CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

venerdì 28 febbraio 2014

LA CHIESA DI SHILOH (2)














































Precedente capitolo:

La chiesa di Shiloh (48)

Prosegue in:

La chiesa di Shiloh (3)













La battaglia era finita….
Essa era stata combattuta con una violenza ed una ferocia senza pari, invisibile ai loro occhi celati dietro binocoli beffardi, occhi astuti signori della Poesia della guerra,… che non è rima di vita….
Pittsburg Landing fu invero una tra le più sanguinose battaglie della storia. I confederati avevano lasciato lassù sul campo 1723 morti, 8313 feriti, 959 prigionieri e dispersi: in tutto 10995 uomini, quasi un quarto degli effettivi dell’Armata…. Alle truppe federali la battaglia era costata 1754 morti, 8408 feriti, 2285 prigionieri e dispersi, in totale 12447.
Complessivamente i morti ed i feriti delle due parti erano stati 20198 cioè circa il 20% delle forse impegnate. A Solferino, considerata una tra le più sanguinose battaglie del secolo XIX e combattutasi appena tre anni prima, i morti ed i feriti dei tre eserciti non avevano ecceduto il 10% delle forze impegnate…




                   
                                              TRE  PIU’ UNO FA UNO



Nell’anno 1861, Barr Lassiter, un giovane di ventidue anni, viveva con i genitori e la sorella maggiore nei pressi di Carthage, nel Tennesse. La famiglia conduceva un’esistenza umile e si manteneva coltivando una piantagione piccola e poco fertile.
Dal momento che non possedevano schiavi, i suoi membri non venivano annoverati tra le ‘persone più in vista’ del vicinato; ma erano gente onesta, istruita, educata e rispettabile, per quanto lo potesse essere una famiglia che non esercitava un dominio personale sui figli e sulle figlie di Cam.
Il vecchio Lassiter aveva i modi severi che spesso contraddistinguono chi nutre una devozione intransigente al dovere e ne nascondono il carattere cordiale e affettuoso. Era stato temprato nel ferro di cui sono fatti i martiri, ma nel cuore del suo stampo si era insinuato un metallo più nobile, che si fonde a una temperatura più mite, senza però, mai colorare né ammorbidire la durezza esteriore.




Sia a causa dell’ereditarietà che dall’ambiente, il carattere inflessibile dell’uomo si era trasmesso in parte agli altri membri della famiglia; casa Lassiter, sebbene non priva di affetto domestico, era autentica roccaforte del dovere, e il dovere… ah, il dovere è crudele come la morte!
Al suo scoppio, la guerra suscitò in quella famiglia, come in molte altre dello Stato, dei sentimenti contrastanti: il ragazzo rimase fedele all’Unione, gli altri le divennero selvaggiamente ostili. Questa infelice divisione comportò un’intollerante rancore domestico, e quando il figlio e fratello oltraggioso se ne andò di casa con il proposito dichiarato di volersi arruolare nell’esercito federale, nessuno gli strinse la mano, nessuno gli rivolse una parola di commiato e nessuno gli fece un augurio che lo avrebbe accompagnato nel mondo in cui si apprestava ad affrontare, con tutto lo spirito di cui era capace, il destino che lo attendeva.




Diretto a Nashville, già occupata dall’esercito del generale Buell, si arruolò nel primo reparto in cui si imbatté, un reggimento di cavalleria del Kentucky, e a tempo debito passò per tutti i gradi della carriera militare che da recluta inesperta lo fecero diventare un provetto soldato di cavalleria. E per giunta era davvero un ottimo soldato di cavalleria, sebbene il suo racconto orale, da cui è stata tratta questa storia, non ne faccia menzione; ho appreso questo fatto dai suoi compagni sopravvissuti. Poiché Barr Lassiter aveva risposto ‘presente’ al sergente chiamato Morte. 
Due anni dopo che lui si fu arruolato, il suo reggimento passò attraverso la regione da cui il giovane proveniva. L’area nei dintorni era stata messa duramente alla prova dalle devastazioni della guerra, essendo stata occupata.....

