CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

domenica 24 agosto 2014

QUANDO ANDAI (d) A SIDNEY



















Prosegue in:

Quando andai (d) a Sidney (2)













Contrariamente alla maggior parte dei grandi musicisti di jazz Sidney Bechet fu sempre un solitario, un franco tiratore, che preferì esibirsi come solista per non essere schiavo di un caporchestra e per conservare così la libertà d’azione per appagare la propria smania di viaggiare.
Tanto grande era questa sua smania, tanto spiccato il suo Spirito di indipendenza, che condusse per parecchi anni una vita errabonda nei quattro angoli d’Europa e finì per incappare in avventure degne di un Eretico della musica….
Negli anni Venti fu dovunque: dall’Inghilterra alla Francia, alla Germania, dalla Russia, alla Spagna, al Portogallo, e tornò più volte in patria. Fu processato, e due volte fu espulso dai Paesi in cui si trovava; si intruppò in compagnie di rivista, come musicista e attore di teatro, e suonò il clarinetto e il sassofono nei luoghi meno battuti dai musicisti di jazz, una volta persino a Bucking Palace.




Tra un viaggio e l’altro trovò il modo di aprire uno ‘speakseasy’ e, anni dopo, una specie di stireria. Quando infine morì, gli fu eretto un monumento di bronzo in Francia. Eppure, una vita tanto singolare per un jazzman ebbe inizio nel luogo e nel tempo in cui cominciarono quelle di tanti pionieri della musica afro-americana, e per qualche anno si svolse parallelamente alle loro, percorrendo le stesse tappe.
Sidney Bechet apparteneva infatti alla generazione degli Armstrong, dei fratelli Dodds, quella che marciò nella ‘second-line’ dietro i funerali, che suonò nei locali di Storyville e quindi nei cabarets del South Side di Chicago. A New Orleans, ove nacque il 14 maggio 1897, in una famiglia di creoli di colore, il destino era praticamente segnato per un tipo come lui. Suo nonno era stato uno schiavo che cantava, ballava e percuoteva i tamburi nella Congo Square; suo padre, che mandava avanti un negozietto di scarpe per tirar su come meglio poteva i suoi sette figli, aveva altrettanta propensione per la musica, e così i suoi fratelli; e poiché Sidney era il più dotato di tutti, fu subito chiaro che avrebbe fatto il musicista. 




A sei anni suonava già il clarinetto tanto bene che Gorge Baquet, uno dei più reputati musicisti della città, si offrì di impartirgli delle lezioni, gratuitamente. Non andò più in là di un’istruzione tecnico-pratica, né pensarono di insegnargli la musica gli altri maestri che lo aiutarono a impadronirsi dei segreti del clarinetto, e cioè Louis Nelson e i due Lorenzo Tio, senior e junior.
A New Orleans non era ritenuto necessario saper leggere e scrivere la musica; era importante essere in grado il più presto possibile, di suonare in una delle tante orchestre della città. Sidney si considerò pronto molto presto: a undici anni era già un membro della Eagle Band, che Bunk Johnson aveva ereditato da Buddy Bolden, e poco dopo, con un paio di calzoni lunghi che dovevano farlo sembrare un giovanotto, si avventurò nei locali di Storyville per suonare in questa o quella orchestrina.




Fu visto e ascoltato anche a fianco di King Oliver, marciò nelle ‘brass-bands’, suonò nelle sale da ballo, e a un certo punto si lasciò persino convincere da Clerence Williams a seguirlo verso il Nord con un complessino raccogliticcio. La destinazione non era Chicago, come l’adolescente Bechet aveva pensato: era il Texas, e lì, a Galveston, gli avventurosi musicisti partiti da New Orleans fecero naufragio. Per meritarsi il viaggio di ritorno fino a casa, Bechet dovette suonare il clarinetto sul treno.
A vent’anni, nell’estate del 1917, decise di compiere il grande viaggio. Si aggregò a una troupe di vaudeville, che lo portò di tappa in tappa fino a Chicago, e qui, come aveva già deciso di fare, si fermò. Gli amici che lo avevano preceduto avevano mandato a casa notizie molto incoraggianti circa le occasioni di lavoro offerte nei locali dei South Side e lui voleva coglierne qualcuna. In breve si trovò in mezzo ai concittadini al Deluxe Café, nell’orchestra di Lawrence Duhé. Poi il complesso si trasferì al Dreamland, si arricchì dell’apporto di King Oliver e quindi perdette quello di Bechet, che si unì a Freddie Keppard, litigò con lui come, prima o poi, facevano tutti, e lo piantò per trasferirsi al Pekin, dove suonava il piano un altro transfuga di Storyville, Tony Jackson. 



