CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

lunedì 19 agosto 2024

IL VIAGGIO PROSEGUE, ovvero, IL VELINO SI GETTA SULLA NEGRA (2)

 








E' jita male (1)  


Prosegue con il 


capitolo al completo [3] 


e ancora con una 


breve premessa (4) 


& Quarta tappa (5)  


Quinta tappa (6) 


N.B il personaggio/i che compaiono 

in mio logo digitando 

Giuliano Lazzari ci sono estranei, 

nonché i libri a loro attribuiti. 

Quindi un plagio di

 GOOGLE & i suoi compari!









Ma per ritornare ove damo redati, il Cenfore M’ Curio Dentato nell’aprire quel Canale, che dà sfogo al Lago Velino, e che dal fuo nome venne chiamato Cava Curiana, pensò, come fi è detto, d’indirizzare quelle acque verfo la pianura di Terni, nella quale Città fino dall’anno 441. era data trasferita una Colonia di Romani. Egli fcelfe quefta parte sì perchè il naturai declivio delle acque, e la filiazione de’ luoghi l’obbligavano a ciò fare, e sì perchè non veniva ad abbandonare alla loro diferezione quelle acque, quali che liberando la Valle di Rieti avellerò dovuto allargarli nell’altra di Terni, ma poteva raccoglierle in un fiume, che veniva appunto a fcorrere fiotto quel monte, che fu da elfo a tale uopo tagliato.

 

È quello fiume la Nera.

 

Nafte effa negli Apennini verfo la parte di Viffo, ed ha appunto la fua forgente in quel monte che fi chiama tuttavia Fifcello. Nar amnis così ne parla Plinio (Lib. 3. cap. 12.) exbaurit illos lacus Velinos fulphureis aquis.




Gli Scrittori antichi hanno appunto coftantemente dato il titolo di fulfureo a quello Fiume. Oltre Virgilio e Plinio nei riferiti Tefti Claudiano nel Panegirico pel Confolato di Probo e di Olibrio.

 

Quello fiume dopo un lungo giro arrivato con le fue placide acque fotto le Marmore, o fia fotto quel monte  nel quale fu tagliata l’efpofta Cava Curiana e che non già dal mormorio o fia ftrepito della Caduta ma fibbene perchè ivi faxum Ó marmor crefcit, ha prefo il nome di Marmore, riceve nel fuo aperto fieno quelle acque che dopo di effere piombate nella fottopofta voragine  vanno in elfo a precipitarli ed ivi fi compie la celebre Caduta delle Marmore. Il Monte ove termina la Cava e fotto cui fcorre la Nera è tagliato dalla natura quafì perpendicolarmente. L’altezza di quella Caduta o fa di quefia linea perpendicolare è di palmi Romani mille e feffantatrè. 

(Pio VI)




La fondazione di Terni si fa risalire a svariati secoli prima di Cristo. I primi insediamenti sono probabilmente ascrivibili agli Umbri e/o ai Sabini, attorno al VIII – VII secolo a. e.v.. È sulla collina di Pentima che ebbe origine il primo insediamento umano nella conca ternana, dal momento che quest’ultima era allora in gran parte paludosa e occupata da un lago formato dal fiume Nera. Intorno al IV – III secolo a. e. v.. arrivano i Romani.

 

E proprio ai Romani si deve il primo nome che ebbe la città: ‘Interamna’, ovvero città posta tra due fiumi, il Velino e il Serra, quest’ultimo a carattere torrentizio e verosimilmente deviato in epoca medioevale. Con una certa sicurezza si può parlare dell’esistenza, nell’era antropozoica, di un Lago Velino (Lacus Velinus) formato con le acque del fiume omonimo, che aveva sommerso tutti i laghi dell’altopiano umbro-sabino. Le acque del Velino, molto ricche di sostanze calcaree, tracimando lungo tutta la larghezza del ciglione dell’altopiano, con i propri depositi continuavano a rialzare lo sbarramento delle ‘marmore’, sommergendo nuove terre asciutte sino a giungere alla quota di circa 400 metri s.l.m.

