E' jita male (1)
Prosegue con il
capitolo al completo [3]
e ancora con una
breve premessa (4)
& Quarta tappa (5)
Quinta tappa (6)
N.B il personaggio/i che compaiono
Giuliano Lazzari ci sono estranei,
nonché i libri a loro attribuiti.
Ma per
ritornare ove damo redati, il Cenfore M’ Curio Dentato nell’aprire quel Canale,
che dà sfogo al Lago Velino, e che dal fuo nome venne chiamato Cava Curiana,
pensò, come fi è detto, d’indirizzare quelle acque verfo la pianura di Terni,
nella quale Città fino dall’anno 441. era data trasferita una Colonia di
Romani. Egli fcelfe quefta parte sì perchè il naturai declivio delle acque, e
la filiazione de’ luoghi l’obbligavano a ciò fare, e sì perchè non veniva ad
abbandonare alla loro diferezione quelle acque, quali che liberando la Valle di
Rieti avellerò dovuto allargarli nell’altra di Terni, ma poteva raccoglierle in
un fiume, che veniva appunto a fcorrere fiotto quel monte, che fu da elfo a
tale uopo tagliato.
È quello fiume
la Nera.
Nafte effa
negli Apennini verfo la parte di Viffo, ed ha appunto la fua forgente in quel
monte che fi chiama tuttavia Fifcello. Nar
amnis così ne parla Plinio (Lib. 3. cap. 12.) exbaurit
illos lacus Velinos fulphureis aquis.
Gli Scrittori antichi hanno appunto coftantemente dato il titolo di fulfureo a quello Fiume. Oltre Virgilio e Plinio nei riferiti Tefti Claudiano nel Panegirico pel Confolato di Probo e di Olibrio.
Quello fiume dopo un lungo giro arrivato con le fue placide acque fotto le Marmore, o fia fotto quel monte nel quale fu tagliata l’efpofta Cava Curiana e che non già dal mormorio o fia ftrepito della Caduta ma fibbene perchè ivi faxum Ó marmor crefcit, ha prefo il nome di Marmore, riceve nel fuo aperto fieno quelle acque che dopo di effere piombate nella fottopofta voragine vanno in elfo a precipitarli ed ivi fi compie la celebre Caduta delle Marmore. Il Monte ove termina la Cava e fotto cui fcorre la Nera è tagliato dalla natura quafì perpendicolarmente. L’altezza di quella Caduta o fa di quefia linea perpendicolare è di palmi Romani mille e feffantatrè.
(Pio VI)
La fondazione di Terni si fa risalire a svariati secoli prima di Cristo. I primi insediamenti sono probabilmente ascrivibili agli Umbri e/o ai Sabini, attorno al VIII – VII secolo a. e.v.. È sulla collina di Pentima che ebbe origine il primo insediamento umano nella conca ternana, dal momento che quest’ultima era allora in gran parte paludosa e occupata da un lago formato dal fiume Nera. Intorno al IV – III secolo a. e. v.. arrivano i Romani.
E proprio
ai Romani si deve il primo nome che ebbe la città: ‘Interamna’, ovvero città
posta tra due fiumi, il Velino e il Serra, quest’ultimo a carattere torrentizio
e verosimilmente deviato in epoca medioevale. Con una certa sicurezza si può parlare
dell’esistenza, nell’era antropozoica, di un Lago Velino (Lacus Velinus)
formato con le acque del fiume omonimo, che aveva sommerso tutti i laghi
dell’altopiano umbro-sabino. Le acque del Velino, molto ricche di sostanze calcaree,
tracimando lungo tutta la larghezza del ciglione dell’altopiano, con i propri
depositi continuavano a rialzare lo sbarramento delle ‘marmore’, sommergendo nuove
terre asciutte sino a giungere alla quota di circa 400 metri s.l.m.
Nell’agro
reatino il Lago era alimentato, oltre che da numerosi fossi torrenti, dai fiumi
Velino, Turano e S. Susanna, emergevano inoltre dalle acque, come isole, gli
attuali Colle S. Pastore, Montecchio, Colle S. Balduino, Colle Torretta, Colle
di Murovecchio e Reopasto. Dall’agro reatino il Lago Velino si estendeva oltre
l’isola di Repasto, lungo l’attuale valle, fino a Marmore. All’altezza
dell’attuale Piedimoggio iniziava il braccio di Ventina che arrivava fin sotto
il Colle Restano. Dal Paino di Canale, il Lago Velino si estendeva nel
territorio di Piediluco, con una forma non dissimile da quella odierna. A Valle
Prata e a Ponticelli si insinuavano due bracci fin sotto le relative colline,
l’attuale Tenuta, la cosiddetta Bandita, e le zone di Cornello e Capulozza
erano interamente ricoperte dalle acque da cui emergeva il Colle di Grugliano.