  
Venne a tentarlo Will Marion Cook, che dirigeva la Southern Syncopated Orchestra, una di quelle enormi formazioni zeppe di mandolini e di banjo messe di moda, a New York, da Jim Europe. Con la sua troupe di trentasei musicisti e venticinque coristi, nel giugno del 1919 Bechet si imbarcò, su una nave mercantile carica di bestiame, alla volta dell’Inghilterra. Alla Philharmonica Hall di Londra, Cook ed i suoi ebbero un grande successo; quanto a Bechet, che si esibiva in lunghi assoli di clarinetto, fece una tale impressione su Ernest Ansermet, il direttore dell’Orchestra della Suisse Romande, da indurlo a scrivere un entusiastico e profetico articolo sulla ‘Revue Romande’.
Anche re Giorgio V volle ascoltare l’orchestra americana e la fece venire a corte; come Ansermet, apprezzò molto il ‘Characteristic blues’ di Bechet, il quale a sua volta apprezzò molto il palazzo reale, che gli parve ‘simile alla grand Central Station con una quantità di tappeti e un’infinità di porte’.
















venerdì 22 agosto 2014

ATHERTON (il bullo...)







































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Atherton (il bullo...) (2) &

Goebbels: I libri sono l'immondizia e il sudiciume che

riempono le nostre biblioteche...  in: Dialoghi con Pietro Autier:













Meditavo ininterrottamente sulla natura dell'unità di Dio, analizzando
a fondo le tesi di Noeto di Smirne e ancor più quelle del mio venera-
to maestro Ario.
In verità - se mai la ragione può affermare qualcosa - deve esserci
stato un momento, nella natura stessa della condizione di Figlio, in
cui il Figlio non esisteva e ce ne deve esser stato un altro in cui il Fi-
glio ha iniziato a esistere.
Un padre deve necessariamente essere più vecchio del figlio, e sareb-
be blasfemia e sommo sprezzo di Dio sostenere una diversa opinione.




E mi portai con la memoria ai giorni della mia gioventù quando sede-
vo ai piedi di Ario, che era stato presbitero della città di Alessandria,
prima di vedersi derubato della carica da quell'eretico e blasfemo di
Alessandro, il seguace di Sabellio.
Sì perché questo era Alessandro, un sabelliano, una vera creatura
dell'inferno.
Avevo partecipato al Concilio di Nicea, che aveva sorvolato sulla
questione. E ricordavo quando l'imperatore Costantino aveva bandi-
to Ario e motivo della sua rettitudine, e che poi per motivi politici
e per il bene dello Stato si era pentito di questa decisione e aveva
ingiunto ad Alessandro di raccogliere  Ario nella comunione subito,
il giorno dopo.




Quella notte stessa Ario morì per strada.
Per un violento malore, si sostenne, con cui Dio aveva esaudito le
preghiere di Alessandro. Ma io dissi, e lo stesso fecero tutti i segua-
ci di Ario, che il malore era stato causato dal veleno e che il veleno
proveniva da Alesandro in persona, vescovo di Costantinopoli e av-
velenatore per conto del demonio.
A questo punto il corpo su e giù lungo la roccia acuminata, parlan-
do fra i denti e proclamando la mia inflessibile convinzione:
"Che ebrei e pagani ridano pure, che celebrino pure il loro trionfo!
Il loro tempo sta per finire. Quando verrà la fine dei tempi, per es-
si sarà la fine".




Parlai a lungo tra me e me, su quello sperone di roccia che dava
sul fiume.
Avevo la febbre e di tanto in tanto bevevo in sorso d'acqua da un
otre maleodorante che tenevo esposto al sole, in modo che il feto-
re aumentasse e l'acqua diventasse più calda e non mi trasmettes-
se alcun senso di refrigerio.
In mezzo alla sporcizia della spelonca avevo un po' di cibo, qual-
che radice e un pezzo ammuffito di focaccia d'orzo, ma, sebbene
avessi fame, non mangiai nulla.
Per tutta quella benedetta giornata non feci che sudare e soffoca-
re al sole, mortificai la carne contro la roccia, contemplai il pae-
saggio desolato, riesumando vecchi ricordi, sognando e proclaman-
do i miei convincimenti.




