CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

venerdì 27 ottobre 2017

LAUDATO SI' MI' SIGNORE ANCO PER 'LO VERME REO CHE IL MONNO FORA' (nelle viscere della Terra un anno dopo) (27)














































Precedenti capitoli:

...Storia di un Eretico... (26/1)

Prosegue in:

Per tutti i diavoli! (28)













Immaginate un mondo spartito in tre piani….

Nel piano di sopra è il paradiso, la reggia di Dio, la dimora degli angeli e dei beati, sfolgorante di luce, risonante d’ineffabili armonie, odorosa di fiori immarcescibili; è il regno della santità incorruttibile e della eterna letizia….

Nel piano di mezzo è questo mondo terreno, popolato da una umanità decaduta e dogliosa, che pecca anelando al riscatto, e spasima sognando beatitudine; è il regno della perpetua vicenda, del cimento sempre rinnovellato nella mescolanza del bene e del male.

Nel piano di sotto è l’inferno, la voragine e tenebrosa, dove Satana e gli angeli suoi, con l’infinito popolo dei dannati, pagano alla divina giustizia un debito che mai non si salda; è il regno del peccato irreparabile, della scelleratezza irredimibile, del dolore smisurato, disperato ed eterno….




 A quest’ ultimo regno è congiunta una regione dove il peccato si ripara e si purga, dove il dolore è alleviato dalla speranza; è il purgatorio, vestibolo buio del cielo radioso.
Il regno di mezzo è come un vivaio immenso di anime, le quali ininterrottamente ne emigrano, spartite in doppia corrente, l’una che sale al cielo, l’altra che scende all’inferno. Satana e la innumerevole sua milizia non intendono ad altro fine, non ad altro usano l’arte e la  malvagità loro, che a trarre all’ingiù quante più anime possono, a popolare l’inferno a scapito del paradiso. E della loro riuscita in tale intento non si possono lagnare.

Ma dov’era propriamente l’inferno?

Dice sant’Agostino, nel suo libro della Città di Dio, che nessun uomo lo può sapere se Dio stesso non glielo ha rivelato. Ciò non tolse tuttavia che le più disparate e le più strane opinioni fossero espresse in proposito; e il regno dei dannati fu posto nell’aria, nel sole, nella Valle di Giosafat, sotto i poli, agli antipodi, dentro ai vulcani, nel centro della terra, nell’ultimo Oriente, in isole remote, perdute in grembo di oceani sconosciuti, o, addirittura, fuori del mondo.

Qualche esempio a tale riguardo potrà bastare.

Gregorio Magno racconta di un solitario dell’isola di Lipari, che vide una volta il papa Giovanni e Simmaco precipitar nella bocca di quel vulcano l'anima di Teodorico. Alberico delle Tre Fontane, cronista francese morto nel 1241, dice, parlando dell’Etna, che le anime dei dannati erano quivi portate quotidianamente a bruciar tra le fiamme. Aimoino, monaco di Fleury sul finire del secolo X, e Cesario di Heisterbach, narrano fatti e storie consimili. San Brandano, navigando fuori dei termini del mondo conosciuto, vide un’isola ignominiosa, dove demoni in figura di fabbri ferrai m martellavano sulle incudini le anime arroventate.




L’opinione più comune tuttavia, e nel tempo stesso più naturale, era quella che poneva l’inferno nelle viscere della terra, conformemente a quanto già avevano creduto gli antichi.
Così l’abisso era spalancato, insidia e minaccia perpetua, sotto ai piedi dei peccatori e dei giusti, e la corteccia terrestre diveniva un tenue solaio che trepidava e fremeva per l’impeto delle fiamme penaci e pel mugghio degli eterni tormenti.

La terra, illuminata fuori dal sole, lieta di floridi campi e di selve, rorida di acque, era come un frutto bacato che, sotto vaga buccia, abbia fradicio il midollo; era com’un di quei pomi che a detta dei viaggiatori nascevano sulle rive del Mar Morto, e che coloriti e odorosi di fuori, erano, dentro, pieni di cenere. Il baco che aveva ròsa e guasta la terra era Satana, cui Dante chiama ‘il verme reo che il mondo fora’, e alla cui caduta dal cielo fa seguire, con mirabile fantasia, la formazione del baratro infernale.
L’inferno doveva avere le sue bocche e i suoi aditi, necessari, se non altro, al disimpegno di quelle mille faccende che i diavoli avevano, al loro andare, venire, frullare perpetuo. Negli Evangeli è cenno di porte dell’inferno che non prevarranno contro la Chiesa; Cristo, accingendosi a penetrar nei regni bui, grida ai principi delle tenebre di aprir quelle porte, e non obbedito, le infrange. Dove fossero non si sa con certezza.
Gervasio di Tilbury dice ch’eran di bronzo, e che si vedevano ancora, cosi infrante, in fondo a un lago, presso Pozzuoli. Dante entra in inferno per una porta senza serrarne, su cui si leggono le parole di colore oscuro.