(Prosegue....)














sabato 22 febbraio 2014

LA MASCHERA CADUTA (il varo della nave...)











































Prosegue in:

Eterno volto dell'ipocrisia della vita














... Per abbreviare la strada prese un ponte di ferro sopra un canale che conduceva
ai quartieri residenziali, imboccò una strada dalle vetrine sfarzose, ben illuminate e
popolosa, per ritrovarsi poi, poco più in là, di nuovo nel buio di un vicolo, quasi la
città avesse fulmineamente mutato aspetto.
La vecchia Neb di Amsterdam, la famigerata strada delle prostitute e dei protetto-
ri, demolita ormai da anni, era risorta lì, in un'altra zona della città, come un orrobi-
le morbo che d'un tratto riesploda.
Non era molto diversa: forse meno brulicante e selvaggia di un tempo, ma assai più
spaventosa. I reietti di Parigi, Londra, delle città belghe e russe, lasciata la loro pa-
tria col primo treno, in precipitosa fuga di fronte all'esplodere delle rivoluzioni, si
ritrovano proprio lì, in quei locali 'eleganti'.




Al passaggio di Hauberrisser portieri in livrea, con il tricorno in testa e un bastone
dal pomo lucente in mano, spalancavano muti come automi le porte d'ingresso im-
bottite e le richiudevano, sicché ogni volta una luce forte e abbagliante si riversava
nel vicolo e per un secondo, quasi prorompessero da una gola sotterranea, un urlo
selvaggio di musica negra, uno trepitare di cimbali o un folle lamento di violini ziga-
ni squarciavano l'aria.
Sopra, al primo o al secondo piano delle singole case, regnava un altro tipo di vita:
silenziosa, sussurrata, felinamente in agguato sopra e dietro le tendine rosse. Un
breve e rapido picchiettar delle dita sui vetri, qua e là richiami sommessi, frettolosi,
scanditi in tutte le lingue del mondo eppure inequivocabili: un busto di donna in ca-
micia da notte bianca, la testa invisibile nell'oscurità, come staccata dal tronco e
braccia che fanno gesti d'invito... poi di nuovo finestre aperte, nere quanto la pece,
di un silenzio spettrale, come se in quelle stanze abitasse la morte.




L'edificio d'angolo in fondo al lungo vicolo sembrava relativamente innocuo: a metà
strada fra il varietà di infimo ordine e il ristorante, a giudicare dai manifesti affissi.
Hauberrisser entrò.
Una sala gremita, i tavoli coperti da tovaglie gialle; tutti mangiavano e bevevano.
In fondo, sopra un palcoscenico, una dozzina di canzonettisti e comici sedevano
in semicerchio in attesa di esibirsi.
Un vecchio dalla pancia sferica, due occhi cisposi e sporgenti, la barba bianca, le
gambe incredibilmente magre avvolte in una calzamaglia verde con le estremità pal-
mate da rana, sedeva muovendo su e giù le dita dei piedi accanto ad una cantante
francese di 'couplets' in costume da 'Incroyable' e le diceva a bassa voce cose che
sembravano di grande importanza.




Il pubblico intanto si sorbiva, senza comprenderne una parola, il monologo in tede-
sco, di un caratterista vestito da ebreo polacco in caffettano e stivaloni: costui tene-
va in mano una piccola siringa di vetro - di quelle per le otiti in vendita nei negozi
di sanitari - e cantava con voce nasale intercalando ogni strofa con un grottesco
'ballabile':

Dalle quindici alle sedici
visita al secondo piano,
è re tra i medici
il dottor Mettimano.

Hauberrisser si guardò intorno alla ricerca di un posto; ovunque folla - per lo più
ceto medio locale. Soltanto a un tavolo al centro della sala un paio di sedie erano
ancora sorprendemente libere. Tre donne mature e prosperose e una vecchia dal-
lo sguardo severo, col naso aquilino e gli occhiali di corno, sedevano intorno a una
caffettiera coperta da un cappuccio di lana colorata a forma di gallo sferruzzando
con destrezza, come in un'oasi di quiete domestica.