Quando il sole tramontò nella effimera luce del crepuscolo diedi
un ultimo sguardo a quel mondo che presto sarebbe scomparso.
Tutt'intorno ai piedi dei colossi distinguevo le forme striscianti di
belve che si rintanavano in quelli che erano stati una volta super-
bi monumenti innalzati dalla mano dell'uomo.
Accompagnato dai loro ruggiti, mi rintanai nel mio buco e qui,
già mezzo assopito, in preda a fantasticherie e visioni febbrili,
mormorando fra me e pregando che la fine del mondo venisse pre-
sto, scivolai nel buio del sonno.....




Ripresi conoscenza nella mia cella di rigore, attorniato dal solito
gruppetto di bulletti.....
- Tu, blasfemo ed eretico direttore di San Quentin, creatura infer-
nale!
dissi in tono di scherno, dopo aver bevuto avidamente l'acqua che
mi era stata offerta.
- Trionfino pure i carcerieri e i detenuti di fiducia! Il loro tempo
sta per finire. Quando verrà la fine dei tempi, per essi sarà la fi-
ne.
- Gli ha dato di volta il cervello,
disse il direttore Atherton in tono convinto, con la sua faccia da
porco....
- Si sta prendendo gioco di voi,
fu la più ponderata risposta del dottor Jackson.
- E però rifiuta il cibo,
osservò il capobraccio Jamie....
- Mmm.... potrebbe resistere quaranta giorni senza risentirne,
rispose il dottore.




- Proprio così,
dissi io,
- e anche quaranta notti.
Ora per cortesia, stringetemi un po' di più la camicia di forza e
andatevene...
Il detenuto di fiducia cercò di infilare l'indice nell'allacciatura.
- Anche a tirarla con un verricello,
assicurò,
- non si guadagnerebbe neanche un quarto di pollice.
- Hai qualche reclamo da fare, Standing?
chiese il direttore con la sua tonda faccia da porco....
- Sì,
risposi,
- ho due cose di cui lamentarmi.
- E cioè?
- Primo,
dissi,
- questa camicia di forza è allentata in maniera abominevole.
Hutchins è un somaro. Se volesse, la potrebbe stringere di al-
meno un palmo.
- E qual è l'altra cosa?
- Che siete un IDIOTA... Atherton.....

(J. London, Il vagabondo delle stelle;
 Fotografie di Daniel Kukla)

(Prosegue.....)














mercoledì 20 agosto 2014

GNOSI PAGANA (63)

















Precedenti capitoli:

Il Secondo (Dio) (62) &

Gnosi Pagana (1/2)

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Gnosi Pagana (64)












(Da: Gnosi Pagana 1/2)

