatto, a suo dispetto,

una donna felice.

S’hai intenzione di metterti al suo seguito,

devi indossare un berretto così.

(A Lear)

 

Eh, zietto! Li avessi io due berretti

e due figlie! 

 

LEAR - Perché, ragazzo mio?

 

MATTO - Se avessi regalato a loro due

tutto quel che posseggo, come te,

almeno mi terrei i due berretti.

Eccoti intanto il mio.

Un altro chiedilo alle tue figlie

in via di carità.

 

LEAR - Bada a te, furfantaccio, c’è la frusta!

 

MATTO - La verità è simile ad un cane

che deve restar chiuso in un canile;

va ricacciato lì dentro a frustate,

mentre madama Cagna

può restare sdraiata accanto al fuoco,

e puzzare.

 

LEAR - Pestifero bubbone!

 

MATTO - Compare, vo’ insegnarti un discorsetto…

 

LEAR - Avanti.

 

MATTO - Stammi ben attento, zio.

“Mostra men di quel che hai;

“parla men di quel che sai;

“presta men di quel che puoi;

“va’ a cavallo più che a piedi;

“sanne più di quanto credi;

“metti tanto, togli poco,

“resta a casa accanto al fuoco:

“ne trarrai, se t’accontenti,

“per due dieci più di venti”. 

 

Ora il Matto nonché Buffone dice al suo Re Barone e Conte…




non ha né visione politica, né capacità manageriali. Non ha esperienza di organizzazioni, né capacità di innovazione…

 

Hora ammira, invece, l’arte sopraffina…                            

                             


                


‘AFFINITA’ DI SANGUE REGALE’

 

 Il trasferimento dei contanti dalla Lega nazionale alle tredici sezioni locali non spiega completamente che fine ha fatto il tesoro padano. Il Carroccio non aveva solo parecchia liquidità in cassa: poteva disporre anche di un ricco pacchetto di titoli finanziari. Investimenti milionari che poi, nel giro di un anno, dal 2014 al 2015, si sono ridotti a un valore di un euro e quarantaquattro centesimi. Azzerati. I bilanci ufficiali, quelli pubblicati sul sito del Carroccio, non spiegano come. Si limitano ad indicare che quegli investimenti valevano 10,5 milioni nel 2013, 3,2 milioni nel 2014 e – appunto – solo 1,44 euro nel 2015.

 

Alcuni documenti bancari aiutano però a capire meglio come stavano le cose. E fanno emergere un ulteriore aspetto oscuro di questa vicenda: per alcuni anni, quelli in cui a guidare il partito sono stati prima Roberto Maroni e poi Matteo Salvini, la Lega aveva all’attivo investimenti vietati dalla legge. Ma andiamo con ordine. I documenti bancari ci dicono che il 16 maggio del 2012, poco dopo che la notizia dell’inchiesta per truffa ha portato Bossi a dimettersi da segretario federale, la Lega apre un conto corrente presso la filiale Unicredit di Vicenza. Nel giro di sei mesi vi trasferisce buona parte dei soldi parcheggiati in altre banche: 24,4 milioni di euro in totale. È l’inizio di una frenetica girandola di bonifici e giroconti che porteranno, nel giro di quattro anni, al prosciugamento delle risorse finanziarie padane. O almeno di quelle registrate sul conto della Lega nazionale. Degli oltre 24 milioni arrivati in Unicredit, una decina sparisce quasi subito: prelievi in contanti, investimenti finanziari, trasferimenti sui conti delle sezioni locali del partito, bonifici a favore di società di capitali controllate dalla stessa Lega come Pontida Fin, Media Padania ed Editoriale Nord.

 

A gennaio del 2013 arriva un altro colpo di scena.