Altre entrate ad ogni modo non mancavano.





Più di una caverna tortuosa e cupa, più di una voragine sprofondante sotterra, fu creduta una bocca dell’inferno, e se alcuni pensavano che dentro i vulcani abitassero i demoni e fossero tormentate le anime dannate, altri dicevano i vulcani essere più propriamente bocche e spiriti dell’inferno, d’onde esalavano gli ardori e il fumo dell’eterna fornace.
L’inferno era come un mostro immane sul cui corpo si moltiplicavano le bocche, avide di procacciare nuova pastura al ventre voraginoso. Non senza ragione dunque si vede rappresentato l’inferno, nelle pitture e nei misteri del medioevo, sotto la forma di una mostruosa bocca di drago che divora anime e vomita turbini di fiamme e di fumo. L’inferno è il regno del dolore e del bujo, come il paradiso ò il regno della letizia e della luco. Le tenebre vi sono dense, profonde, fatte in qualche modo consistenti. La dolorosa valle d’abisso, dice Dante, Oscura, profonderà e nebulosa/, Tanto, che per ficcar lo viso al fondo/, Io non vi discernea nessuna cosa/.




In inferno capitavano anime d’ogni qualità e condizione, anime di papi e d’imperatori, di frati e di cavalieri, di mercanti e di giullari, di donne impudiche e di fanciulli malvagi; tutte le classi, tutte le professioni gli pagavan tributo e tributo larghissimo. Il compito principale dell’umanità, il fine de’suoi lunghi travagli pareva esser quello di vettovagliare l’inferno. Le anime, o erano catturate e trasportate dai diavoli, o precipitavano nell’abisso come tratte da una specifica gravità di peccato.

 Un eremita dell’ottavo secolo, san Baronto, vide i demoni portar l’animo in inferno con la frequenza che mostrano le api, quando, fatto il loro bottino, se ne tornano all’alveare; sant’Obizzo (m. c. 1200) vide cader le anime in inferno fìtte come neve, e santa Brigida dice in una delle sue Rivelazioni che le anime le quali piombano ogni giorno in inferno sono più numerose delle arene del mare.

All’inferno era facilissimo andare come inquilino perpetuo; difficilissimo, per contro, andarci come semplice visitatore. Ciò nondimeno molti lo visitarono, a cominciare dalla Vergine Maria, che vi andò accompagnata dall’arcangelo Michele, e da numerosa schiera di angeli, quanto è narrato in certa apocalissi greche.
Subito dopo lei v’andò san Paolo, secondo una leggenda molto divulgata nel medioevo, che Dante certamente conobbe.




Siffatte discese nel regno dei dannati solevano essere effetto della divina grazia, sollecita della salute di alcun peccatore, o di quella di un intero popolo, dimentico dei precetti e degli ammonimenti divini; ma non sempre la grazia c’entrava, almeno in modo diretto.
San Gutlaco, di cui ho già ricordato più di una volta il nome, è assalito nella sua cella, una notte, da una legione di diavoli, che con molti tormenti lo trascinano a vedere le pene dell’inferno. Ugone d’Alvernia, l’avventuroso cavaliere, va in inferno per ordine espresso del suo re, che voleva tributo da Lucifero. L’anno 1218 un conte di Geulch offre gran premio a chi sappia dargli notizia della condizione del padre, morto poco innanzi. Un intrepido cavaliere offre i suoi servigi, scende con l’aiuto di un negromante in inferno, e quivi trova il vecchio conte, il quale dice che le pene gli saranno alleviate, se si restituiranno alla Chiesa certi benefici da lui tolti indebitamente. Quando la grazia divina operava in modo diretto, un angelo soleva guidare il visitatore.

La visita poteva compiersi in ispirato soltanto, e anche corporalmente.