....Ora, se Dio è buono e il mondo cattivo, chi ha creato il
Mondo?
E cosa viene a fare l'uomo nel mondo?
Ecco nuovamente il problema cruciale in cui divergono i
cammini del saggio e dello gnostico.
Né l'uno né l'altro si fanno illusioni sulla materia di ogni sin-
golo destino: nulla è più santo dell'ottimismo definitivo di un
Epitteto o di un Marco Aurelio. Se trascurano il proprio do-
lore, è perché vogliono dimenticarlo per prendere in consi-
derazione soltanto il destino del Tutto, destino necessaria-
mente buono dal momento che è Ordine e Ragione.
A cosa serve ribellarsi?
Ammira e sottomettiti.
Il mondo è buono, Dio lo regge e lo anima continuamente:
tutto è immerso in Lui. La saggezza consiste esattamente nel
cogliere quest'immanenza e nel riassorbirvi il male.
Il mondo è malvagio, risponde lo gnostico.
Dio non può dunque esserne l'autore diretto: la creazione del
mondo è dovuta a un Secondo Dio, la cui essenza si definisce
attraverso tale funzione demiurgica.
Per la psicologia religiosa, il dualismo teologico porta con sé
innumerevoli conseguenze. Giacché, in fin dei conti, il primo
moto dell'uomo che soffre, se crede in Dio, è di rivoltarsi con-
tro questo Dio che lo fa soffrire.
In ogni sistema di teologia unitaria, l'esperienza del male è un
muro contro il quale la mente cozza e si ferisce. Non è facile
essere un saggio, perché essere saggi significa essersi accor-
dati, con tutto il proprio essere, ai misteriosi rigori della Ra-
gione e del Volere divino.
Chi non avverte che qui il dualismo offre una soluzione per
cui l'anima s'illumina immediatamente?
Il male non è dovuto a Dio, non proviene da Dio, ma neppu-
re dall'uomo. La responsabilità spetta a un terzo principio, il
demiurgo, o, più esattamente, agli dèi o demoni di quegli astri
creati dal demiurgo, che regolano sia la vita interna del cosmo
che la sorte di ogni essere vivente.
Pertanto tutta la religione si riassume in un doppio movimento:
di fiducia nel Dio trascendente, che è buono; di avversione e
di fuga nei confronti degli dèi cosmici che sono cattivi.
La dottrina della salvezza non è ormai che una scienza.
Dio vuole essere conosciuto dall'uomo, gli si svela, lo chiama.
Bisogna credere in Dio, pregarlo, domandargli l'illuminazione,
la grazia, che ci accordi l'esperienza sensibile della rigenera-
zione.
Allora, al miste, figlio di un Dio buono, è assicurata la felicità.
Dopo la morte oltrepasserà le sfere del destino per unirsi, nel-
l'al di là ai cuori dei beati che cantano Dio.
Felicità riservata agli eletti!
Ecco l'ultima linea di divisione fra saggezza e gnosticismo.
Per il saggio, una volta contemplato l'ordine del mondo, è un
dovere imitare quell'ordine, non soltanto nella condotta priva-
ta, ma anche nel suo atteggiamento verso gli altri uomini.
Contemplazione e azione, a partire da Platone, sono collegate.
Su questo punto lo stoicismo non fa che ereditare uno dei pre-
cetti più nobili della Repubblica e del Politico.
La nobiltà dell'educazione filosofica nata da Platone e dalla
Stoa ha fornito la teoria dei doveri del Principe e nel contem-
po insegnato ai Principi a mettere in atto tali regole.
Il fatto è noto: nel II secolo d.C., con Marco Aurelio e i suoi
rappresentanti, in tutte le province dell'Impero la filosofia sale
al potere.
Il mondo antico visse allora il periodo più felice della sua sto-
ria.
L'ideale del Principe risale però a molto tempo prima.
Studi recenti lo hanno messo chiaramente in evidenza: i prin-
cipi di governo a cui aspira l'Imperatore sono già tutti espres-
si nei trattati politici dedicati ai monarchi ellenistici.
Una messe d'iscrizione censisce le qualità che ci attende dal
sovrano, dai governatori e dai giudici. Queste qualità si rias-
sumono in una frase:
"Fare del bene agli uomini" (?!)

(Prosegue....)














martedì 19 agosto 2014

CRISTIANI e PAGANI (Eretici 9)


















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Gnosi Pagana (Eretici 8)

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Cristiani e Pagani (Eretici 10) &











Eretici (11/12) (Eraclio e il Dialogo)













                                     
Sia come cronografia, sia, più tardi come ‘breviaria’, le compilazioni cristiane si proponevano esplicitamente di portare un messaggio; è invece lecito pensare che la maggior parte delle compilazioni pagane non abbia inteso portare messaggi di sorta.
Sulpicio Severo e Orosio combattevano per una causa, e bisogna ricordare che Sulpicio Severo espresse l’indignazione provata da Ambrogio e da Martino di Tours per il ricorso al braccio secolare durante la controversia priscilliana. Se era perciò estremamente facile trasformare un manuale pagano in uno cristiano, era quasi impossibile rendere pagano ciò che era stato creato come cristiano.
Proprio perché questa tendenza è così chiara, possiamo forse avanzare l’ipotesi di un caso storico di facile trasformazione dei ‘breviaria’ storici pagani in manuali cristiani. Vi sono molte incertezze a proposito della prima parte dell’ ‘Anonymus Valesianus’, una breve vita di Costantino chiamata ‘Origo Constantini Imperatoris’. E’ tuttavia molto probabile che risalga al secolo IV, così come sembra chiaro che i pochi passi cristiani sono interpolazioni più tarde, ricavate da Orosio.