Il partito, allora guidato da Maroni, apre due nuovi conti correnti. Dove sposta una buona fetta del tesoretto custodito in Unicredit. Questa volta la scelta ricade sulla Sparkasse, la cassa di risparmio di Bolzano. Non un istituto a caso, come abbiamo detto. Il presidente della banca altoatesina è infatti Gerhard Brandstätter, già socio attraverso lo studio legale AB e associati dell’avvocato della Lega di quel momento, il calabrese Domenico Aiello, all’epoca presidente dell’Organismo di vigilanza della Sparkasse. Sul conto della cassa di risparmio di Bolzano arrivano, oltre a circa 4 milioni di titoli finanziari, 6 milioni di liquidità. Bastano solo sei mesi, e il conto si prosciuga. La maggior parte del denaro viene usata per finanziare la campagna elettorale di Maroni alla presidenza della Regione Lombardia: decine di bonifici a società di comunicazione e organizzazione eventi, tra cui spiccano i quasi 400 mila euro diretti alla sede irlandese di Google, punto di passaggio obbligato per chiunque voglia farsi pubblicità sul motore di ricerca più usato al mondo….

 

Anche in questo caso non mancano i trasferimenti alle sedi locali del partito, ma la parte del leone – come avvenuto pochi mesi prima con il conto Unicredit – la fanno le società collegate alla Lega, a cui il partito gira quasi 1,5 milioni di euro, così suddivisi: Radio Padania, 250 mila euro; Editoriale Nord, 600 mila euro; Pontida Fin, 206 mila euro; Fin Group, 360 mila euro. Prima di spendere tutti quei soldi, però, la Lega aveva pensato di realizzare un’altra operazione: blindare il patrimonio attraverso la creazione di una fondazione e di un trust.

 

Perché tentare di nascondere il tesoretto padano?




L’obiettivo era solo quello di respingere le mire dei vecchi bossiani, oppure si pensava così facendo di evitare anche possibili sequestri della magistratura? 

 

BREVE PREMESSA DELL’INTIERA BUFFONATA

 

DEBITO PUBBLICO:

 

15 giugno 2021 - Nuovo record per il debito pubblico italiano nella rilevazione relativa al mese di aprile 2021. Secondo quanto comunicato dalla Banca d’Italia a fine del periodo in esame il debito pubblico aveva superato i 2.680 miliardi di euro rispetto ai 2.651 miliardi di inizio mese.

 

Nel mese di marzo, invece, del 2021, il debito pubblico italiano ha toccato un nuovo record. L'aumento segnalato dalla Banca d'Italia è di 6,9 miliardi rispetto al mese di febbraio, così da portare il debito complessivo delle Amministrazioni Pubbliche a 2.650,9 miliardi.

 

L’aumento è dovuto principalmente al fabbisogno (25,3 miliardi), che ha più che compensato la riduzione delle disponibilità liquide del Tesoro (18,3 miliardi, a 84,6 miliardi). L’effetto complessivo di scarti e premi all'emissione e al rimborso, della rivalutazione dei titoli indicizzati all'inflazione e della variazione dei tassi di cambio ha ridotto il debito per 0,1 miliardi.


(Prosegue...)








martedì 22 giugno 2021

L'ANTROPOLOGO (& i diversi)

 










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Passeggiate e racconti di Domenica


& La miniera del fabbro


Prosegue con...:


I diversi (2)







& I buffoni di corte 






 



Un giorno, in Val di San Lucano – raccontò il professore Cino B. stavo esplorando una piccola grotta quando all’imboccatura comparve un vecchio che si fermò a guardarmi. Era un pastore, aveva una faccia scarna e astuta, dai suoi panni veniva un fetido tanfo di pecora.

 

– Cerca ossa, signore?,

 

mi domandò, sibilando tra i denti disgregati.

 

– Oh Dio, non solo ossa,

 

risposi divertito, e gli spiegai:

 

– Forse un giorno qui abitavano degli uomini. E io cerco se hanno lasciato qualche cosa.

 

– Allora non deve cercare qui,

 

fece lui come se la sapesse lunga.



– Qui non c’è niente. E’ tempo perso. So io dove. A Tiei dovrebbe andare.

 

– Tiei? Dov’è Tiei?

 

– E’ il mio paese, in Val Cesilla. Là ci sono otto nove grotte. Io dico di una, specialmente. In quella sì ne troverà di roba.

 

– Che roba?

 

– Ah, io non so, io…

 

– Nessuno è mai entrato. Ma ci sono le ossa del gigante…

 

– Noi maniaci delle cose antiche stiamo sempre all’erta, con le orecchie in su, sapete bene. Il minimo indizio ci fa venire il batticuore.




