CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

lunedì 28 ottobre 2019

IL LUPO RIFONDA IL MITO (17)














Precedenti capitoli:

Esule a 'Tomi' (16/1)

Prosegue in:


Il Lupo... (18)   (anche in formato fotoblog...)  &

















Con il secondo accademico, ovvero: 'Chi nel viso degli uomini legge omo' (19) &






Salviamo il mondo (20)















Che vuoi intendere se non ciò che pur anch’io ho ben compreso, seppur abdicando all’intuizione concernente il disquisito il dovuto e velato sottinteso non men de’l celato ritmo; oppure per meglio intendere, introduzione di sì vasto Dialogo.

Impensabile giacché ai più incomprensibile, certo non in questo regno non ancor trapassato a miglior ‘vita’ ove la morte ne canta l’esistenza e questa aspira ad annullarne l’essenza. Dialogo celebrato qual inno fra due ‘cattedrati’ ben esiliati e tacciati non men del Lupo trasfigurato a me così caro, giacché svela l‘(in)canto’ precedere l’attuale pecunia intonata.

E da un lupo attentata (oppure svelata)!

Può esser un monito, dacché come hai pur apostrofato nel giusto tono e dovuto intendimento, “chi suona il tamburo non udendone il suono”, dispiega, svelando e nel qual-tempo violando pur non volendo, un’intera polifonia profanata, restituita all’orecchio sordo non men dell’ocolu nel chiostro ove ogni nota ben custodita e celata qual inno della Memoria preservata…

Pur non avendone decifrata la Rima…

Il primo accademico…:  













  
Uno degli errori più gravi commessi dagli storici delle religioni del secolo XIX e dai loro seguaci fu indubbiamente il tentativo di spiegare l’origine del fatto religioso risalendo anzitutto alla paura che l’uomo prova di fronte alle forze naturali e, di conseguenza, il ritenere che la richiesta d’aiuto sia il vero nucleo delle relazioni fra gli Dèi e gli uomini. I teologi, attingendo argomenti alla loro tradizione, hanno sempre combattuto una tesi del genere. D’altra parte, anche ricerche più accurate da parte di non teologi sono giunte almeno all’ammissione che, in effetti, un fenomeno così solidamente e minutamente articolato come quello religioso era stato precedentemente racchiuso in formule così grossolane da rendere impossibile un giudizio esatto sull’effettiva realtà delle cose.




Con una metodologia tanto carente, anche il fenomeno dell’amore che una donna prova per un uomo potrebbe essere fatto risalire unilateralmente al senso di impotenza di fronte alla lotta della vita. Come abbiamo or ora accennato, in ambedue i casi la situazione è troppo complessa da poter essere liquidata con una riflessione sbrigativa e utilitaristica.
Nel campo religioso la richiesta angosciosa è certamente un elemento primario. Se però l’ansia della vita fosse realmente la base della Religione, il nostro secolo dovrebbe essere la più religiosa di tutte le epoche. Il timore caratterizza l’amore e l’adorazione che l’uomo presta a Dio; soltanto se negli strati profondi di questo fenomeno ciò che è amato è anche temuto.




È evidente che tale situazione – causata dall’antinomia dei sentimenti – dovette essere preclusa ai ‘razionalisti positivi’ e fondamentalmente pessimisti del secolo passato. Ora, ciò che lega insieme tanto strettamente ‘amore e religione’ è appunto il loro presupposto comune: la capacità di abbandonarsi nella fiducia. Direi che dalla fiducia, terreno fecondo che alimenta tutta la dignità dell’uomo, sgorgarono le tre grandi correnti del fenomeno religioso. L’una, in certo senso femminile, nasce dal bisogno di protezione; l’altra, maschile, si esprime nella lotta e nell’esaltazione; la terza è la gratitudine che le altre due hanno in comune.
Queste tre componenti sono ovviamente presenti in ogni individuo, anche se prevalgono in diversa misura ora l’una ora l’altra. La ‘religiosità’ è realmente affine all’amore, tanto che in ogni tempo il lamento amoroso e il pianto religioso, viatico delle anime trapassate, toccò prevalentemente le donne, mentre l’inno – inteso sia come canto d’amore profano che come lode innalzata a Dio – fu di competenza soprattutto dell’uomo. Pertanto, senza pericolo di confondere le idee, possiamo parlare di un atto amoroso della religiosità e di un carattere religioso dell’amore, mentre la gratitudine è sempre il vero e proprio elemento vincolante, la religio.