 

Nell’agro reatino il Lago era alimentato, oltre che da numerosi fossi torrenti, dai fiumi Velino, Turano e S. Susanna, emergevano inoltre dalle acque, come isole, gli attuali Colle S. Pastore, Montecchio, Colle S. Balduino, Colle Torretta, Colle di Murovecchio e Reopasto. Dall’agro reatino il Lago Velino si estendeva oltre l’isola di Repasto, lungo l’attuale valle, fino a Marmore. All’altezza dell’attuale Piedimoggio iniziava il braccio di Ventina che arrivava fin sotto il Colle Restano. Dal Paino di Canale, il Lago Velino si estendeva nel territorio di Piediluco, con una forma non dissimile da quella odierna. A Valle Prata e a Ponticelli si insinuavano due bracci fin sotto le relative colline, l’attuale Tenuta, la cosiddetta Bandita, e le zone di Cornello e Capulozza erano interamente ricoperte dalle acque da cui emergeva il Colle di Grugliano.




Il definitivo consolidarsi di due centri urbani che affondavano le loro radici in epoche preistoriche, la relativa vicinanza a Roma e, non ultimo, la posizione baricentrica dell’insediamento di Piediluco, attraversato da un importante collegamento viario tra la via Salaria e la via Flaminia, tutto ciò pone il presupposto per la nascita di un nuovo sistema insediativo, anche perché l’apertura della Cascata delle Marmore nel III secolo a. C. e la bonifica delle paludi, insieme ad un lungo periodo di pace, portano ad una rinascita sociale ed economica del territorio.

 

Se però l’apertura del Cavo Curiano arrecò considerevoli vantaggi, fece anche aumentare il pericolo delle inondazioni del Nera e del Tevere, come testimonia la serie di vertenze intorno alle Marmore che si sono protratte fino al XVII secolo. La prima controversia che vale la pena accennare risale alla prima metà del Primo Secolo a.C. quando il Senato di Roma nominò un collegio giudicante presieduto dal console Appio Pulcro e Cicerone e Aulo Pompeo intervennero a difesa, rispettivamente, di Rieti e Terni. La seconda nel 15 d.C. quando, dopo una inondazione di Roma, Tiberio nominò una commissione di esperti per studiare possibili soluzioni autorizzò una nuova serie di opere idrauliche presso le Marmore.

 

In seguito a grandiosi nuovi eventi naturali, il territorio si modificò ulteriormente, le acque del lago preistorico si aprirono un varco verso quelle del fiume Nera, il lago si svuotò parzialmente, e il livello scese si alcuni metri. La palude però prevalse ancora su gran parte del territorio. Nel III - II secolo a. e. v.. avviene la prima bonifica ad opera del Console romano Manlio Curio Dentato. Le acque calcaree del Velino, come detto, depositandosi costituivano una barriera per la confluenza con il fiume Nera, e si impaludavano sull’altopiano delle Marmore (un’ipotesi dell’etimologia del nome deriva dalla pietra calcarea, appunto, che costituisce l’altopiano).




Questo fiume, ‘il Nera/Narco’, nasce dall’alto Appennino centrale umbro-marchigiano, da ‘due fori, quasi orificii del naso del bove, …, traendo’ … da ciò il nome di ‘Nahars o Nars’, poi ‘Nare’, Narco, ed infine Nera. Il fiume Velino, così detto dalla Dea Velia, trae origine nell’Appennino sabino-abruzzese, e, superata, Rieti, attraversa una piana sino a Piediluco, sopra la città di Terni, ove … ibi erant palustria, quae nunc prisco linguae more dicuntur Velia (erano ivi degli acquitrini o pantani, che ora all’antico uso della lingua si dicono Velia; da D. Alicarnasso, lib. 1).