Nel primo caso si aveva la visione propriamente detta; nel secondo, una vera e propria peregrinazione. Le visioni toccavano di solito a chi era in stato di sovreccitazione mentale, o spossato da lunga infermità: mentre l’anima viaggiava per conto suo, il corpo rimaneva in stato di profondo letargo, simile alla morte. Io non debbo qui entrar nell’esame delle condizioni psicologiche e patologiche del fenomeno; mi basta di recar qualche esempio…




San Furseo, monaco irlandese del settimo secolo, essendo ammalato da tre giorni, fu condotto a vedere le pene dell’inferno da due angeli, preceduti da un altro angelo, che aveva una spada sfavillante e uno scudo luminoso. Una notte, Carlo il Grosso stava per coricarsi, quando udì una voce terribile gridargli: “su Carlo, l’anima tua lascerà il corpo, e sarà condotta a vedere i giudizi di Dio;” e cosi fu. Alberico, figliuolo di un barone della Campania, fu sorpreso, all’età di nove anni, da un deliquio che durò nove giorni, durante il qual tempo, guidato da san Pietro e da due angeli, visitò l’inferno e il paradiso.
L’anno 1149, un cavaliere irlandese per nome Tundalo, uomo empio e di mali costumi, fu pressoché ucciso con un colpo di scure da un suo debitore. Rinsensato, raccontò ciò che aveva veduto delle cose dell’altro mondo. Altri invece, come Ugone d’Alvernia e Guerino il Meschino, già ricordati, e il cavaliere Owen, andarono all’inferno in carne ed ossa, imitando gli esempi di Ulisse e di Enea.

Dante v’andò allo stesso modo.

Comunque ci si andasse del resto, col corpo o senza il corpo, l'andata non era senza pericolo: san Furseo portò tutto il tempo di vita sua le tracce del fuoco infernale che l’aveva tocco. I demoni vedevano assai mal volentieri aggirarsi pel regno loro chi non doveva restarci, e si studiavano di nuocere in tutti i modi agli intrusi. Essi tentarono di uncinar Carlo il Grosso con uncini arroventati, e di afferrare con ignee tenaglie un buon uomo di Nortumbriadi cui narra la visione il Venerabile Beda. Il giovane Alberico, il cavaliere Owen, altri assai, furono da loro in vari modi minacciati o tormentati. Senza l’aiuto di Virgilio e del messo celeste.

Dante si sarebbe trovato più d’una volta a mal partito….
















domenica 22 ottobre 2017

LE OPERE DELL'UOMO SOCCOMBONO AL TEMPO LE OPERE DELLA NATURA (E DIO) INFINITO SPECCHIO DI QUANTO IN VERO CREATO (23)












































Precedenti capitoli:

La scultura funeraria (21/1)

Prosegue in:

...E a voi chevvefrega?....&















Lupi & Lupare (25)





























Altissimu, onnipotente, bon Signore,




tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.




Ad te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu homo ène dignu te mentovare.




Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature,




spetialmente messor lo frate sole,




lo qual’è iorno, et allumini noi per lui.




Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:




de te, Altissimo, porta significatione.




Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle:




in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.




Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento




et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale a le tue creature dài sustentamento.




Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua,
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.




Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu,




per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.




Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra,




la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.




Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore
et sostengo infirmitate et tribulatione.




Beati quelli ke ’l sosterrano in pace,
ka da te, Altissimo, sirano incoronati.




Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò skappare:




guai a·cquelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ’l farrà male.




Laudate e benedicete mi’ Signore et rengratiate
e serviateli cum grande humilitate.

(San Francesco)











giovedì 19 ottobre 2017

LA SCULTURA FUNERARIA (Seconda Parte) (21)




















Precedente capitolo:

La scultura funeraria (Prima Parte) (19/20)

Prosegue in:

La scultura funeraria (Seconda Parte) (22)













Come l’artista scavo la pietra,
animo la scultura della mia illusione
scolpita nel principio di una diversa
passione.
La pietra è più dura di ogni cuore
che incontra la mia penna,
la dura pena per ogni tortura
ombra del loro Dio.
Perché raccontano
che è la più bella visione,
Madonna che aspetta la sua offerta,
con il bambino gravido e senza rancore. (1)