Queste nostre affermazioni hanno ovviamente valore soltanto se, resistendo allo Spirito della nostra epoca, diamo il posto di onore alla dignità per cui l’uomo è nato, evitando che essa sia offuscata dall’esasperazione grottesca delle forme sotto umane dell’uomo stesso. I fatti dimostrano che l’atto amoroso specifico della religione, vale a dire la lode e l’esaltazione, è almeno altrettanto importante e rilevante della richiesta. È ovviamente possibile, considerare la grande letteratura ‘innografica’ come un’adulazione, in definitiva ‘tendenziosa’, degli Dèi da parte degli scrittori.

Anche prescindendo dall’esattezza o inesattezza di fondo di tale pur ragionevole ipotesi, resta il dubbio se essa non contenga un grave errore di giudizio. Siffatto giudizio nei confronti di chi innalza la lode ci costringe comunque a rilevare un’altra forma mentis, forse alquanto penosa, che riguarda la relazione tra l’oggetto studiato e lo studioso. In effetti, al dio supremo o a quello più importante fra gli dèi sono normalmente riconosciute l’onniscenza e la capacità di vedere tutto, per cui è praticamente impossibile ingannarlo con l’ipocrisia, cosa che d’altra parte è per sua natura sacrilega.




Non si può certamente negare che tali tentativi vengano fatti, tuttavia la rivelazione documentata di un tentativo di inganno non dovrebbe significare per il ricercatore la scoperta di una caratteristica essenziale specifica del fatto religioso, ma unicamente la constatazione di un’evidente deviazione causata dalla dimenticanza del principio supremo dell’onniscenza divina.   
Pur essendo imprescindibili per la ricerca, i documenti possono provare qualcosa soltanto se sfruttati con presupposti giusti. E, se proprio vogliamo soffermarci sulla tendenziosità, va pur detto con la massima franchezza che in tutte le religioni e in ogni epoca esistono uomini (non esclusi gli scienziati e i ricercatori) i quali sono mossi unicamente dall’idea utilitaristica, come ne esistono altri che si entusiasmano per un significato superiore della vita.




A questo riguardo la ricerca obiettiva naufraga spesso semplicemente a causa della mancata verifica dei propri presupposti umani. Basterebbe l’universalità dell’idea del sacrificio a provare come la spontaneità del dare e del lodare sia insita nella natura delle cose. Spesso è effettivamente più facile riconoscere negli uomini primitivi, che non negli abitanti delle città moderne, una capacità di sacrificio che supera tutte le altre forze umane. Ma ciò non toglie valore al fatto incontestabile che ogni autentico miglioramento esige sempre al principio una certa disposizione al sacrificio o all’impegno, anzi, di più, la capacità di riconoscere pienamente e volentieri l’esistenza di qualcosa che è superiore a noi stessi…




(…Possiamo altresì affermare che tale prospettiva, ieri quanto negli odierni svolgimenti storici muta l’intera ipotesi dell’‘umano’ mutandone irreversibilmente tratto e principio (da cui nato), e ancor peggio, ogni Elemento da cui evoluto e in cui ‘scritta’ ogni possibilità futura [divergendo nel punto in cui la stessa Storia scissa, ovvero se questa fosse scritta da un Albero su cui leggere la nota della vita respirata per ogni foglia alla fotosintesi del principio per cui evoluta e donata, o meglio, ‘restituita’, potremmo meglio intendere e certamente coniugare un mondo evoluto secondo i veri principi della Spirale quindi della Vita; se invece, all’opposto, la corteccia funge solo da limitato scopo quale elemento su cui incidere o tracciare impropri avverbi nell’errata grammatica della storia, allora ne avremmo vilipeso il principio costringendola al ‘soffocato’ balbettante limite, non più suono né parola disquisita, quindi ‘evoluti’ entro i termini della morte…: ‘la morte canta la vita dei morti…]... 