 

Come in precedenza riferito, l’impaludamento delle piane sabine ed umbro-sabine era causa periodica di febbri malariche. M. C. Dentato bonificò i terreni circostanti il Velino, causa di tali straripamenti, scavando un canale che partiva dal punto più profondo della palude e che portava le acque fino al ciglione di Marmore. Il canale ottenne l’obiettivo prefissato, ma risultò col tempo insufficiente per contenere le acque del Velino stesso nei periodi di piena, con conseguenti allagamenti a valle, lungo il decorso del Nera che dopo non molti chilometri passava per la città di Terni. Successivamente i reatini proposero comunque un ampliamento del canale per evitare lo straripamento del Velino, opera cui si opposero i ternani, che temevano inondazioni del loro territorio.

 

Ciò diede luogo, per tutta l’età classica, a lunghi contenziosi tra i due municipi. 

 


 


DI TALUNI PERSONAGGI PIU’ O MENO ILLUSTRI



A finire dell’estate di quest’anno e precisamente il 19 agosto, alle 5,50 p. partivo insieme ai Soci Cesare Allievi e Raffaele Pericoli, ed al Cav. Bruto Amante per Terni, donde il giorno seguente tutti ci dirigevamo verso la cascata delle Marmore. Percorso un tratto della deliziosa Valle Nerina, alle 6 eravamo ai piedi della cascata, per godere della cui veduta in tutta la sua ampiezza salimmo sopra un poggio che le sta di fronte. Il fiume Velino, che ha le sue sorgenti presso Civitareale, scende alimentato dalle acque di alte montagne dell’Appennino centrale, verso Antrodoco e Città Ducale, ed attraversa quindi la fertile pianura di Rieti percorrendo in tutto il suo corso un’ampia e bella vallata, che Cicerone non esitava a paragonare a quella di Tempe.

 

Anticamente, in fondo al piano di Rieti, il fiume precipitava per molte e differenti vie nel sottoposto bacino del Toro. Le inondazioni erano talmente frequenti e terribili che nel 71 av. G. C. Marco Curio Dentato fece scavare un canale, seguendo il quale il Velino venne a gettarsi nel fiume Nera. Tale canale, pur avendo subìto varie modificazioni, è quello tuttora in uso. Scavato perpendicolarmente nel monte produsse una delle più belle cascate d’Europa, che Byron entusiasmato descriveva coi più splendidi colori della sua tavolozza poetica.




La caduta presenta tre differenti fauci la principale è la più singolare; è una gran massa d’acqua che, per mancarle ad un tratto il terreno, si precipita in basso, bianco fiocco di spuma contenuto fra rupi della lunghezza di soli l0 piedi. Raggiunto il sottostante bacino, il fiume si spande con maggior forza, si allarga, e formate due belle cascate meno precipitose, va a confondere le sue acque con quelle del fiume Nera. L’occasione era troppo bella perché i nostri poeti si lasciassero sfuggire una poetica similitudine.

 

Più potenti del Parlamento Inglese, che tutto può fare, ad eccezione di cambiare una donna in uomo, ed un uomo in donna, mutarono in femminile il mascolino fiume Nera e celebrarono i grandi sponsali del Velino colla Nera. La similitudine incontrò il favore universale, tantoché oggi niuno più azzarderebbe dire il Nera anziché la Nera. Questo fiume nasce alle falde del Monte della Sibilla, una delle più alte vette del Norcino, e dopo un lungo corso di oltre 100 chilometri in una stretta vallata, che in certi tratti meriterebbe più propriamente il nome di gole, va, dopo aver ricevuto le acque del Velino, a gettarsi presso Orte nel biondo Tevere. Ma la cascata delle Marmore non è soltanto celebre per la sua bellezza e per i pittoreschi punti di vista che offre: essa è soprattutto ammirevole dal lato geologico.




Le acque del Velino e specialmente quelle della Nera sono cariche di carbonato di calce, il quale depositandosi tanto sopra i più minuti frammenti di vegetali che incontra, quanto sopra i più grossi tronchi d’alberi, forma delle concrezioni calcaree fantastiche e svariate, veri disegni di merletti che mai sì belli seppe comporre la mano industriosa dell’uomo. Queste concrezioni sono per la più parte friabilissime: però col tempo i numerosi interstizi che esistono si colmano, la calce si solidifica, si formano massi duri e compatti benché assai porosi, si ha insomma il travertino.