Gero non disse niente di preciso, però insisteva su quella storia delle ossa e ammiccava maliziosamente quasi gli fosse vietato di parlare.

 

Sperava così di guadagnare qualche soldo?

 

O cercava di imbrogliarmi?

 

Fosse stato anche così, ormai ero troppo incuriosito. Meglio tentare. Gli offrii mille lire se mi avesse accompagnato. Ne volle duemila. Andammo in auto, la mattina dopo, e c’erano con me due giovani assistenti. Il Vigoni e il Bettel, che conoscete. Gero, per l’occasione aveva cercato dimettersi un po’ in ordine, ma ci voleva altro: averlo accanto era un supplizio.

 

Anche in Italia, qui da noi, nel Veneto, esistono paesi dove si può arrivare con l’auto in meno di un’ora eppure sono lontani, una lontananza addirittura di millenni.




Chi di voi li ha visti?

 

Sono squallidi, dimenticati, misteriosi. Non ci va mai nessuno. Paesi pieni di leggende. La gente, per lo più pastori e contadini, è vestita come altrove, le case sono in muratura, coi vetri alle finestre, c’è luce elettrica, gira anche qualche motocicletta, si sente perfino qualche radio.

 

Cosa importa?

 

Anche col pieno sole c’è un’aria immensa di tristezza, lo stesso aspetto delle case, grigio, nudo, torvo, senza un fiore, ci toglie il respiro. E gli abitanti danno, per quanto assurda, l’impressione di essere antichissimi, nati migliaia di anni fa e mai cresciuti, con dentro una indefinibile stanchezza, anche i bambini. Come se da tempo immemorabile tutto là sia rimasto fermo, mentre il mondo camminava, fermo alle remote età quando non c’era ancora il ferro e si lottava con le belve.




Esseri ottusi, diffidenti, bugiardi, senza speranze, manchevoli di Dio. Così era Tiei. Mai vidi anzi contrada più triste e sconsolata, benché il paesaggio fosse verde. In realtà i monti intorno, tozze e insulse coperte di prati e di cespugli, erano soltanto brutti, senza neanche la romantica mestilizia che consola spesso i deserti. Per di più, quando ci giunsi, era una giornata grigia. Questo poteva influire sull’animo. C’era però ben altro: come un greve incanto, un’aria di maledizione, una specie di paralisi che pesasse su quell’angolo di terra. Si attraversò il paese. Qualche donna immota sulle soglie, due tre cani e basta. Non si vedavano bambini.

 

Poi ci inoltrammo per una strada ripida, poco meglio di una mulattiera, che si inerpicava per la valle. Qua e là, nei campi, dei contadini intenti al lavoro. Gero dal finestrino li chiamava. Quelli neppure si voltarono.

 

– Ecco, laggiù,

 

fece il pastore, finalmente, una stretta curva, indicando un valloncello.




Qui ci fermammo, ma mi era passata la voglia. Non so, avevo un senso di vergogna. Immaginate un ricco che entri a chiedere acqua in una catapecchia di famelici pezzenti. Pressappoco così. E non vuol dire se lassù gli uomini non pativano la fame. Era peggio che fame: soli, abbandonati a sé, in esilio, incapaci perfino di dolore. Intorno, campi incolti, lunghi muretti di sassi nerastri, qualche vigna, pochi alberi da frutta. Non si vedeva anima viva. Lasciai il Vigoni a custodire l’auto e in tre scendemmo alla caverna. La quale si apriva in un breve bastione di rocce seminascosto dai cespugli.

 

– E’ qui?,

 

chiesi al pastore.

 

– E’ qui disse.

 

– Tu mi aspetti fuori?

 

Non rispose, limitandosi a un sorriso.




In quel mentre si udì il richiamo di un uccello, querulo lungo. Un’altro rispose da lontano. Qualcosa si mosse alle mie spalle. Mi voltai, non c’era nessuno. Che mi stessero spiando?

 

– Dimmi Gero,

 

chiesi con un inspiegabile disagio,

 

– Dimmi, c’è qualcuno?

 

– No, no, signore. E chi vuole che ci sia?