...entro quella stessa ‘spirale’ divenuta ‘pensiero parola e verbo’, e simmetrico istintuale ‘inno per la vita’ nata, ma certamente né udita né compresa. Se non addirittura irrimediabilmente naufragata nella contraria falsa aspirazione divenuta miraggio dell’antica quanto nuova Apocalisse celebrata qual vita (di nuovo) (ri)creata, rinnegare la spiritualità dell’uomo con l’indubbio intento di fondare - e successivamente innestare - il falso mito del progresso (o ancor peggio - come sovente ciarlano e dicono: dell’armonia), esulare dalla superiore sacralità donde ogni ‘armonia’ affine al Mistero seppur apparentemente ‘della e nella’ Vita svelato, privato però della dovuta Memoria (e non solo genetica) donde (e come) nato. Ogni Verbo Pensiero e con loro Intelletto e Spirito ‘evoluti’ nella sacralità naufragata ove indistintamente leggere mito o sacrificio qual tratti comuni d’un’antica grammatica, o antropologicamente parlando, qualsivoglia frammento raccolto e studiato ma quantunque da ogni Elemento nato, fondare nella Spirale - specchio dell’Universo - un messaggio un gene un tratto comune, il quale, anche se specificato o circoscritto ‘dalla e nella’ ‘materia’ ‘con ed in cui’ svelarne il ‘canto’, e mi ripeto, se pur questa... 




...evoluta, (quantunque) impossibilitata dell’atto; al più circoscritta nella ‘limitata limitante’ deduzione (fors’anche rara intuizione) di talune specifiche condizioni, ma quantunque impossibilitata, se privata della immateriale (opposta) spiritualità da cui nata, esulare dal vero ‘significato-significante’ ragion del Sacro dell’oggetto studiato. Se tale condizione non svelata dovesse ‘cantare’ il proprio Inno, il proprio motivo, il proprio sacrificio, il proprio o altrui gene entro la propria (ed altrui) Spirale, superiore (invisibile nota) di quanto studiato, ricreerebbe la condizione limitante (e materiale) dell’umano (il quale evoluto e specificato entro i termini dell’atto divenuto grammatica e sintassi: tempo e materia), escludendo e rimuovendo l’immateriale o Divino ragion del Sacro e compiendo (o celebrando unitamente ed indistintamente) il sacrificio limite (e simbolo) dell’umano. Questa importante nota nonché ‘Enunciato’ trascritto nei termini propri di una ‘equazione’ tradotta e specificata nella ‘materia’ con i ‘pittogrammi’ definirne il tratto comporterebbe sempre e quantunque il simbolo della ‘croce’ successiva allo zero (nulla) da cui nata...




....e nell’Uno progredita; affinché si possa al meglio far comprendere e demotivare tutti coloro che aspirando alla vetta, di qualsiasi natura essa appaia: competitiva cima della dovuta conquista, o olimpio di un dio o tanti dèi, difettando e non riconoscendo i gradi, in cui e per cui, l’immateriale Spirito ed il Sacro manifestano e compongono l’aspirata ambita conquista di superiore ingegno e cima fondamento della Via, prodigandosi e cimentandosi ‘artificiosamente’ nei gradi dell’impresa - e in qualtempo rinnegando gli stessi - giammai ne potranno comprendere la Genesi dell’intera salita - della difficile salita scolpita ed intagliata negli scalini della dura crosta e sacrificata - nel Golgota della materia solo per comprenderne la bellezza… Pur convinti della Vetta precipiterebbero (con essa) nel crepaccio della materia se esulano dalla comprensione dell’atto ‘metafisico’ del Sé risalire ed ascendere la primordiale armonia…)…