Il definitivo consolidarsi di due centri urbani che affondavano le loro radici in epoche preistoriche, la relativa vicinanza a Roma e, non ultimo, la posizione baricentrica dell’insediamento di Piediluco, attraversato da un importante collegamento viario tra la via Salaria e la via Flaminia, tutto ciò pone il presupposto per la nascita di un nuovo sistema insediativo, anche perché l’apertura della Cascata delle Marmore nel III secolo a. C. e la bonifica delle paludi, insieme ad un lungo periodo di pace, portano ad una rinascita sociale ed economica del territorio.
Se però
l’apertura del Cavo Curiano arrecò considerevoli vantaggi, fece anche aumentare
il pericolo delle inondazioni del Nera e del Tevere, come testimonia la serie
di vertenze intorno alle Marmore che si sono protratte fino al XVII secolo. La prima controversia
che vale la pena accennare risale alla prima
metà del Primo Secolo a.C. quando il Senato di Roma nominò un collegio giudicante
presieduto dal console Appio Pulcro e Cicerone e Aulo Pompeo intervennero a
difesa, rispettivamente, di Rieti e Terni. La seconda nel 15 d.C. quando, dopo una inondazione di Roma, Tiberio nominò
una commissione di esperti per studiare possibili soluzioni autorizzò una nuova
serie di opere idrauliche presso le Marmore.
In seguito
a grandiosi nuovi eventi naturali, il territorio si modificò ulteriormente, le
acque del lago preistorico si aprirono un varco verso quelle del fiume Nera, il
lago si svuotò parzialmente, e il livello scese si alcuni metri. La palude però
prevalse ancora su gran parte del territorio. Nel III - II secolo a. e. v.. avviene la prima bonifica ad opera
del Console romano Manlio Curio Dentato. Le acque calcaree del Velino, come
detto, depositandosi costituivano una barriera per la confluenza con il fiume
Nera, e si impaludavano sull’altopiano delle Marmore (un’ipotesi
dell’etimologia del nome deriva dalla pietra calcarea, appunto, che costituisce
l’altopiano).
Questo fiume, ‘il Nera/Narco’, nasce dall’alto Appennino centrale umbro-marchigiano, da ‘due fori, quasi orificii del naso del bove, …, traendo’ … da ciò il nome di ‘Nahars o Nars’, poi ‘Nare’, Narco, ed infine Nera. Il fiume Velino, così detto dalla Dea Velia, trae origine nell’Appennino sabino-abruzzese, e, superata, Rieti, attraversa una piana sino a Piediluco, sopra la città di Terni, ove … ibi erant palustria, quae nunc prisco linguae more dicuntur Velia (erano ivi degli acquitrini o pantani, che ora all’antico uso della lingua si dicono Velia; da D. Alicarnasso, lib. 1).
Come in
precedenza riferito, l’impaludamento delle piane sabine ed umbro-sabine era
causa periodica di febbri malariche. M. C. Dentato bonificò i terreni
circostanti il Velino, causa di tali straripamenti, scavando un canale che
partiva dal punto più profondo della palude e che portava le acque fino al
ciglione di Marmore. Il canale ottenne l’obiettivo prefissato, ma risultò col
tempo insufficiente per contenere le acque del Velino stesso nei periodi di
piena, con conseguenti allagamenti a valle, lungo il decorso del Nera che dopo
non molti chilometri passava per la città di Terni. Successivamente i reatini proposero
comunque un ampliamento del canale per evitare lo straripamento del Velino,
opera cui si opposero i ternani, che temevano inondazioni del loro territorio.
Ciò diede luogo, per tutta l’età classica, a lunghi contenziosi tra i due municipi.
DI TALUNI
PERSONAGGI PIU’ O MENO ILLUSTRI
A finire
dell’estate di quest’anno e precisamente il 19 agosto, alle 5,50 p. partivo insieme
ai Soci Cesare Allievi e Raffaele Pericoli, ed al Cav. Bruto Amante per Terni,
donde il giorno seguente tutti ci dirigevamo verso la cascata delle Marmore. Percorso
un tratto della deliziosa Valle Nerina, alle 6 eravamo ai piedi della cascata,
per godere della cui veduta in tutta la sua ampiezza salimmo sopra un poggio
che le sta di fronte. Il fiume Velino, che ha le sue sorgenti presso
Civitareale, scende alimentato dalle acque di alte montagne dell’Appennino centrale,
verso Antrodoco e Città Ducale, ed attraversa quindi la fertile pianura di
Rieti percorrendo in tutto il suo corso un’ampia e bella vallata, che Cicerone non
esitava a paragonare a quella di Tempe.