Con un gentile cenno del capo le quattro signore lo invitarono ad accomodarsi.
Sulle prime aveva creduto si trattasse di una madre insieme alle figlie, ma ora vide
che non potevano essere parenti. Le tre più giovani, pur non somigliandosi affatto,
erano le tipiche olandesi di mezza età - bionde, floride e bovine -, mentre la matro-
na dai capelli bianchi doveva avere origini meridionali.
Il cameriere gli portò la bistecca con un'aria compiaciuta; tutt'intorno ai tavoli sghi-
gnazzava e lo guardava scambiandosi commenti a mezza voce.
Cosa significa tutto ciò?
Hauberrisser non ne veniva a capo...
Osservò di sottecchi le quattro donne: no, impossibile, erano borghesucce fatte e
finite. L'età avanzata era di per sé garanzia della loro rispettabilità. Sul palcosceni-
co, intanto, un tizio nerboruto dalla barba rossa, con un cilindro a stelle e strisce,




calzoni aderenti a righe bianche e blu, una sveglia sul gilet a quadretti verdi e gialli
e in tasca un'anatra cui era stato tirato il collo aveva spaccato la testa del suo com-
pare, la vecchia rana, sulle stridule note dello 'Yankee Doodle', mentre due strac-
civendoli di Rotterdam, marito e moglie, cantavano accompagnandosi col piano-
forte la vecchia e malinconica canzone... della Sanremo morta....
Vivaci come gli arabeschi di un caleidoscopio, i 'numeri' dello spettacolo si susse-
guivano senza posa, alla rinfusa: ricciute babygirls inglesi di un'innocenza terriffican-
te, apache con scialli di lana rossa, una danzatrice del ventre siriana con tanto di
viscere ballonzolanti, imitatori di campane e cantanti popolari bavaresi che rutta-
vano seguendo la melodia.




Un tale miscuglio di assurdità aveva sui nervi un effetto quasi narcotizzante, come
se conservasse una traccia del fascino misterioso dei giocattoli (di nuova fabbrica-
zione del progresso...), quello che spesso medica un animo fiaccato dalla vita con
maggior efficacia dell'opera d'arte più sublime.
Il tempo passò senza che Hauberrisser se ne rendesse conto, e quando l'apoteo-
si finale concluse lo spettacolo e il gruppo degli artisti sfilò sventolando le bandiere
di tutti i paesi - probabilmente a rappresentare il fausto ritorno della pace mondiale
- con in testa un negro che danzava un 'cake-walk' al ritmo del consueto:

Oh Susy Anna
Oh dont't cry for me
I'm goin' to Loosiana
My true love for to see.....

(Prosegue....)

















martedì 18 febbraio 2014

IL PREDICATORE





































(Per Francis Parkman:

Francis Parkman)

Prosegue in:

Due orologi 












Francis Parkman s'inoltrò nell'immensa distesa delle Grandi Pianure, dove
si unì a una banda di nomadi oglaga della tribù Lakota; ma quando si girò
a guardare dietro di sé, anche il Missouri colonizzato parve una terra stra-
niera ai suoi occhi di bostoniano istruito a Harvard.
A un altro passeggero che sbarcò da un battello quella primavera dovette
apparire assai diverso: per lui le piane occidentali del Missouri dovevano
rappresentare una sorta di Sion.
Anche quest'uomo, all'inizio del 1846 aveva  trascorso una settimana su
un battello parrtito da St. Louis e diretto a ovest.
Se fosse stato a bordo del Radnor, Parkman lo avrebbe notato: era una
figura imponente, un uomo alto con il viso lungo e magro, i capelli con la
scriminatura da una parte pettinati in modo da lasciare scoperta la fronte
spaziosa.


























Forse teneva in mano una Bibbia quando compariva nella sala da pranzo
nell'ora dei pasti; il suo nome era Robert Sallee James, ma quest'uomo
di 28 anni era meglio conosciuto fra i suoi vicini battisti come 'fratello' ....
...o 'predicatore James'.
Probabilmente sbarcò a Liberty, nella contea di Clay, sulla sponda op-
posta a Independence. Lì dovette noleggiare un cavallo o un carro per
compiere il lungo viaggio verso casa sulle piste dissestate che gli abitan-
ti del Missouri chiamavano 'stade', attraverso un paesaggio che somiglia-
va a un tappeto spinto in un angolo: sgualcito, rugoso, solcato da burro-
ni e cosparso di alberi da legname.
Il suo percorso dovette condurlo attraverso la città di Liberty, la prospe-
rosa ma modesta capitale della contea, e poi una ventina di chilometri
più in là nelle propagini settentrionali di Clay.

