…Sia l’uomo primitivo religioso che il ricercatore moderno possono ovviamente considerare anche il sacrificio come una specie di corruzione del dio, ma facendo ciò si dimentica che il sacrificio non è soltanto un dono materiale, bensì soprattutto un atto spirituale e… vocale…    












martedì 22 ottobre 2019

ESULE A 'TOMI' (16)




















































Precedenti capitoli:

Meditazioni 'apocalittiche' (1/15)

Prosegue nel...:

Lupo che rifonda il mito (17/8)















È triste vedere la propria terra natia - questo quanto nel primo millennio nel verde cuore che la ispira - assalita da incolte non men che ingorde schiere di barbari. Predata della bellezza che per sempre l’ha resa così unica e mistica, patria di Santi e Poeti letterati ed Eretici uniti dall’univoco credo contro il barbaro, ed a loro come l’inutile cimento accompagnato dal cemento qual credo dell’amplesso e futura orgia per ciò - che in verità e per il vero - li guida, dedico questa mia!




Ci sia concesso, non tanto un inutile discorso, incomprensibile all’elmo del ‘caratteriale longobardo’, quanto l’Elemento proprio tratto dalla vena Poetica raccolta dalla miniera della Storia avversare l’Apocalisse testimoniata attentare la Divina Natura derivata violentata… non men che saccheggiata!

A causa di tale avvilente melanconia (dell’uomo di Genio specchio della verde terra dal barbaro offesa): principio della fine e fine della Cultura intera, ci sia concesso almeno un Epitaffio chiamando in causa il Sidonio Apolinnare, grande sculture di Poesia nonché scrittore di epitaffi quanto elogi funebri, giacché Novembre stagione della morte la quale presto trionferà sulla vita.




Ed a Lui qual futuro nuovo nascituro nel mese dell’epitaffio per ogni tomba e sepolcro scolpito e nel quale il barbaro fonderà il cimitero in nome e per conto della vita perita, contraccambio il pane della Poesia incisa qual eterna gloria e moneta, formulando auguri e grazia per l’imminente nuova venuta.   

Nell’oro degli eterni Elementi tratti ci rinfranchiamo per comporre più solida e certa moneta reclamare ed annunciare la vita apparentemente smarrita comporre l’Epitaffio dalla tomba ove ogni Verso Strofa e Rima possano appena descrivere futura imminente Apocalisse...




Per chi meglio intende Natura e Poesia nel verde cuore nata.

Se nel Tempo tratto furono franchi o unni da longobardi accompagnati, nell’odierno (ri)tratto o scavo medesimi profili ricaviamo e componiamo in ugual carati di prezioso Elemento attentato…

E da simmetrici barbari rubato…




Sidonio aveva il dono, rarissimo, della visione precisa e sfumata; in una breve lettera ad un certo Lampridio, caratterizza attraverso distinzioni di colore, forme e movimenti le diversi stirpi barbare che allora vagavano in violente orde per i territori dell’Impero romano: il sassone dagli occhi azzurri che, abituato al rollio delle imbarcazioni, teme la solidità del terreno; l’erule dalle gote glauche che abita le più lontane coste dell’oceano e ha finito per prendere qualcosa del colore di un mare tutto ricoperto di alghe; il burgundo gigantesco, che piega le ginocchia…

Nei suoi panegirici di Antemio, di Avito, di Maggioriano, Sidonio ridisegna la fisionomia dei barbari attraverso particolari tipici. Di queste invasioni che suonano ormai quasi mitiche, ridotte a racconti che si recitano agli scolari, alcuni poeti furono testimoni diretti.