Anticamente, in fondo al piano di Rieti, il fiume precipitava per molte e differenti vie nel sottoposto bacino del Toro. Le inondazioni erano talmente frequenti e terribili che nel 71 av. G. C. Marco Curio Dentato fece scavare un canale, seguendo il quale il Velino venne a gettarsi nel fiume Nera. Tale canale, pur avendo subìto varie modificazioni, è quello tuttora in uso. Scavato perpendicolarmente nel monte produsse una delle più belle cascate d’Europa, che Byron entusiasmato descriveva coi più splendidi colori della sua tavolozza poetica.
La caduta presenta tre differenti fauci la principale è la più singolare; è una gran massa d’acqua che, per mancarle ad un tratto il terreno, si precipita in basso, bianco fiocco di spuma contenuto fra rupi della lunghezza di soli l0 piedi. Raggiunto il sottostante bacino, il fiume si spande con maggior forza, si allarga, e formate due belle cascate meno precipitose, va a confondere le sue acque con quelle del fiume Nera. L’occasione era troppo bella perché i nostri poeti si lasciassero sfuggire una poetica similitudine.
Più potenti
del Parlamento Inglese, che tutto può fare, ad eccezione di cambiare una donna
in uomo, ed un uomo in donna, mutarono in femminile il mascolino fiume Nera e
celebrarono i grandi sponsali del Velino colla Nera. La similitudine incontrò
il favore universale, tantoché oggi niuno più azzarderebbe dire il Nera anziché
la Nera. Questo fiume nasce alle falde del Monte della Sibilla, una delle più
alte vette del Norcino, e dopo un lungo corso di oltre 100 chilometri in una
stretta vallata, che in certi tratti meriterebbe più propriamente il nome di gole,
va, dopo aver ricevuto le acque del Velino, a gettarsi presso Orte nel biondo
Tevere. Ma la cascata delle Marmore non è soltanto celebre per la sua bellezza
e per i pittoreschi punti di vista che offre: essa è soprattutto ammirevole dal
lato geologico.
Le acque del Velino e specialmente quelle della Nera sono cariche di carbonato di calce, il quale depositandosi tanto sopra i più minuti frammenti di vegetali che incontra, quanto sopra i più grossi tronchi d’alberi, forma delle concrezioni calcaree fantastiche e svariate, veri disegni di merletti che mai sì belli seppe comporre la mano industriosa dell’uomo. Queste concrezioni sono per la più parte friabilissime: però col tempo i numerosi interstizi che esistono si colmano, la calce si solidifica, si formano massi duri e compatti benché assai porosi, si ha insomma il travertino.
Tutte le
varie gradazioni di questo geologico fenomeno avemmo agio di osservare, allorché
attraversata la Nera sopra un ponte naturale, formatosi appunto per tali
concrezioni, ci indirizzammo per un ripido sentiero alla destra di chi osserva
la cascata, verso la parte superiore di essa. Qua erano tronchi di secolari
piante che si erano pietrificati: là erano piccoli ramoscelli, ornai
calcarizzati e riuniti tutti insieme, come vasta rete, dal carbonato di calce: altrove
erano estesi depositi di travertino, in cui si praticavano cave per tagliarne
grossi massi quadrati da servire a costruzioni.
Alla
bellezza dei fenomeni naturali corrispondeva panorama sopra la valle Nerina, e
l’amenità del sentiero che percorrevamo, al cui lato destro scendevano dal
monte numerose cascatelle, che al presente erano intieramente ghiacciate. Ben
presto però noi dovemmo distogliere da tutto ciò la nostra attenzione, ed
esclusivamente occuparci della via che seguivamo.