Se le cose stanno così, la ‘Origo Constantini Imperatoris’ è un ottimo esempio di una breve opera pagana, resa cristiana con la semplice aggiunta di pochi passi. I cristiani potevano impossessarsene facilmente a causa della tinta relativamente neutra del testo originale. I pagani dal canto loro si tenevano ben lontani dalle idee esplosive dei cristiani.
Si pone allora la questione se i cristiani abbiano dominato incontrastati sul piano più alto dell’opera storica originale e se anche in questo campo abbiano dato prova della loro abilità di assimilare idee altrui (certamente non cristiane…), senza essere a loro volta assimilati.
Se questa domanda dovesse avere una semplice risposta affermativa non varrebbe la pena di porla. Le forme tradizionali della storiografia più alta non attirano i cristiani. Essi ne inventarono di nuove e queste invenzioni sono i contributi più importanti alla storiografia che si registrano dopo il secolo V a.C. e prima del secolo XVI. I cristiani però permisero ai pagani di rimanere i maestri delle forme storiografiche tradizionali..




Per dirla in breve, i cristiani inventarono la storia ecclesiastica e la biografia dei santi, ma non cercarono di rendere cristiana la storia politica tradizionale e influirono sulla normale biografia meno di quello che ci sarebbe potuto aspettare (purtroppo se esaminiamo i passi di taluni scritti dei padri della Chiesa, in confronto agli Eretici, questa affermazione dell’autore viene immediatamente a cadere…). Le conseguenze da tirare sono chiare. Non vi era una storiografia cristiana basata sull’esperienza politica di Erodoto, Tucidide, Livio, che potesse venir tramandata al Medioevo.
Tutto ciò è già chiaro nel secolo VI, quando uno storico militare e politico come Procopio rivela concezioni e tecniche sostanzialmente pagane. Nei secoli XV e XVI, quando gli umanisti riscoprirono Erodoto, Tucidide, Livio, Ammiano, riscoprirono anche qualcosa per cui non vi era nessun chiaro succedaneo cristiano. Bisogna, quindi, porre in rilievo il fatto che le condizioni che resero possibile un Macchiavelli e un Guicciardini erano già state poste nel secolo IV d.C.
I modelli della storiografia politica e militare rimasero necessariamente pagani. Nella storiografia di più alto livello non vi è nulla che si possa paragonare al facile adattamento cristiano ai ‘breviaria’ pagani.
L’influenza del cristiano Eusebio fu decisiva.




Eusebio uomo di cultura, sapeva bene che cosa fosse la storia. Sapeva che era un’opera retorica con la massima quantità possibile di discorsi (e calunnie…) inventati e con il minimo numero possibile di documenti autentici. Dal momento che egli ha invece preferito darci un gran numero di documenti e si è astenuto dall’inventare discorsi, vuol dire che si era proposto di scrivere qualcosa di diverso dalla storia comune. E’ possibile che egli volesse compilare una raccolta di materiale per una storia? E’ difficile crederlo. In primo luogo, gli avvenimenti storici erano limitati per lo più a fatti contemporanei. In secondo luogo, Eusebio parla come se egli stesse scrivendo una storia, e non raccogliendo materiale per una storia futura.
Eusebio sapeva anche troppo bene di scrivere un nuovo tipo di storia. A suo modo di vedere, i cristiani erano una nazione e pertanto egli scriveva storia nazionale. La sua nazione però aveva un’origine trascendente. Benché fosse apparsa sulla terra al tempo di Augusto, pure era nata in cielo ‘con la prima legge che riguardava Cristo stesso’. Una nazione siffatta non combatteva le solite guerre.
Le sue lotte erano le persecuzioni e le Eresie!
Dietro la nazione cristiana vi era Cristo, proprio come dietro ai suoi nemici vi era il diavolo (certo questo non ci è di conforto… riguardo la storiografia cristiana…). La storia ecclesiastica doveva necessariamente essere diversa dalla storia comune (e quindi fuori dalla verità storica…), perché era la storia della lotta contro il diavolo, il quale cercava di insozzare la purezza della Chiesa cristiana, garantita dalla successione apostolica.


















domenica 17 agosto 2014

GNOSI PAGANA (12) (Eretici 7)


















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Eretici (6)  &

La Gnosi

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Gnosi Pagana (13) (Eretici 8)