Videro i barbari ‘dalla testa stretta come un uovo; sotto la fronte due buchi in cui gli occhi sembrano assenti… e perché le loro narici non sconfinino nelle gote, non rechino fastidio al casco e alla maschera, si appiattisce loro con forza il naso fin dalla nascita…’.

Ed ancora per ciò che concerne i loro migliori alleati:

‘Scende dalle balze rifee, sotto il carro dell’Orsa vive un popolo minaccioso nell’animo e nel corpo: sì, il suo orrore è già nei volti degli infanti. La testa, una massa rotonda, si erge incassata sul collo; sotto la fronte nelle due cavità c’è uno sguardo di occhi come assenti; la luce proiettata nella soffitta del cranio arriva a stento alle pupille rientranti, ma tuttavia non chiuse; infatti vedono grandi spazi pur essendo l’arcata non spaziosa, e piccoli varchi in fondo alle cavità compensano l’uso di una vista migliore. Poi, affinché sulle gote non si amplino i due orifizi del naso, una benda fascia e comprime le tenere narici, in modo che cedano agli elmi: così per la guerra l’amore materno deforma i figli, poiché l’appiattita superficie delle guance con un naso non prominente è più ampia. 




Il resto del corpo degli uomini tozzo malformato; ampio si erge il petto, le spalle larghe, il ventre compatto sotto i fianchi. In piedi la statura è nella media, ma risulta imponente se li vedi a cavallo; così spesso pensi che sono alti se son seduti. Non appena il bambino si regge a stento in piedi senza la madre subito un destriero gli offre il dorso; penseresti che gli uomini hanno membra conformi; così sempre ben aderisce al cavallo il fantino; un altro popolo si muove sul dorso degli equini, questo ci abita (un tutt’uno con il cavallo). Archi ricurvi e frecce sono la loro passione, le loro mani sono terribili e ferme, salda è la convinzione di portar morte con le frecce e la furia è istruita a uccidere sotto colpi infallibili. Questo popolo all’improvviso facendo irruzione, dopo aver attraversato con i carri l’Istro gelato, era giunto e la ruota aveva inciso il solco rappreso delle acque. Tu penetrando contro di esso, vagante per le terre della Dacia, avanzi, lo attacchi, lo vinci, lo accerchi…’.




I franchi, fratelli dei germani, antenati di una buona parte dei francesi, frammisti ai longobardi sembravano veri e propri mostri, dalla chioma assolutamente infantile, o molto simile a quella dei pellerossa. ‘La parte anteriore della testa fin sulla fronte è coperta da una capigliatura rossa; tutto il resto fino al collo luccica come un cuoio rasato delle sue setole; i loro occhi acquosi emettono bagliori di un bianco verdastro; sulle loro guance rasate di fresco si drizzano come barbe sottili creste di peli arricciati con il pettine…’.

I più temuti di loro hanno le teste rasate!

Raffinatissimo, buon cittadino romano, console anziano, caro agli imperatori, vescovo, Sidonio Apolinnare disprezza più che detestare i barbari, cui aveva tenuto testa e in mezzo ai quali gli era necessario vivere nella sua sede episcopale di Clemont.





AD V. C. CATVLLINVM

Quid me, etsi ualeam, parare carmen
Fescenninicolae iubes Diones
inter crinigeras situm cateruas
et Germanica uerba sustinentem,
laudantem tetrico subinde uultu
quod Burgundio cantat esculentus,
infundens acido comam butyro?
Vis dicam tibi quid poema frangat?
ex hoc barbaricis abacta plectris
spernit senipedem stilum Thalia,
ex quo septipedes uidet patronos.

Felices oculos tuos et aures
felicemque libet uocare nasum,
cui non allia sordidumque cepe
ructant mane nouo decem apparatus,
quem non ut uetulum patris parentem
nutricisque uirum die nec orto
tot tantique petunt simul Gigantes,
quot uix Alcinoi culina ferret.
Sed iam Musa tacet tenetque habenas
paucis hendecasyllabis iocata,
ne quisquam satiram uel hos uocaret.