 

Andò avanti Bettel, aprendosi la strada tra i cespugli. Ecco la imboccatura. Chinatici, entrammo nella grotta facendo lume con due torce elettriche. La cavità subito si allargava così che si poteva stare in piedi. I raggi cercarono qua e là.

 

– Qui, professore, guardi,

 

fece Bettel che si era spinto in fondo.


 

Da fuori, stranamente modulato, giunse di nuovo il richiamo dell’uccello.

 

– Che c’è?

 

chiesi, senza muovermi. Ero inquieto.

 

– C’è un cranio, professore, disse Bettel dal fondo.

 

– Un cranio d’uomo.

 

– D’uomo?

 

feci avvicinandomi.

 

– Sei proprio sicuro?

 

–Direi, almeno… Forse un Neanderthalensis…

 

Da uno strato di fango fatto solido dagli anni la cupoletta candida sporgeva.




 E si intravedevano le occhiaie, mezze dentro e mezze fuori, dall’espressione intensamente amara. Sulla volta cranica una crepa. Mi inginocchiai per vedere meglio. Un cranio d’uomo, senza dubbio.

 

Ma di quando?

 

Abbastanza antico per essere di competenza mia?

 

Fu Bettel che cominciò a tossire. Qualcosa di aspro prese anche me poi subito alla gola. Un rabbioso singulto mi scuoteva.

 

– C’era aria cattiva qui,

 

disse Bettel.

 

– Forse qualche esalazione.

 

– Ma questo è fumo, professore! Fumo.




Veniva dall’ingresso.

 

Densi nembi irrompevano di là così compatti da nascondere la luce del giorno. Gli occhi ci bruciavano.

 

– Bettel, gridai ansimando.

 

– Presto! Fuori!

 

Ci lanciammo all’uscita mentre di là del fumo nere ombre umane dileguavano. Sulla soglia bruciava un mucchio d’erba. Feci per sorpassarlo, ma una cosa nera mi passò a un pel dalla faccia, piombando con un tonfo sul terreno. Una pietra. Ne seguì un’altra, sarà pesata dieci chili. Fortuna che feci un balzo indietro. Ne venne giù una cateratta.

 

Era un agguato.




Non con bombe, o mitra, o schioppi.

 

Laggiù vigeva ancora la tecnica dei tempi favolosi, quando si dava la caccia al lupo col fuoco dinanzi alla caverna e il lancio dei pietroni sul mostro obbligato a uscire.

 

Ma perché?

 

Per puro bestiale odio al forestiero?

 

O per oscure superstizioni tramandate?

 

O per proteggere un segreto?

 

Dietro di me, Bettel, semiasfissiato, giaceva al suolo. Anch’io mi sentivo soffocare. Dentro non potevo più resistere. Tentando il tutto per tutto sollevai Bettel da terra e lo trassi all’aperto. I temuti proiettili non vennero. Appena fuori all’aria libera, trovai invece Vigoni, spaventato.




 – Che cosa succede, professore?

 

– Un uomo è venuto ad avvertirmi, ha detto che lei mi voleva…

 

– Uno ti ha avvertito, dici?

 

– Ma sì…. Ah, guardi, guardi, le carogne!

 

Guardai, là dove sul ciglio della curva avevo lasciato l’automobile. Tra i fumi del braciere che oscillavano, li vidi, i pazzi, i selvaggi, i bruti, gelosi della loro stessa solitudine, e decisi a difenderla col sangue. Erano quattro e contro luce parevano preistorici giganti. Inarcati nello sforzo, sollevavano da un lato la macchina, evidentemente per rovesciarla nel burrone.

 

– Ehi, canaglie!




…urlai, mentre Vigoni, che aveva con sé la rivoltella, sparava un colpo in aria. In quel mentre, con un mugolio bestiale, i quattro riuscirono ad alzare l’auto di quel tanto che bastava. Come fantasmi poi disparvero. La macchina per un istante restò in bilico, quindi si rovesciò in fuori. Volò tre quattro metri, batté con schianto su un roccione per rimbalzare e a orrendi colpi precipitare in fondo, sconquassandosi.

 

– Via, via, presto!