Lì dovette superare una piccola altura e avvistare un'umile casa a un
piano, composta da tre stanze e uno stretto portico, appollaiata insie-
me a una stalla e a qualche altro fabbricato sopra il letto di un torrente
infossato.
....Era arrivato.
James aveva chiaramente scelto con cura il periodo per quel lungo
viaggio appena terminato. Gennaio, pur essendo in pieno inverno, era
un mese stracarico di lavoro per il tipico agricoltore del Missouri, ma
dall'ottava alla dodicesima settimana dell'anno il ritmo subiva un rallen-
tamento temporaneo.
Anche il fiume era finalmente libero dal ghiaccio e i primi battelli a
ruota si ormeggiavano alla lunga banchina della contea di Clay.




















Robert James viveva in un ambiente familiare in apparenza felice, con
una moglie giovane e graziosa e un figlio piccolo.
....Ma era un uomo irrequieto, ossessionato.
In breve tempo trovò una tribuna per la propria ambizione nella chie-
sa battista di New Hope. Fondata nel 1828, era un umile edificio in
legno di sei metri per sei, con un camino di pietre disposte a casaccio
che si apriva su un grande focolare.
Anche in un locale così angusto c'era spazio in abbondanza per i fe-
deli durante le riunioni domenicali: il loro predicatore, morto poco
tempo prima, aveva allontanato la maggior parte dei membri con le
sue accese discussioni dottrinali sulla comunione.
Quando arrivò James, solo quindici persone si riunivano per i servi-
zi religiosi.
In quella chiesa tetra e polverosa James scoprì la propria luce inte-
riore; e in lui la piccola comunità trovò la propria salvezza, in senso
....sia spirituale che terreno......
(T. J. Stiles, Jesse James storia del bandito ribelle)




 Prosegue in:


Il predicatore (2) &

Il predicatore (3)


















sabato 15 febbraio 2014

L' AGENTE SEGRETO













































Prosegue in:

l'agente segreto (2) &













Mr. Verloc quando usciva la mattina lasciava nominalmente il negozio
alle cure del cognato.
Era possibile farlo, perché gli affari, molto scarsi a qualsiasi ora, erano
praticamente inesistenti prima di sera. Mr. Verloc non si curava che mol-
to poco di questo suo commercio di facciata. E comunque a sorvegliare
il cognato c'era anche sua moglie.
Il negozio era piccolo, come del resto la casa.
Era una di quelle case squallide di mattoni, di cui c'era grande abbondan-
za prima che albeggiasse su Londra l'era della ricostruzione.




Il negozio aveva la forma di uno scatolone, con una vetrata sul davanti a
piccoli riquadri.
Durante il giorno la porta rimaneva chiusa, la sera discretamente, ma so-
spettosamente... accostata.
La vetrina conteneva fotografie di ballerine più o meno svestite; non ben
identificati pacchetti in involucri che facevano pensare a confezioni medi-
cinali; buste chiuse di carta gialla, molto sottili, fogli di carta gialla e con
il prezzo di due scellini e sei pence marcato in grosse cifre nere; qualche
numero di vecchi fumetti francesi che penzolavano da una cordicella co-
me fossero stati stesi ad asciugare; un bricco sbiadito di porcellana cele-
ste, uno scrigno di legno nero, bottiglie di inchiostro e vecchi timbri; alcu-
ni libri con titoli che alludevano indecenti; qualche copia di giornale sco-
nosciuto, con titoli quali 'La Torcia', o 'Il Gong', titoli stimolanti.