Lo confessa il suo amico Catullino: questi barbari con la criniera, questi burgundi ubriachi e stracolmi di cibo, con la testa spalmata di burro rancido, questi barbari ex germani oppure longobardi che, fin dal mattino, appestano l’aria di puzzo delle loro fabbriche metallurgiche o edili. Questi falsi giganti, uomini alti sette nani, tanto insolenti quanto indiscreti, lo disgustano profondamente; egli è obbligato a biascicare una lingua sciocca, priva di riflessioni: come si annoia!, quasi quanto un poeta moderno che vivesse tra i vandali…




Il poeta, quindi, si ritrova assediato dai rozzi Burgundi e dai loro idiomi barbari; longobarda e germanica verba. In quest’ultimo luogo il Sulmonese lamenta la sua condizione di esule in una terra inospitale, abitata da uomini appena degni di questo nome, in quanto più feroci dei lupi selvaggi, fors’anche veri parenti dei cinghiali; ignari del diritto e sottoposti alla legge del più forte. Questi barbari, vestiti di pelle e con orridi volti tra le folte chiome, conoscono solo qualche parola di greco, ormai resa barbara dall’accento getico. Essi ignorano del tutto il latino, cosicché il poeta stesso è costretto a parlare in Sarmatico; sta così venendo meno in lui la consuetudine con la lingua latina. Egli si esercita tra sé e sé, affinché la sua voce non diventi muta e incapace di esprimersi nell’idioma natio. 




Anche Ovidio, come Sidonio, è circondato da esseri che hanno ben poco di umano: Sidonio paragona i Burgundi ai Giganti, gli esseri mostruosi che cercarono di sopraffare gli dei, garanti dell’ordine e della razionalità; Ovidio paragona gli abitanti di Tomi ai cinghiali e li definisce privi di legge; in entrambi i poeti compare un riferimento ai loro capelli (Sidonio ricorda l’abitudine dei barbari di spargere sulle chiome burro rancido, Ovidio fa riferimento alla lunghezza delle loro capigliature); entrambi sono costretti ad ascoltare idiomi stranieri: Sidonio parla di longobarda-germanica verba e di barbarica plectra, Ovidio fa riferimento alla lingua dei barbari, che non conoscono parole greche o latine.





Nel carme sidoniano Talia è costretta a preferire i versi sgraziati e ametrici dei Burgundi; il vate romano Ovidio chiede perdono alle Muse, perché ormai anche la sua lingua poetica è infarcita di barbarismi. Entrambi i poeti, inoltre, imputano l’indebolimento della loro vena poetica alle condizioni in cui sono costretti a vivere: Sidonio rifiuta di comporre l’epitalamio richiestogli da Catullino; Ovidio si lamenta perché i suoi versi risentono del fatto che il loro autore è ormai disabituato a parlare in latino. Ovidio lamenta con il suo interlocutore Severo la mancanza di ispirazione a Tomi: lo stesso Omero, se fosse trasferito, diverrebbe un Geta.




La condizione di Sidonio, però, è quasi peggiore di quella di Ovidio: se il Sulmonese è esule a Tomi, Sidonio si sente un forestiero in casa propria!

Anche Sidonio (che segue, però, la tradizione secondo cui l’esilio di Ovidio sarebbe stato causato da una relazione con Giulia) ha rischiato di compromettere la propria amicizia con il princeps a causa di un errore, un carmen, di cui, però, dichiara di non essere l’autore.

La convivenza forzata con i Burgundi foederati, in conclusione, potrebbe aver offerto al poeta tardoantico la possibilità di accrescere il tono satirico con una criptica allusione allo status esistenziale dell’Ovidio esule. Sidonio, che pure non è incorso in una punizione imperiale, è costretto a vivere circondato da barbari, come Ovidio, in un mondo che ignora quella dimensione della letteratura, che è cifra vitale per i due intellettuali.