La grande massa d’acqua che forma la prima parte della cascata, cadendo perpendicolarmente, solleva un turbine di fumo di piccole goccie d’acqua che il vento del nord allora piuttosto forte spingeva sul lato destro. L’acqua che veniva così a bagnare il terreno erasi per il freddo della notte assai fortemente congelata, talché noi ci trovammo sopra un ripidissimo viottolo coperto di sottile, ma durissima crosta di ghiaccio. Avevamo la piccozza, ma ben poco essa poteva servirci. Appoggiandoci con forza ad essa, afferrando cespugli di spine che ci graffiavano faccia e mani sdrucciolando spesse volte e rialzandoci (ciò che era più difficile) riuscimmo alfine a giungere poco al di sotto della cima della cascata, ove è una specola costruita proprio sul dinanzi della parte principale di essa.
Impiegammo
nella salita, che d’ordinario si compie in un quarto d’ora, più d’un’ora. Ci
fermammo un momento alla specola ad ammirare l’aspetto del Velino che da questo
punto si presenta in tutta la sua imponenza: non è più acqua, ma è un turbinoso
ammasso di spuma che si precipita furente in basso, sollevando alti fiotti e
frangendosi contro i laterali scogli. Perfino l’aria compressa continuamente
dal peso dell’acqua muggisce come furioso vento. Impercettibili goccie d’acqua,
divise all’infinito, si sollevano dal basso e formano densa nebbia, nella quale
rifrangendosi i raggi solari producono un arcobaleno dai più vivi colori.
Erano le 8,30 allorché, strappatici dal sublime spettacolo, per una scala di pochi gradini giungemmo al vertice della cascata, di dove seguendo un largo sentiero fummo in breve sulla strada provinciale Terni-Aquila. In poco più di mezz’ora arrivammo al bordo del lago di Piè di Luco. Qui affidammo coraggiosamente la nostra vita ad una barchettaccia che ci portò alla base di Monte Sant’Egidio. Salimmo pochi passi e ci recammo ad una specie di piattaforma, di dove si ode il fenomeno naturale dell’Eco polifona. Quest’eco, detto di Piè di Luco, ripete distintissimamente e colla massima chiarezza un verso endecasillabo.
Ci
divertimmo a pronunziare versi di poeti stranieri, e riuscimmo a far ripetere
intiero il verso: Italiani, Italiani, primus
conclamat Achates, pronunziandolo con una certa velocità. Se bello era
questo fenomeno, ancor più bello era lo splendore del panorama che si stendeva
innanzi a noi. Di fronte sorgeva diviso dal lago (della larghezza qui di meno
di due miglia, mentre ne misura 5 in lunghezza) il monte Sant’Angelo (800 m,) un
vero triangolo equilatero sulla cui vetta s’innalza un piccolo fortilizio con
torri che si prolungano da ambo i lati fino alle sue falde, mentre sul bordo
del lago il grazioso paesetto di Piè di Luco ne occupa tutta la base.
Il gaio e
ridente aspetto del paese, la chiarissima e leggiermente cerulea acqua del lago,
l’alternarsi del verde e del roccioso nei monti, formano uno dei più leggiadri
quadri che la natura, maestra dell’arte, sa offrire ai suoi cultori. Eppure tal
quadro è a ben pochi conosciuto. Pur troppo non si può a meno di pensare che se
Piè di Luco ed il meraviglioso suo eco fossero situati in paese straniero, per
esempio, in Svizzera, diverso sarebbe l’aspetto del luogo.
Migliaia e migliaia di Ciceroni si presenterebbero a voi con portavoce e con armi per meglio farvi godere dell’eco: numerose e gaie villette dai smaglianti colori popolerebbero e rallegrerebbero le verdi rive del lago, e agili e leggiadre barchette di tutte le forme solcherebbero veloci le quiete acque. infondendo vita e moto a quella funerea calma della natura. Invece quattro assi che restavano uniti fra loro non per artificiale connessione, ma chi sa per qual legge a noi ignota di affinità, ci trasportarono in circa 15 minuti dalla base di monte Sant’Egidio al paese di Piè di Luco, il cui interno non brilla certo per sontuosità. Qui facemmo colazione e alle 11,30 a. ci riponemmo in marcia diretti verso Leonessa, piccolo paese d’Abruzzo, per intraprendere poi all'indomani la salita del Terminillo.
Seguimmo
per un certo tratto la via postale che conduce ad Aquila, poi volgemmo a sinistra
per entrare nella valle detta della Sega, e nella nuova carta di Stato Maggiore
del Fuscello, risalendo la quale si sarebbe pervenuti a Leonessa. Prima però di
imboccare nella valle, un contadino, certo un mandatario di Belzebù, se pure non
era Belzebù in persona, ci si mise tra i piedi e cominciò colla voce e coi modi
più persuadenti che immaginar si possano, a consigliarci di non andare a
Leonessa seguendo il fosso della Sega, adducendoci tra le altre ragioni che non
essendovi strada ed in molti luoghi essendo il fosso straripato e tutto
ghiacciato, ci saremmo trovati in un brutto impiccio.
