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Quando andai (d) a Sidney (2)
Contrariamente alla maggior parte dei grandi musicisti di jazz Sidney
Bechet fu sempre un solitario, un franco tiratore, che preferì esibirsi come
solista per non essere schiavo di un caporchestra e per conservare così la
libertà d’azione per appagare la propria smania di viaggiare.
Tanto grande era questa sua smania, tanto spiccato il suo Spirito di indipendenza, che condusse per parecchi anni una vita errabonda nei quattro
angoli d’Europa e finì per incappare in avventure degne di un Eretico della
musica….
Negli anni Venti fu dovunque: dall’Inghilterra alla Francia, alla
Germania, dalla Russia, alla Spagna, al Portogallo, e tornò più volte in
patria. Fu processato, e due volte fu espulso dai Paesi in cui si trovava; si
intruppò in compagnie di rivista, come musicista e attore di teatro, e suonò il
clarinetto e il sassofono nei luoghi meno battuti dai musicisti di jazz, una
volta persino a Bucking Palace.
Tra un viaggio e l’altro trovò il modo di aprire uno ‘speakseasy’ e,
anni dopo, una specie di stireria. Quando infine morì, gli fu eretto un
monumento di bronzo in Francia. Eppure, una vita tanto singolare per un jazzman
ebbe inizio nel luogo e nel tempo in cui cominciarono quelle di tanti pionieri
della musica afro-americana, e per qualche anno si svolse parallelamente alle
loro, percorrendo le stesse tappe.
Sidney Bechet apparteneva infatti alla generazione degli Armstrong, dei
fratelli Dodds, quella che marciò nella ‘second-line’ dietro i funerali, che
suonò nei locali di Storyville e quindi nei cabarets del South Side di Chicago.
A New Orleans, ove nacque il 14 maggio 1897, in una famiglia di creoli di
colore, il destino era praticamente segnato per un tipo come lui. Suo nonno era
stato uno schiavo che cantava, ballava e percuoteva i tamburi nella Congo
Square; suo padre, che mandava avanti un negozietto di scarpe per tirar su come
meglio poteva i suoi sette figli, aveva altrettanta propensione per la musica,
e così i suoi fratelli; e poiché Sidney era il più dotato di tutti, fu subito
chiaro che avrebbe fatto il musicista.
A sei anni suonava già il clarinetto tanto bene che Gorge Baquet, uno
dei più reputati musicisti della città, si offrì di impartirgli delle lezioni,
gratuitamente. Non andò più in là di un’istruzione tecnico-pratica, né
pensarono di insegnargli la musica gli altri maestri che lo aiutarono a
impadronirsi dei segreti del clarinetto, e cioè Louis Nelson e i due Lorenzo
Tio, senior e junior.
A New Orleans non era ritenuto necessario saper leggere e scrivere la
musica; era importante essere in grado il più presto possibile, di suonare in
una delle tante orchestre della città. Sidney si considerò pronto molto presto:
a undici anni era già un membro della Eagle Band, che Bunk Johnson aveva
ereditato da Buddy Bolden, e poco dopo, con un paio di calzoni lunghi che
dovevano farlo sembrare un giovanotto, si avventurò nei locali di Storyville
per suonare in questa o quella orchestrina.
Fu visto e ascoltato anche a fianco di King Oliver, marciò nelle
‘brass-bands’, suonò nelle sale da ballo, e a un certo punto si lasciò persino
convincere da Clerence Williams a seguirlo verso il Nord con un complessino
raccogliticcio. La destinazione non era Chicago, come l’adolescente Bechet
aveva pensato: era il Texas, e lì, a Galveston, gli avventurosi musicisti
partiti da New Orleans fecero naufragio. Per meritarsi il viaggio di ritorno
fino a casa, Bechet dovette suonare il clarinetto sul treno.
A vent’anni, nell’estate del 1917, decise di compiere il grande
viaggio. Si aggregò a una troupe di vaudeville, che lo portò di tappa in tappa
fino a Chicago, e qui, come aveva già deciso di fare, si fermò. Gli amici che
lo avevano preceduto avevano mandato a casa notizie molto incoraggianti circa
le occasioni di lavoro offerte nei locali dei South Side e lui voleva coglierne
qualcuna. In breve si trovò in mezzo ai concittadini al Deluxe Café,
nell’orchestra di Lawrence Duhé. Poi il complesso si trasferì al Dreamland, si
arricchì dell’apporto di King Oliver e quindi perdette quello di Bechet, che si
unì a Freddie Keppard, litigò con lui come, prima o poi, facevano tutti, e lo
piantò per trasferirsi al Pekin, dove suonava il piano un altro transfuga di
Storyville, Tony Jackson.
Venne a tentarlo Will Marion Cook, che dirigeva la Southern Syncopated
Orchestra, una di quelle enormi formazioni zeppe di mandolini e di banjo messe
di moda, a New York, da Jim Europe. Con la sua troupe di trentasei musicisti e
venticinque coristi, nel giugno del 1919 Bechet si imbarcò, su una nave
mercantile carica di bestiame, alla volta dell’Inghilterra. Alla Philharmonica
Hall di Londra, Cook ed i suoi ebbero un grande successo; quanto a Bechet, che
si esibiva in lunghi assoli di clarinetto, fece una tale impressione su Ernest
Ansermet, il direttore dell’Orchestra della Suisse Romande, da indurlo a
scrivere un entusiastico e profetico articolo sulla ‘Revue Romande’.
Anche re Giorgio V volle ascoltare l’orchestra americana e la fece
venire a corte; come Ansermet, apprezzò molto il ‘Characteristic blues’ di
Bechet, il quale a sua volta apprezzò molto il palazzo reale, che gli parve
‘simile alla grand Central Station con una quantità di tappeti e un’infinità di
porte’.