Il poeta doctus del V secolo, di fronte al tracollo della civiltà romana, è indotto a trasfigurare letterariamente la realtà che lo circonda - e che suo malgrado - deve subire dall’ignoranza che tende a esportare il proprio dominio,  ‘materia’ celebrata qual nuova dottrina acclamata…

(R. de Gourmont, Il latino mistico; ringrazio M. Karcz 

Karezoid's avatar      per le preziose foto....) 














martedì 15 ottobre 2019

MEDITAZIONI DI VISIONI APOCALITTICHE (15)

















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Meditazioni (14)

Prosegue l'esilio...:

A Tomi (16)













Meditazioni divenute Visioni Apocalittiche, per chi sa vedere ed intendere la giusta Cima ove aspira il Progresso, ove il chiodo penetra lo Spirito…

Apocalittiche Visioni, secolari millenarie annunziate da crepacci cui difendersi nel profondo orrore emanato qual paradossale Abisso opposto alla Vetta per ogni Natura conquistata.

E con cui meditare più certa e sicura salita!




 Aspiriamo alla Cima così come un Tempo interdetto, dettato dai capricci d’ogni nuovo elemento, e seppur mascherati da alpinisti siamo Eremiti fuggiti.

L’apocalittica Visione ci dona forza e tenacia identica dell’alpinista.

Quella apparentemente sfuggita nella dura conquista della Cima, mentre lo Spirito rinvigorito dalla salita ne canta e medita il panorama di ciò che per sempre precipitato oppur naufragato.




 Il ricordo - un respiro sommesso - come il passo lento di una preghiera: speriamo di non scivolare per ogni nuova ‘idiozia’ scritta nella corretta grammatica della ‘bestemmia’ divenuta ‘crepaccio’ dell’Infinito Tempo.

L’Aria s’addensa come una nube purpurea di anidride e cemento; una tempestosa nuvola del nuovo secolo diviene cupa, minaccia bufera, il freddo ci dona antica forza.

In medesima ugual profezia!




Siamo Eremiti fuggiti!

Siamo Eretici perseguitati.

Umiliati e derisi!

Siamo frati e monaci cinti da una corda, il piede gelato ci ricorda il lusso perso dello ‘scarpone’, rimembra il lusso dismesso della nuova ‘moda’ riflesso e specchio della Vita rapita dall’insano avverso istinto coltivato abdicato al ‘piede nudo’ fermo per ogni sasso e legno nel dolore pregato: il delirio divenuto avvelenato crampo - sangue raggrumato - lascia l’impronta d’un sandalo.

Poi quella d’una bestia!  




 Scorgiamo tuoni tradotti in folgori d’energia, l’odierno Evo minaccia burrasca, rimiamo aggrappati alla soglia d’un piccolo riparo privi di parola e il Pensiero farsi pietra e legno: sembra unirci nel conforto, come quando nella medesima soglia evolutiva e ugualmente privi di parola intuivamo il pericolo: la nostra Musica, adesso come allora, un Inno una Preghiera, dall’Alba al Tramonto.

Scorgiamo d’abbasso - quando arrampichiamo e conquistiamo il Cielo d’un diverso Primo miracolo - mentre avanziamo al ‘passo’ d’uno strano ‘ungulato’ proteso verso la parete farsi dura roccia sottratta al rogo dell’araldo celebrato.

Cerchiamo la tana della marmotta mentre ci rifugiamo come un orso assonnato in èstasi del proprio creato… poi alti voliamo come un’aquila senza la preda - araldo dal regale oro coniato solo la miniatura di quanto in segreto… suggellato e dalla Natura ispirato.