Noi per l’esperienza già acquistata di quanta delizia fosse il camminare sopra sentieri ghiacciati, ci lasciammo facilmente persuadere, e fattaci insegnare la strada che egli proponeva su pei monti, ci indirizzammo verso il paese di Labbro, indi di Morro, e... poco dopo incominciarono le dolenti note. Internatici fra varie colline, in breve smarrimmo la via, e girando su e giù ci trovammo in certe insenature di monti sopra scogli a picco sempre in cerca di un sentiero che non riuscivamo a rintracciare.
E non ci fu
fatto mai di incontrare anima viva, ed eravamo carichi di borsette e di
borraccie, ed io per soprappiù di una macchinetta fotografica sulle spalle, e l’amico
Allievi di uno zaino uso quelli da ufficiale dell’esercito. Per farla breve,
cominciava a farsi notte allorché a mezzo di un monte vedemmo un largo
sentiero, verso del quale anelanti ci arrampicammo. Lo seguimmo per lungo
tratto e pervenimmo così ad un ponte sopra un torrente. Qui un gradito abbaiare
di cani commosse le nostre più intinte viscere che già brontolavano per il
lungo ozio a cui le avevamo condannate. Una buona vecchia con un suo figlio di
14 anni erano gli unici abitanti di un casolare che serviva di rifugio a molte
pecore e che era anche una specie di osteria. Vi trovammo vino ed uova e pane e
soprattutto una ospitalità veramente abruzzese che invano si cercherebbe nei paesi
più civilizzati ,della nostra provincia.
La
filosofia ottimista di quella vecchierella era ammirabile e coi suoi racconti
ci divertì mezzo mondo, specialmente con quello del miracolo fatto da un frate
alle sue pecore, allontanando colla sua presenza nel casolare i lupi che scorrazzavano
nella campagna, e reclamando poi per sé una pecora!!!
Una brutta notizia però ci fu partecipata, che cioè eravamo distanti 2, ore e mezzo da Leonessa. Alle 7 e mezzo ripartimmo e alle 9 e mezzo riuscimmo a giungere a questo paese, ove trovammo da dormire nell’osteria di un tal Conti. Cercammo di un vecchio cacciatore detto il Luparo, nel quale molti nostri compagni avevano trovato una buona guida pel Terminillo. Ma essendo egli assente, ci accordammo invece con un suo figlio di 14 anni, Giuseppe Chiaretti, e con lo zio di questi, Giovanni Chiaretti; indi andammo a riposarci.
All’indomani,
giorno 13, alle 5 a. eravamo in piedi, e alle 5,45 ci ponemmo in cammino per l’ascensione
del Terminillo. Uscimmo al sud di Leonessa e subito entrammo nel letto del
fosso detto Tuscino. Era tutt’altro che piacevole il marciare sopra la ghiaia
dell’asciutto torrente, ma ne eravamo compensati dalla bellezza del panorama che,
allorché cominciò ad albeggiare, destava ad ogni istante il nostro entusiasmo.
Il letto del fosso, quasi sempre asciutto, è incassato entro alte e rocciose
montagne, ed ha un giro tortuoso ed oltre ogni dire pittoresco.
Anche qui
come non trasportare coll’immaginazione nella Svizzera il paese di Leonessa e
vederlo ad un tratto subire una grande trasformazione?
Esso perderebbe quel suo aspetto di borgo medioevale, si rimodernerebbe, sorgerebbero numerosi alberghi, una potente réclame richiamerebbe stranieri a vedere le famose gole del Tuscino; comode diligenze percorrerebbero ampie e belle strade, trasportando continuamente touristes a visitare tutti i dintorni: ed allora gli scienziati non si farebbero ancor essi pregare e verrebbero a studiare un poco di più queste remote parti dell’Appennino Centrale da essi senza alcun dubbio troppo neglette.
Ma invece Leonessa ha subìto l’influsso dell’inerzia, a cui furono condannati da mille cause quasi tutti i paesi dell’Italia Centrale e Meridionale, e le sue bellezze naturali sono rimaste pressoché ignorate. Risolviamoci a riconoscere le colpe nostre e dei nostri predecessori e poniamoci con energia a provvedervi seriamente.
(Dott. ENRICO ABBATE
Segretario della Sezione Romana del C. A. I. 1882)