Era la nostra Dèa nel principio,
prima del libro del profeta, 
le hanno rubato anche il sorriso,
acqua di torrente che sgorga
nella mente.
Mentre Cibele semina il campo
del mio paradiso,
dove coltivo con solo il sorriso,
il frutto proibito tributo
per un nero aguzzino.
Cui debbo anche il dolce vino,
dona l’ebbrezza e la comprensione,
una penna che incide la dura pietra
divenuta passione.
Rito nuovo come sangue che sgorga
da una ferita della nuda terra. (2)

Scavo nella memoria,   
scavo la zolla,
scrivo con l’aratro il sogno nascosto
confuso con il peccato.
La pietra assume visione
di un altro Dio,
per tanti è solo un caprone
mal scolpito.
La pietra mi racconta
un’altra visione,
coniato nel profilo di una moneta,
nella giara antica dove la tomba
l’ha restituita.
Racconta un diverso amore
e la terra di un altro colore.
Racconta la gloria di un altro peccato,
racconta la storia di un altro Dio,
forma la statua di un altro oracolo.
Racchiuso nella pergamena di un filosofo,
raccolto dalla parola di un’astronomo,
raccontato per bocca di uno storico,
intuito dalla mente di un matematico. (3)

La pietra incide il principio
di un diverso Dio pregato.
La mano,
fossile antico di questo Creato,
scolpisce la forma divina di un
corpo,
ma con la testa di antico animale,
non sacrificato sull’altare.
Adorato come principio del Creato,
mitologia antica, diversa creanza:
insegna l’istinto d’un sogno proibito,
striscia cammina e poi vola lontano.
Dona i colori di un diverso
miracolo,
pensiero di vita infinita creazione,
pian piano diventa la sola
ossessione. (4)

Ora la mano accarezza il profilo,
scultura con corpo divino.
Il ricordo muta in passione,
la lacrima scende sul viso,
la goccia segna la fronte.
Adoro la bestia chino vicino
alla fonte,
quando il giorno aveva una
diversa ora,
e mai vi era paura.
Accarezzo il corpo,
come la pietra che mi dona
un altro fossile della memoria.
Bacio la vanga che mi ha restituito
Divina creatura,
piango la memoria di un’altra
storia.
La forma nell’ora del giorno
assume ora un nuovo contorno.
Ogni strato di pelle
che semino lieve,
è una scultura che ridona sorriso.
La forma ora assume colore,
il Dio muta il corpo perfetto
in maschera di terrore.
Esorcizza paura e dolore,
una vita impastata coi Démoni:
una lotta fra la luce
e la più nera visione
di dolore. (5)

La lotta si fa dura,
fra il bene che avanza,
e il male che domina ogni
sostanza,
scritta nella dura terra
della rozza materia.
La pietra diviene diavolo contratto,
angolo perfetto dell’intera
costruzione.
La scultura mi dona paura antica:
una parola non ancora capita,
quando Dio sussurrava
la prima rima nella materia,
lenta poesia della vita. 
Ha ferito solo la memoria,
un bene donato e mai capito,
forse solo appena intuito
nel gene del primo elemento.
E nella forma perfetta di altro
Dèmone
dell’intricata storia. (6)

Rapirono così il ricordo di una
preghiera,
illuminata anch’essa
da una stella.
Così rubarono l’amore di un Dio
che lotta contro la prigione
di un profeta,
perché non è materia
come la sua terra.
Ora mi dona la stessa visione.
La poggio sulla sua terra,
ora che il mostro invade il sogno
e diviene incubo di un altro regno:
la pietra incisa assume la forma
di una divinità mostro indegno. (7)

Invase per molti secoli
questo regno:
forma estinta di un’altra vita,
morta di colpo per mano di una
meteora impazzita.
Incise la volontà di un diversa
coscienza,
divenuta principio di vita
scolpita nella pietra.
Pian piano ci mostra la bellezza
antica,
splendida nella forma scolpita,
con una testa proibita di bestia
divina.
Gene della memoria,
scava un primo ricordo
mai morto,
forse solo un Dio…
…appena risorto. (8)  

Ricordo questo sogno,
paura mai morta
come una divinità
sepolta,
estinta come lo scheletro
crepato di sete
sulla riva del torrente.
Ricordo la visione di un animale,
lento striscia e mi spia,
forma mai estinta di vita.
Ricordo la terra tremare
al passaggio di quella Dea.
Ricordo il diavolo assumere
nuova visione,
nel caos di una nuova dimensione.
La pietra mi dona tanti troppi
ricordi mai sepolti,
e assume un nuovo colore,
in questa giornata piena di sole. (9)