E i due lumetti a gas dietro i vetri erano sempre tenuti al minimo, che fos-
se per tutelare l'economia o per tutelare i clienti....
Questi clienti potevano essere o uomini molto giovani, che ciondolavano
un po' attorno alla vetrina prima di sgattaiolare dentro; o uomini di età più
matura, ma dall'aria generalmente non molto in soldi.
Vi era tra questi chi portava il bavero dell'impermeabile tirato su fino all'-
altezza dei baffi, con tracce di fango sul fondo dei pantaloni dozzinali che
rivelavano di essere stati indossati molto a lungo.
Ma nemmeno le gambe che contenevano dovevano essere di solito gran-
ché. Con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni e con quello sguardo
idiota fra i denti....




I clienti sgattaiolavano dentro di traverso, introducendo prima una spalla
poi l'altra, un'occhiata, un richiamo un segnale come temessero di far suo-
nare la campana.
In realtà guardarli è un piacere....




Mr. Verloc quella mattina era uscito, non era al negozio....
...Girando a sinistra continuò il suo cammino lungo una strada stretta, co-
steggiata da un muro giallo che per qualche misteriosa ragione portava
scritto sopra, in lettere nere, n. 1 Chesham Sqare.
Chesham Square era ad almeno una cinquantina di metri di distanza, e Mr.
Verloc, abbastanza cosmopolita per non essere ingannato dai misteri topo-
grafici di Londra, proseguì oltre con passo fermo, senza segni di indigna-
zione o di sorpresa.
Finalmente, con la determinazione dell'uomo d'affari, raggiunse la piazza,
e si diresse diagonalmente verso il numero 10. Questo apparteneva ad un
imponente cancello per le carrozze inserito in un alto e levigato muro tra
due case, delle quali una con una certa razionalità portava il numero 9 e l'-
altra il numero 37; ma il fatto che quest'ultima appartenesse a Porthill Stre-
et, una strada ben nota nella zona, era stato pubblicizzato con un'iscrizione
posta sopra le finestre del pian terreno da qualche efficiente autorità prepo-
sta al compito di censire le case londinesi non conteggiate.




Verloc non si preoccupava più di tanto delle responsabilità municipali circa
quegli immobili, la sua missione nella vita, infatti, era la protezione del mec-
canismo sociale, non il perfezionamento o la critica di esso....




L'ora era così mattutina che il portiere dell'Ambasciata uscì di corsa dalla
sua abitazione ancora alle prese con la manica destra del soprabito della
livrea.
Mr Verloc, cosciente di quell'agitazione al suo fianco, tirò dritto porgendo
semplicemente una busta affrancata con lo stemma dell'ambasciata, e pas-
sò oltre. Mostrò lo stesso talismano all'usciere che gli aprì la porta, e si fe-
ce indietro per lasciarlo entrare nella scala.
Mr. Verloc, fu così condotto lungo un corridoio del piano terreno, a sinistra
di una grande scala ricoperta da un tappeto, fu improvvisamente spinto ad
entrare in una stanza piuttosto piccola, ammobiliata con una pesante scriva-
nia e poche sedie.
Il servitore richiuse la porta, e Mr. Verloc rimase solo.
Non si sedette.




Con cappello e bastone in una mano si diede un'occhiata attorno, mentre si
passava l'altro mano grassoccia sulla testa lucida e senza cappello. Un'altra
porta si aprì senza far rumore, e Mr. Verloc bloccando di colpo lo sguardo
in quella direzione non vide all'inizio altro che degli abiti neri, la cima di una
testa calva, e due baffi spioventi grigio scuri che sbucavano da dietro due ma-
ni rugose.
La persona che era entrata teneva un fascio di carte davanti agli occhi e cam-
minava verso la scrivania a passettini, girando contemporaneamente le pagine.
Il Consigliere Privato Wurmt, Cancelliere d'Ambasciata, era piuttosto miope.
Posando sulla scrivania le carte, il funzionario solerte rivelò un volto dalla car-
nagione smorta, di una bruttezza melanconica, incorniciato da una gran quan-
tità di capelli robusti, lunghi e grigio scuri, e pesantemente barrato da due so-
pracciglia folte e cespugliose.