Il pubblico di Giuliano era composto, nella dialettica ‘Contra Heracleium’, per sua stessa e inorridita ammissione, da ‘menti disposte a tutto tranne che allo studio della filosofia…’.
Ad un tempo, predicatore, teologo e polemista, nonché monaco per il suo proverbiale ascetismo, egli si sforzò di dimostrare, al pari dei critici pagani dei secoli precedenti, che le parti salienti dei Vangeli, null’altro erano che un prestito dell’evoluzione ‘Gnostica della Storia umana’, episodi più o meno ricorrenti, nei quali il Divino cade nell’ ‘inumanità terrena’. Ed inoltre che le parti salienti dei Vangeli erano state prese in prestito dalla mitologia e dalla teologia del paganesimo, chiaramente questo aspetto ‘antropologico’ (o studioso della storia delle religioni…) della figura di Giuliano, non mancarono di suscitare irate reazioni da parte dei cristiani contemporanei, soprattutto quelli avvezzi ad un approccio ‘favolistico’ (ad uso di vecchiette e bambini) della disciplina teologica.




Il Filosofo Giuliano, mirava in primo luogo a convincere e dimostrare attraverso una ‘inattesa Gnosi’ per quei difficili secoli, l’opinione pubblica del legame esistente ed ‘imprescindibile’ fra la religione greco-romana ed i culti misterici semi-ufficiali, di cui in molti casi era egli stesso un seguace.
Desiderava che i suoi sudditi si rendessero conto dell’importanza assunta dagli ‘Dèi dell’Olimpo’, nel contesto di una teologia non meno originale del nascente cristianesimo.
La tentata riabilitazione spirituale di Euripide ne è un esempio storico di chiara manifestazione ‘velata’ dello Gnosticismo pagano. Solo degli ignoranti (quali erano e sono i Cinici..) potevano considerare irrilevante sul piano spirituale la filosofia di Eraclito ed Empedocle. Giuliano dimostra che, se Eraclito aveva indicato nella teurgia l’unica strada per giungere all’illuminazione, Empedocle, imbevuto della stessa conoscenza mistica di Giuliano, aveva descritto la condizione miserevole di coloro i quali sono ciechi dinanzi alle verità teologiche (anzi spesso come già successo al Cristo degli Ebrei, uccidono il loro stesso Dio, purché si assecondi il Dio Secondo degli Scribi del Tempio).




Giuliano, lo associa, come altri Gnostici Eretici prima di lui, nel tentativo della stessa ‘prosecuzione storica’, a Platone, Aristotele, Plotino e Giamblico, sottolineando ad un tempo l’origine orfico-pitagorica dei ‘misteri’ e la sostanziale unità della dottrina neoplatonica. Il motivo va ricercato nella difesa di una ‘teurgia’ con le parole prese in prestito da Plotino, ma si trincera dietro oscure formule pitagoriche quando teme di avere, a causa dell’entusiasmo teologico-divino, rivelato più del dovuto, anche a quegli stessi cinici-ignoranti che rappresentavano una forma corrotta e falsa di filosofia.
Linguaggio ermetico-velato che non sarà nuovo nella storia del pensiero culturale italiano, vittima di una futura ed agonizzante ignoranza.
Infatti, nel ‘Contra Haracleium’, Giuliano oltre a scagliarsi contro i ‘cani-ignoranti ed ipocriti’, afferma, sia pur in modo frammentario e allusivo, che la teurgia neoplatonica ‘ha’ profonde radici nella tradizione teologica greca (e di conseguenza questa con….). Da questo punto di vista si limita a ricalcare le orme del grande esegeta sincretista Giamblico, ispiratore dei due principali sviluppi della Scuola.




Adottando i principi della teurgia e le pratiche esoteriche degli ‘Oracoli Caldei’, Giamblico trasformò il neoplatonismo da filosofia fortemente caratterizzata in senso mistico a religione misterica; inoltre si sforzò di presentare la propria dottrina come l’unica in grado di riprendere i temi del pensiero filosofico greco dell’età classica.
Se il maestro di Apamea era il Padre pagano per eccellenza, Giuliano amava considerarsi il primo dei suoi apostoli (nella ferma volontà di salvare una cultura millenaria di ordine teologico-filosofico), infatti egli si adoperò per convincere i contemporanei che la dottrina morale e filosofica, ovvero il fiore della tradizione filosofica ellenica, affondava le sue radici in Oriente, e che Pitagora, Platone e Aristotele, si erano limitati a tradurre nei termini del ‘razionalismo ellenico’ un sapere conservato ed elaborato dai successivi sviluppi del pensiero greco.

(Prosegue...)