Sono uno scultore,
e in un sol giorno scolpisco
la memoria,
di milioni di anni di storia.
Capisco che il chiodo è solo
l’ultimo minuto di uno stesso Dio,
morto troppe volte all’ombra di una
pietra,
della mia grande scultura.
È visione antica nominata mitologia,
ripetuta nella mente
di questo piccolo torrente.
La incido con amore e sudore
dalla mattina alla sera,
di un giorno infinito
….senza preghiera. (10)

La pietra,
più la giornata passa e muta
colore,
più assume diverso spessore.
La scultura antica diventa profilo,
si beffa del mio sudore
accompagnato al triste destino.
Ride al sole della nuova venuta,
ride come un satiro della mia scoperta,
ride della forma che incido,
ride osservando il mio profilo.
Mentre io scruto il suo
levando la polvere.
Lei mi asciuga la fronte di tanto
sudore,
e mi fissa con l’occhio rivolto
in un'altra direzione. (11)

Mi fissa e ride dell’illusione
del tempo che scorre.
È nato ridendo
ed è morto contento,
con la certezza che il tempo
mai è esistito,
quando adornava la tomba
del suo Dio.
Quando vegliava la sua casa,
quando annunciava il nuovo
martirio,
divenuta ultima tentazione
per un mondo migliore. (12)

Il caso lo volle ubriaco di gioia,
per ugual stella
che illumina la luce della parola.
Lo vuole ora,
muto testimone, 
con solo il riso della comprensione
di un’altra visione.
Continua a ridere,
mentre lo poggio a terra,
il mulo fedele spalanca la bocca
appena lo vede.
Il cane abbaia al vento,
urla alla bestia,
che scalcia e tira l’aratro
in un'altra direzione. (13)

La statua ride dello scompiglio,
è di nuovo padrona della situazione.
La stella muta colore
e dona nuova visione.
Un popolo intero trema
per questa divina creatura.
Chi prega, chi cerca riparo,
chi ritrova parola.
Lui nel riso del suo Dio,
prova solo compassione
per tanta incomprensione. (14)
 
Ride di gusto,
è la sua preghiera,
osservando il volgo
fatto ignoranza…,
che nella storia compone
la materia.
Rimane a guardia della casa,
luogo sicuro di una saggezza
che non conosce paura.
Solo l’avventura di un nuovo
cratere:
scava la pietra,
e un  Dio che offre la sua
cenere…
per una nuova preghiera.
La pietra muta sostanza,
diviene scintilla brilla come
un sole.
Luccica come le stelle,
ora stanno di guardia alla falce
d’una luna che saluta…,
la mia nuova avventura. (15)

Mi racconta con un sorriso,
verso la strada del mio paradiso,
di un altro mondo
e mi fa regalo del suo oro.
Mi narra di un’altra epoca
con una luce piena di gloria,
per dirmi solo che la scultura
non è ancora finita.
L’arte antica della mia ricerca
merita solo un dono d’amore,
è la rima di un’intera giornata
trascorsa al sole di una zolla di terra.
Ad ogni sasso incontrato
della mia vanga,
non ho pronunciato
una sola bestemmia,
né contato una preghiera,
ma parlato con la semina,
antico amore della mia infinita
ora.
Perché mi vuole più solo
di ogni pietra.
Incisa scolpita adorata,
come un antico profeta.
a cui non è concessa parola. (16)

Come un oracolo scopro
il miracolo.
Uno sciamano beve l’antica
bevanda,
e ride di gusto al tesoro trovato,
premio per ogni ora della giornata.
Una vita mai raccontata
dalla sacra memoria,
nella geografia della loro…
…oscura ora! (17)

Volge il giorno alla fine,
ogni stella racconta
la mia ora,
non s’attarda per il sogno
della notte,
mentre veglia e narra
un mondo senza parole.
Verità muta,
apre la vista della mia prima
forma.
Anima assopita prima dell’Universo
fatto materia,
prigioniera di una roccia dura,
dove scorgo il Dio della mia
scultura. (18)

Volge il sole al tramonto,
ed io ho scolpito la mia pietra
fino in fondo.
Ho vangato la memoria
di una giornata senza tempo…,
all’ombra di una strofa.
Mi ha insegnato la segreta via,
mentre il cane rimane a guardia
dell’opera mia.
Mentre il sole abdica la sua
ora,
ad una luna che mi adora.
Su un giaciglio che è solo
il misero premio,
per aver scolpito il tempo. (19)