- Ho qui alcuni dei vostri rapporti,
disse il burocrate con una voce sorprendentemente mite, mentre con forza
spingeva sulle carte la punta dell'indice.
Si fermò; e Mr Verloc, che aveva riconosciuto molto bene la propria scrittu-
ra, attese silenziosamente, quasi trattenendo il respiro.
- Non siamo soddisfatti dell'atteggiamento della polizia da queste parti,
continuò l'altro, con tutta l'aria di una grande stanchezza mentale.....
E per la prima volta da quando quella mattina aveva lasciato casa, Mr Ver-
loc mosse le labbra.
- Ogni paese ha la sua polizia,
disse filosoficamente.
Ma poiché il funzionario d'ambasciata continuava a fissarlo sbattendo gli oc-
chi, si sentì costretto ad aggiungere:
- Mi permetta di osservare che non ho alcun modo di influire sulla polizia
da queste parti.




- Quello che si desidera,
riprese l'uomo dei documenti,
- è che accada qualcosa di preciso che serva a stimolare la loro vigilanza.
Questo rientra nei vostri compiti - non è così?
Il funzionario sbatté ancora le palpebre perplesso, quasi infastidito dalla luce
opaca della stanza. E ripeté vagamente:
- La vigilanza della polizia - e la severità dei magistrati. La generale clemen-
za della procedura giudiziaria in questo paese, e la mancanza totale di ogni
misura repressiva, sono uno scandalo per l'intera Europa.... Quello che si
vuole subito è l'intensificazione del disagio - dell'inquietudine che senza dub-
bio esiste.......
- Senza dubbio, senza dubbio,
esclamò Verloc con una totale deferente tonalità da basso di pregio oratorio,
così completamente diversa dal tono con cui aveva parlato prima che il suo
interlocutore ne rimase profondamente sorpreso....
- Esiste a un livello di notevole pericolo. I miei rapporti degli ultimi dodici me-
si lo mettono chiaramente in evidenza.....

(Prosegue....)
















mercoledì 12 febbraio 2014

UN DIALOGO






































Prosegue in:

Un dialogo (2)













- Davvero, sei proprio irremovibile nella tua crudele decisione?
- Sì, lo sono: il mio progetto non è nato in me in un momento di passione, non è il frutto di un passeggero entusiasmo o di un rabbioso rancore. Da parecchi anni ci penso e non ho mai mutato di proposito. E una volta deciso di partire, devo proprio partir subito, perché i pochi quattrini, che ancor mi restano dell’eredità paterna, bastano appena per pagare il mio viaggio fino a Buenos Aires, e fra un mese al più tardi io sarò in mare. Mi vanno dicendo tutti, che la professione di dottore in legge (se pure è una professione) è la peggiore fra tutte quelle che può avere un galantuomo, che voglia emigrare nella Repubblica Argentina; ma tu lo sia, ch’io ho studiato legge per soddisfare all’ultimo desiderio di mio padre; ed io amo la chimica e la conosco un pochino, e poi ho due braccia robuste e il coraggio di far di tutto.




L’ignoto mi affascina, l’ignoto mi inebria; il pensare che all’indomani del mio sbarco in America non saprò dove andare, né come guadagnare il pane, mi tenta maledettamente. E poi qui ci starei male; il nostro paese è infelice; i tedeschi sono ritornati. Non si può salire in alto senza fare la corte ai nostri tiranni, e la vita dell’impiegato mi fa nausea, e quella dell’avvocato non mi piace. Ho avuto tante disgrazie in famiglia… ho bisogno di andar lontano. Tu saresti l’unica ancora, che potrebbe arrestar la mia nave su questi lidi, ma tu, che sei medico, che hai fra le mani una professione, che dovunque e subito può darti un pane onorato, hai per il primo il torto di non seguirmi. Tu non mi apprezzi com’io ti apprezzo.