 

Bettel era intanto rinvenuto. Prendemmo a piedi la strada del ritorno. Vigoni in testa con la rivoltella. A Tiei qualcuno ci avrebbe pure dato una mano. Vallette, campi, forre, tutto era deserto e silenzioso. Anche Gero era sparito. E la sera stava per discendere. Camminando, pareva di sentire cento occhi che ci spiassero alle spalle.




Ma anche Tiei era deserto. Porte, finestre, botteghe, osterie sprangate come se fosse notte fonda. Non una voce, un passo, neppure più una gallina. E invece sapevamo che tutti erano là, dietro i battenti, col fiato sospeso, a controllarci. Attraverso le minuscole fessure scintillavano le pupille fisse su di noi. Battemmo l’uscio di una casa dall’apparenza più civile. Dalle profondità dell’edificio rispose l’abbaiar di un cane. Nessuno di noi diceva niente.

 

Come parlare in quel silenzio così carico di odio?

 

Ai compagni feci un muto cenno: andarcene, fuggire, non perdere un minuto, prima che venisse buio. Che suono smisurato fecero i nostri passi fra le case taciturne. Ci voltavamo indietro .Niente. Non si muoveva un filo. Poi via per la campagna.

 

Questa è la storia.




In seguito girai per la zona interrogando. Seppi che già altri studiosi erano andati, prima di me, alle grotte di Tiei :un professore di Atene, mi dissero, due antropologhi olandesi, un prete docente di geologia, uno scrittore… I due olandesi li avevano trovati dinanzi alla caverna, morti, il professore e il prete attraversarono Tiei, diretti alla montagna; non furono mai visti di ritorno. E lo scrittore…. a parlare con voce da scrittore…

 

– E dopo chiesi?

 

– C’è stato qualche altro?

 

– Non credo,

 

disse il professore.

 

Il cranio del gigante, come diceva Gero, deve essere ancora là, nell’antro, mezzo immerso nel fango. Personalmente non mi attira più. Temo che non sia molto antico.

 

(Dino Buzzati)


[Prosegue con i Diversi]







domenica 20 giugno 2021

RACCONTI DELLA DOMENICA, ovvero: DA QUAL BOCCA LA VERITA' [mai detta!] (30)

 










Precedenti capitoli:


Della Domenica, ovvero:


La Natura stregata (28/9)


& Alla miniera del fabbro 


Con il Secondo Governo


Prosegue ancora con...:







Da qual bocca la verità 


...giammai detta (31)


&d ancora...:







Con il capitolo (alle porte) completo... 


& un antropologo (& i diversi)









La Bocca della Verità è uno dei simboli più famosi di Roma, eppure non tutti conoscono la sua storia. E soprattutto, pochissime persone sanno a cosa è dovuto il suo nome. Una cosa è certa: se vi trovate nella capitale magari per ascoltare un comizio dei tanti Cesari, di chi cioè abituato per proprio mestiere ad ingannare la gente e con loro gladiatori dal dubbio mestiere, dopo aver visitato i luoghi del potere dell’antica Roma, proseguite per Viterbo, e agli stessi Cesari del nord (o nordici-padani) riuniti raccomandiamo che a loro preferiamo il Giardino dei Mostri di Viterbo, sicuramente la vista come il noto est est est a loro sarà gradito perBacco e Bocca di Dioniso.

 

PerBacco proseguiamo la visita:

 

Se il Colosseo, la fontana di Trevi, Piazza San Pietro e il Pantheon sono famosi in tutto il mondo come opere d’arte di incomparabile bellezza, la Bocca della Verità è celebre grazie alle leggende che da secoli la accompagnano.

 

Ma cos’è, quali sono le sue origini e da quanto tempo si trova lì?


 

La Bocca della Verità è un mascherone monolitico in marmo, murato in una delle pareti della chiesa di Santa Maria in Cosmedin a Roma, all'interno della piazza omonima. Si trova lì dal 1632 e rappresenta un viso barbuto con naso, occhi e bocca cavi.

 

Nel corso del tempo, studiosi ed archeologi hanno tentato di dare un’interpretazione univoca al mascherone, ma i soggetti ai quali è stato attribuito sono tanti. Tra questi il dio Oceano, Giove Ammone, un fauno e un oracolo.