Ora scorre lieve come un soffio
di vento,
gira nel vortice del bosco,
dove tante anime si rincorrono
fino ad un pozzo senza
fondo.
Dove un tempo parlarono
con la luna,
e l’acqua insegnò loro
una nuova parola…
dal nulla di quell’ora.
Ora invece chiedono solo
nuova gloria…
ad una vita mai morta
alla stessa ora,
perché regalò
la prima parola.
Ad un anima senta tempo
prigioniera della parola…
e scolpita nella materia,
con solo il tempo a scavarne….
la memoria. (20) 

Frusciano fra gli alberi
chiome scure di rami contorti
ricolmi di stelle.
Ogni foglia sospira lieve
al loro pallido colore,
scrigno di ogni preghiera
che in segreto rito…
intonano la sera. (21)

Pregano la terra e l’amore.
Il bosco,
segreto padrone
di ogni ramo e foglia.
Perché orna la gloria
di una natura mai morta.
Solo maestra incompresa
in ogni principio,
musa e anima di ogni
respiro. (22)

Quando dormo sullo scuro
giaciglio,
odo le voci rami di vita,
parlano ora la lingua
incompresa,
di foglie che pregano la loro
messa segreta. 
Poesia come musica sospesa 
senza una chiesa,
mi insegna la via
più in alto della grande
chioma,
dove vedo una stella che
illumina…,
la rima di una nuova strofa.
Ridona potere e speranza
di una diversa visione,
e vuole la vita di un diverso
colore. (23)

Il sogno mi lascia muto
in attesa del giorno,
sull’uscio di un alba simile
ad un nuovo tramonto.
In questo tempo di nuova
memoria,
mi dona una pietra da 
scolpire per la storia.
Antica come una diversa
dottrina,
mentre il giorno s’appresta
ed inonda la casa,
nuova luce ad ogni ora 
che avanza.
Lenta mi prende la mano,
e mi benedice alla fonte
della vita,
memoria di una Dèa,
senza una chiesa. (24)

Verbo di ogni
elemento, 
dona il principio non detto:
spiga che cresce,
pane povero che macina
la sua lenta preghiera,
ogni minuto chino sulla
terra,
della mia chiesa segreta. (25)

L’opera mia prende forma
e sostanza,
l’ammiro là dove l’occhio
non vede,
e l’anima scruta ogni contorno
della scultura che danza
al levar del giorno.
È bella come il sole che cresce
nel pallore lieve,  
si veste di un velo
sottile,
trasparente alla vista,
come una leggera foschia.
Scura di notte sottile di giorno,
piano lascia scoperte
le linee precise di una Dèa.
Nuda mostra le grazie
di un nuovo mattino…,
e battezza l’emozione
con acqua che penetra
…questa preghiera.  (26)

La terra mi attende per la
più bella creatura.
Pensiero di un Dio in lei
scolpito,
colore di un idea in lei
per sempre cresciuta.
Dall’alto della montagna
che ora mi guarda,
dalla cima dell’Olimpo
dove ora mi comanda. (27)

Sua figlia mi fa compagnia,
mi prende la mano e mi insegna
la lenta carezza d’ogni forma
concepita.
Mi insegna a non confondere
il desiderio con l’amore,
solo per dirmi che il piacere
è di altro colore.
È una frammento scolpito
da madre natura,
una donna bella come
una Dèa,
perché mi detta una nuova
rima,
sul far del mattino
e al principio della sera.
Quando la poesia diviene
nuova preghiera. (28)

Una runa, una strofa, un geroglifico
della memoria,
per dirmi in un frammento di pietra
scolpita,
che l’amore e il suo scrigno….
…e la vita la sua rima. (29)

Nel corpo nudo di un ventre muto,
liscio come il sorriso che dona
vigore,
mi racconta del suo amore.
Tutto intorno tace ed acconsente,
ogni cosa che vedo è stata nel suo
ventre,
ogni elemento la guarda danzare,
la saluta e le fa sacrificio della sua
venuta.
Cantano in coro in questa primavera,
una rima come una preghiera
della mattina.
È profumo divino di mille fiori
di anime pie,
perché hanno venerato il corpo
di una Dèa,
appena scolpita in questa chiesa,
prima alba che non è ancora
mattina. (30)

(Prosegue...)