- Ah! Attilio, non dirmi queste brutte parole, alle quali per il primo tu stesso non credi. Più d’una volta tu mi hai parlato de’tuoi progetti americani, e quando non sono riuscito a combatterli, mi son provato a diventar americano anch’io, ma pur troppo non ci sono riuscito. Io sono timido, sono debole; detesto i mutamenti troppo rapidi delle abitudini… non saprei rassegnarmi a lasciare il mio paese; e sono convinto che riuscirei in America assai peggio che non qui. Non ho carattere risoluto, non ho fede in me stesso; a te non servirei che d’impiccio, e invece di pensare a guadagnarti un posto al sole, tu avresti su le tue spalle anche il tuo povero amico…
- Giovanni, Giovanni, tu sei troppo modesto, tu dimentichi, che, mutando aria e orizzonti, anche gli uomini cambiano; e in un nuovo mondo tu troveresti forze nuove, ti spoglieresti di quella crosta ipocondriaca e nostalgica, che non conviene ai tuoi ventidue anni e a questi tuoi bei capelli d’oro.




- Se non ti seguo, dev’essere molto forte la ragione che mi trattiene. La tua amicizia ha per me assorbito tutte le amicizie minori, sicché partendo tu, io rimango solo, proprio solo. Avrei sperato di continuar teco la vita dell’uomo, come insieme avevamo trascorsa quella del fanciullo e del giovane; ma la forza maggiore ti porta lontano, ed io rimarrò solo a custodire le care memorie che abbiamo comuni.
- Andiamo, andiamo, Giovanni, non farmi piangere. Oggi ho bisogno di tutta la mia fermezza. Io ti apprezzo assai, ti apprezzo più di tutte le care donnine, che hanno ferito il mio cuore, ti apprezzo quanto ho apprezzato mio padre; ma io devo lasciar l’Europa in cerca d’un ideale.
- Ma l’ideale, Attilio mio, non si trova soltanto in America, ma qui e in ogni luogo, dove vi sia un uomo che guardi in alto sotto un cielo che non ha confini.




- Sì, tu credi in Dio, puoi farti un ideale dovunque, ma io devo cercarmelo sulla terra questo Dio, e lo troverò più facilmente in una terra vergine e libera, in un mondo nuovo non ancora guastato dagli uomini e dagli Dei.
- Quando ti conobbi, io ero cattolico, ma in poch’anni tu mi facesti cristiano, poi questa mia conversione ti pareva ancora insufficiente e tentasti di togliermi ogni fede nel mondo degli spiriti. Ci siam battuti a lungo, tu lo sai, ed io rimasi né vinto né vincitore. La mia fede cristiana cadde anch’essa sotto i colpi di martello della tua critica vandalica e rimasi quel che sarò per tutta la vita, un deista.
- Bel deista davvero! Quando tu hai tolto al tuo Dio l’amministrazione del mondo, quando gli hai levato la questura, il paradiso, il purgatorio e l’inferno, rimane qualche cosa meno di un sottoprefetto; rimane una parola, che esprime in modo molto vago la somma di tutte le forze della natura.




- No, Attilio, il mio Dio non è una teoria, né un’ipotesi, ma è una fede: il mio Dio non si vede, non si tocca, soprattutto non si discute; non appartiene alla scienza, ma ad un altro mondo, che è nel mio cuore o nel mio cervello o dove diavolo tu vuoi, ma che la scienza non può distruggere. I tuoi ragionamenti sono pieni di logica; la tua parola è eloquente ed ispirata; i tuoi autori prediletti mi innamorano; ma io dopo averli letti, dopo averti lasciato parlare, crollo il capo e dico ancora e dico sempre: Dio esiste. E tu lo sai, potrei avere maggiori ragioni per essere razionalista, io che ho veduto sul tavolo anatomico il povero cadavere umano, livido, fetente, men bello della carogna di un cane o di un gatto. Ma, quando penso, che dopo tanto tormento, tutte le scienze riunite non hanno sfiorato che l’epidermide della natura, e voi altri tutti non sapete spiegarmi il principio della vita di un infusorio, mi rassegno a mettere al posto di tanta ignoranza un’ipotesi che mi consola e mi conforta.
Il vostro Aristotile ha pur detto, che è assai meglio fare una cattiva ipotesi, che di non farne  punto; e voi altri, anche nelle scienze più positive e sperimentali, fate ad ogni momento teorie, supposizioni, ipotesi d’ogni forma e d’ogni colore. Ma dunque, lasciatemi anche la mia, che è più bella di tutte le vostre sommate insieme.  