 

La Bocca della Verità si trova sulla parete del pronao di Santa Maria in Cosmedin fin dalla prima metà del Seicento. Prima di allora non era lì. Nel periodo romano, infatti, questo misterioso mascherone di quasi due metri di diametro era un semplice tombino. E proprio quest’uso ha fatto propendere gli studiosi per un’interpretazione che vorrebbe il suo volto appartenente ad una divinità legata al mondo delle acque.




Nell’antica Roma, infatti, i tombini riportavano spesso l’effigie delle divinità fluviali, che inghiottivano l’acqua piovana e la veicolavano verso il mare. Tuttavia, questa non è l’unica soluzione avanzata dagli storiografi: c’è, infatti, chi ipotizza fosse il coperchio del pozzo sacro situato di fronte al tempio di Mercurio, presso cui i commercianti romani giuravano la loro onestà durante le compravendite.

 

A confermare la credibilità di quest’ipotesi interviene l’ormai celebre leggenda medioevale, secondo la quale tutti coloro che dicevano una bugia tenendo la mano nella bocca del mascherone, l’avrebbero persa perché recisa dal suo terribile morso. Se le sue origini restano avvolte nel mistero, è certa invece la sua fama leggendaria: in tanti credono si tratti del manufatto menzionato nei Mirabilia Urbis Romae dell’XI secolo (una guida dedicata ai pellegrini che raggiungevano la città), nei quali alla Bocca della Verità è attribuita la capacità di formulare oracoli.




In un altro volume pubblicato nel XII secolo viene raccontato di un inganno perpetuato ai danni dell’imperatore Giuliano.

 

Il testo, che riteneva Giuliano colpevole di voler restaurare il paganesimo, narra una storia secondo cui da dietro la Bocca, il diavolo, presentatosi come Mercurio (impoverito) (protettore degli imbrogli), trattenne la mano dell’imperatore (il quale a sua volta aveva truffato una donna e giurò la sua buona fede inserendo la mano all’interno della Bocca), e gli promise grande fortuna nel caso fosse riuscito a riportare in auge il paganesimo*.       



        
      

* Giuliano — Poiché il Dio concede di divertirci (sono infatti i Saturnali), e poiché cose scherzevoli e garbate io non ne conosco, sembra, amico caro, che mio primo pensiero debba essere di non dire scempiaggini.

 

Amico — E che? C’è alcuno così pedante e antiquario, o Cesare, da pensare perfin nello scherzo? Io credevo che lo scherzo fosse sollievo dell’animo e liberazione da tutti i pensieri

 

Giuliano — Bene in ciò ti apponevi; ma a me di tentare per questa via la prova non si conviene. Io non sono nato né per scherzare, né per far la parodia, né per dir barzellette.  Però, dacché al comandamento di Dio bisogna ubbidire, vuoi che in luogo di scherzo ti racconti una favola in cui troverai, spero, molte cose degne della tua attenzione?

 

Amico — Di’, che ti ascolto di tutto cuore; poiché le favole non le dispregio neppur io, né le condanno ad ogni costo, quando siano istruttive: d’accordo con te e con l’amico tuo, o meglio, amico nostro comune, Platone, il quale molte serie questioni ha trattato in forma di mito.

 

Giuliano — Verissimo quel che tu dici.

 

Amico — Ma quale e come è questa favola?

 

Giuliano — Non di quelle vecchie, del genere di  Esopo: ma, se sia un’invenzione di Ermete, dal quale io l’ho imparata, o sia la verità stessa, o una mescolanza di entrambi, vero e fittizio, vedrai poi tu dal fatto stesso.

 

Amico — Ecco un preambolo in piena regola, secondo l’uso dei favolisti insieme e degli oratori. Ora però, come sia il fatto stesso, questo comincia.

 

Giuliano — Senti dunque. Romolo, volendo festeggiare i Saturnali, invitò a banchetto tutti gli Dei, non solo, ma anche gli Imperatori. I seggi per gli Dei si trovavano disposti più in alto, sulla vetta stessa — per così dire — del cielo, Quando anche il banchetto dei Cesari fu imbandito, entrò, per primo, Giulio Cesare, con l’aria di volere — ambizioso com’era — disputare a Zeus il dominio del mondo. Sileno, squadratolo un poco: ‘Bada’, disse, ‘o Zeus, che quest’uomo, per amor di comando, non pensi davvero a sbalzarti dal trono. Non vedi come è grande e bello? A me, se non in altro, assomiglia meravigliosamente qui sopra la testa’.