 Tutte le Vie perse nel tellurico Tempo fuggito fors’anche perito, intoniamo aggrappati ognuno alla corda dell’altrui sudario: una corda stretta intorno alla Vita piedi freddi ghiacciati ed il saio irrigidito come una coperta quale e solo riparo dall’invisibile bufera.   

La Parola smarrita mentre cerchiamo la Vita, quando ne cantiamo ciò di cui il Sentiero ne componeva le lodi in Rima, scorgiamo l’Apocalisse cingere ogni Elemento incarnato giacché preghiamo il Primo Creato…

Scorgiamo la Guerra da questo paradiso arrancato giacché ogni Natura ci dona la primitiva pace dimenticata: Oro miniato per ogni foglia scritta tornare corteccia - Albero del Cosmo ammirato.  




 Apocalisse abdicata all’istinto d’uno strano sudario divenire nebbia ove la Via sembra smarrita!

Uniti nella preghiera come nell’Eresia pur se unanimemente gridano imprecano e pregano l’umida fredda ‘materia’ oscurare passo e cima: abbreviare il respiro, arrancato inciampato mutilato.

Camminiamo ciechi in questa fitta nebbia per salvare la Vita, non certo estinguerla arrancando alla deriva d’una visione Apocalittica!




 La Guerra fuggiamo per salvare ciò che rimane della Natura ispirare l’umano, ed ogni Elemento che ci accompagna comporre la Rima - la Prima Parola.

Lottiamo contro il male: i santi delle tenebre oscurano il Sole; confondono e barattano i Diavoli del giorno mentre combattiamo la primordiale antica lotta.

Al gelo e freddo dell’Universo non ancora nato!




Una Guerra antica in cima alla Vetta d’un monte troppo antico per essere appena nominato dalla breve Parola, qualcuno lo osserva ci vede ci prega, siamo celati in ogni fiume e pietra, invisibili Dèi combattere il Bene della Terra solcare le onde del Vento specchio d’un mare d’ogni Cima pregata - antica dimora naufragata…

Qualche Profeta ci osserva mentre al vento divenuto bufera di simmetrico ugual Elemento componiamo l’antico Inno: medesimo asimmetrico Tempo intuito non ancor scritto dall’Eremita il quale scruta il Vento prega ugual tormenta parla con la neve - inno e preghiera d’un medesimo Tempo cantato!

Ma (ugualmente) ancora non nato!




 Risorge la Preghiera il cielo s’apre con l’Alba d’una nuova Cima, il Profeta scorge nebbia dopo una strana tormenta d’un mare navigato e pregato, ogni Onda compone una Rima approdata alla Riva.

La vita lo saluta per ogni Bestia incontrata!

La nebbia si dirada, la frammentata Vetta accenna il profilo d’un Dio: si compone alla strana Visione di chi fuggito dalla ‘materia’ divenire solida pietra e Cima: compone lodi per la difficile salita, il burrascoso mare navigato, diveniamo Elementi roccia e vetta scritti in ugual e più solida ‘materia’ divenuta ‘dottrina’.




 Lo stupore del futuro Profeta non ancora Inno alla Via diverrà Prima Parola e sorriso, chino sull’Oceano dell’Universo, un mare di stelle, un buio profondo, lo stupore vince la paura in questo riparo verso la Vetta.

Il silenzio si confonde con l’Infinito.

La Parola muta danza con ogni Elemento condiviso. Se pur freddo sappiamo nascere l’Universo quando ne scaliamo la Cima. Alba di una nuova mattina!




Se pur il gelo pietrifica le membra, quando qualcuno ci osserverà decifrato dall’inutile Apocalisse del progresso, leggerà Frammenti di ossa, resti pietrificati descrivere uno strano geroglifico - una Spirale avvinghiata dentro una conchiglia come fosse una nebbia.

Il mare divenire cupo come una tormenta peggio d’una bufera.

L’Apocalisse annuncia il male fuggito: una lotta i cui resti scaverai nella materia…