- Sta bene, Giovanni, ma come mai potresti elevare a religione un’ipotesi fredda e vaga? come riscaldare una teorica fino a farne un sentimento? Tu hai rotto il tabernacolo, hai dispersi gli incensi, hai maledetto anche il simbolo d’un sacrifizio di sangue, e poi credi di avere una religione? Le ipotesi si scrivono e si cancellano senza sangue e senza pianto, come si fa delle formule....

(Prosegue....)

















lunedì 10 febbraio 2014

SONO SANTO DI SPIRITO
















Precedenti capitoli:

Secondo piano.. quarta sala..&

Prima visita: il Jeu de Paume


Prosegue in:

Sono sano di Spirito












Sermone di Vincent.

       Sono uno straniero sulla terra, non nascondono i Tuoi comandamenti 
da me. Si tratta di una vecchia fede ed è una buona fede che la nostra vita 
è il progresso del pellegrino - che siamo stranieri sulla terra, ma che se 
questo sia ancora così noi non siamo soli perché il nostro Padre è con noi.
Noi siamo pellegrini, la nostra vita è una lunga passeggiata o viaggio dalla 
terra al cielo. L'inizio di questa vita è questa: c'è solo uno che non si ricor-
da più il suo dolore e la sua angoscia per la gioia che un uomo è venuto al 
mondo. 
Lei è nostra Madre. 




La fine del nostro pellegrinaggio è l'ingresso nella casa del Padre Nostro 
sono molte dimore dove, dove si è recato davanti a noi per preparare un 
posto per noi. 
La fine di questa vita è ciò che chiamiamo morte - è un'ora in tutto, che le 
parole vengono pronunciate, le cose sono viste e sentite che sono conser-
vate nelle stanze segrete dei cuori di coloro che stanno accanto – è così che 
tutti noi....
Queste cose hanno nei nostri cuori o presentimenti o cose del genere. 
C'è il dolore nell'ora in cui un uomo è venuto al mondo, ma la gioia utile, pro-
fondo e indicibile, gratitudine così grande che giungeva più alto dei cieli.
Sì, gli Angeli di Dio, sorridono, sperano e si rallegrano quando un uomo è ve-
nuto al mondo. 




C'è il dolore nell'ora della morte, ma c'è gioia indicibile e utile quando è l'ora 
della morte, per uno che ha combattuto una buona Battaglia. C'è uno che ha 
detto: Io sono la risurrezione e la vita, se uno crede in me, anche se muoia vi-
vrà. 
Ci fu un apostolo che ha sentito una voce dal cielo che diceva: Beati quelli che 
sono nel Signore perché riposano dalle loro fatiche e le loro opere li seguono.
C'è gioia quando un uomo è venuto al mondo, ma non c'è gioia più grande quan-
do lo spirito è passato attraverso grande tribolazione, quando un angelo è nato
in Cielo. 
Il dolore è meglio che la gioia - e anche nella gioia del cuore è triste - ed è me-
glio andare alla casa del lutto che la casa delle feste, dalla tristezza del volto del 
cuore è fatto meglio. 




La nostra natura è triste, ma per coloro che hanno imparato e stanno imparan-
do a guardare a Gesù Cristo c'è sempre motivo di gioire. E' una buona parola 
quella di St. Paolo: come doloroso essere eppur sempre allegri. Per coloro che 
credono in Gesù Cristo, non c'è la morte e nessun dolore, con  la speranza - non 
disperate - c'è solo una costante rinascita, una costante via dalle tenebre alla luce. 
Essi non piangono come coloro che non hanno speranza - la fede cristiana rende 
la vita alla vita sempreverde.
Noi siamo pellegrini e forestieri sulla terra - veniamo da lontano e andiamo lontano. 
– Il viaggio della nostra vita passa dal seno amorevole della nostra Madre sulla ter-
ra tra le braccia del nostro Padre celeste.
Tutto cambia sulla terra - non abbiamo una cittadinanza stabile qui - è l'esperien-
za di tutti. Che è volontà di Dio che noi parte con quello che abbiamo più caro sul-
la terra - ci siamo, cambiamo sotto molti aspetti, non siamo quello che eravamo un 
tempo….

(Prosegue....)