Mentre ancora Sileno scherzava, né gli Dei gli ponevano grande attenzione, entra, secondo, Ottaviano, cambiando molte volte colore, come i camaleonti: se dapprima era pallido, tosto facevasi rubicondo; se era fosco, tenebroso, rannuvolato , non tardava a metter su il sorriso di Afrodite e delle Grazie. Pretendeva, fra l’altro, di avere occhi così sfolgoranti da eguagliare il re Sole. Non tollerava che alcuno al mondo reggesse il suo sguardo. E Sileno: ‘Capperi!’, esclama, ‘Che animale variabile è questo? E chissà che brutto tiro medita contro di noi!’ — ‘Tregua agli scherzi!’ gli fa Apollo. ‘Io lo metto qui nelle mani di Zenone, che d’un tratto ve lo trasforma in oro colato. — Qua, Zenone, prenditi cura del mio pupillo’. Zenone ubbidì, e, dopo avergli recitato all’orecchio qualche briciolo di dottrina, come fanno coloro che mormorano le formule magiche di Zamolxide, lo rese uomo sensato e prudente.

Terzo si aggiunse a loro Tiberio, con aria maestosa e fiera, promettente saviezza non meno che bellico ardire. Ma, voltatosi a sedere, si scopersero sulla sua schiena cicatrici innumerevoli: scottature, abrasioni, piaghe spaventose, lividure, nonché — ricordo di lussuria e di crudeltà! — ulceri e pustole, quasi marchiate col fuoco. Allora Sileno:

 

Tutto diverso, o straniero, m’appari, da quello di pria,

 

disse, più serio del solito. Tanto che Dioniso: ‘Che fai, pappaluccio?’ gli dice. ‘Metti cipiglio anche tu?’ — Ed Egli: ‘Quel vecchio Satiro’, risponde, ‘mi ha sconcertato tanto, da farmi buttar fuori, senza volerlo, le omeriche muse’. — ‘Stà attento’, ripiglia l’altro, ‘che non ti tiri le orecchie, come dicono le abbia tirate un giorno a un professore’. — ‘Vada piuttosto, il disgraziato! nella sua isoletta (e alludeva a Capri) a lacerare il viso di qualche altro pescatore’…




 Qui Zeus pose agli Dei il quesito, se tutti quanti convenisse sottoporre alla lotta, ovvero seguire il costume degli agoni ginnici, dove il vincitore di un altro che molte palme abbia riportato, sebbene vinca questo solo, si considera ugualmente superiore a coloro che non lottarono  con lui, ma furono da meno del vinto.

 

A tutti, questa seconda maniera di giudicare parve la più acconcia. Quindi Ermete, da araldo che era, chiamò Giulio Cesare, e, dopo di questo, Ottaviano, poi Traiano per terzo, come i più guerrieri. Sennonché, fatto silenzio, re Crono, volgendosi a Zeus, si dichiarò meravigliato che soltanto imperatori guerrieri fossero scelti alla prova, e nessun filosofo.

 

‘A me’, soggiungeva, ‘questi qui piacciono non meno .  degli altri. Orsù, chiamatemi anche Marco Aurelio!’.

 

Così anche Marco Aurelio, chiamato, si presentò, tutto grave di aspetto, con gli occhi e il viso un poco avvizziti, ma in ciò appunto manifestando una insuperabile bellezza, nell’offrirsi senza sfarzo, senza ornamenti. Aveva la barba densa e prolissa; abiti modesti e seri; il corpo, per penuria di nutrimento, trasparentissimo e perlucidissimo, come — direi — la più pura, la più immacolata delle luci.

 

Quando anche lui fu entrato nel sacro recinto, prese la parola Dioniso:

 

‘Vi pare, o re Crono e Zeus padre, che possano ammettersi dagli Dei cose men che complete?’.

 

E quelli avendo detto di no:

 

‘Dunque’,


[Prosegue...]