 

Tutte le varie gradazioni di questo geologico fenomeno avemmo agio di osservare, allorché attraversata la Nera sopra un ponte naturale, formatosi appunto per tali concrezioni, ci indirizzammo per un ripido sentiero alla destra di chi osserva la cascata, verso la parte superiore di essa. Qua erano tronchi di secolari piante che si erano pietrificati: là erano piccoli ramoscelli, ornai calcarizzati e riuniti tutti insieme, come vasta rete, dal carbonato di calce: altrove erano estesi depositi di travertino, in cui si praticavano cave per tagliarne grossi massi quadrati da servire a costruzioni.

 

Alla bellezza dei fenomeni naturali corrispondeva panorama sopra la valle Nerina, e l’amenità del sentiero che percorrevamo, al cui lato destro scendevano dal monte numerose cascatelle, che al presente erano intieramente ghiacciate. Ben presto però noi dovemmo distogliere da tutto ciò la nostra attenzione, ed esclusivamente occuparci della via che seguivamo.




La grande massa d’acqua che forma la prima parte della cascata, cadendo perpendicolarmente, solleva un turbine di fumo di piccole goccie d’acqua che il vento del nord allora piuttosto forte spingeva sul lato destro. L’acqua che veniva così a bagnare il terreno erasi per il freddo della notte assai fortemente congelata, talché noi ci trovammo sopra un ripidissimo viottolo coperto di sottile, ma durissima crosta di ghiaccio. Avevamo la piccozza, ma ben poco essa poteva servirci. Appoggiandoci con forza ad essa, afferrando cespugli di spine che ci graffiavano faccia e mani sdrucciolando spesse volte e rialzandoci (ciò che era più difficile)  riuscimmo alfine a giungere poco al di sotto della cima della cascata, ove è una specola costruita proprio sul dinanzi della parte principale di essa.

 

Impiegammo nella salita, che d’ordinario si compie in un quarto d’ora, più d’un’ora. Ci fermammo un momento alla specola ad ammirare l’aspetto del Velino che da questo punto si presenta in tutta la sua imponenza: non è più acqua, ma è un turbinoso ammasso di spuma che si precipita furente in basso, sollevando alti fiotti e frangendosi contro i laterali scogli. Perfino l’aria compressa continuamente dal peso dell’acqua muggisce come furioso vento. Impercettibili goccie d’acqua, divise all’infinito, si sollevano dal basso e formano densa nebbia, nella quale rifrangendosi i raggi solari producono un arcobaleno dai più vivi colori.




Erano le 8,30 allorché, strappatici dal sublime spettacolo, per una scala di pochi gradini giungemmo al vertice della cascata, di dove seguendo un largo sentiero fummo in breve sulla strada provinciale Terni-Aquila. In poco più di mezz’ora arrivammo al bordo del lago di Piè di Luco. Qui affidammo coraggiosamente la nostra vita ad una barchettaccia che ci portò alla base di Monte Sant’Egidio. Salimmo pochi passi e ci recammo ad una specie di piattaforma, di dove si ode il fenomeno naturale dell’Eco polifona. Quest’eco, detto di Piè di Luco, ripete distintissimamente e colla massima chiarezza un verso endecasillabo.

 

Ci divertimmo a pronunziare versi di poeti stranieri, e riuscimmo a far ripetere intiero il verso: Italiani, Italiani, primus conclamat Achates, pronunziandolo con una certa velocità. Se bello era questo fenomeno, ancor più bello era lo splendore del panorama che si stendeva innanzi a noi. Di fronte sorgeva diviso dal lago (della larghezza qui di meno di due miglia, mentre ne misura 5 in lunghezza) il monte Sant’Angelo (800 m,) un vero triangolo equilatero sulla cui vetta s’innalza un piccolo fortilizio con torri che si prolungano da ambo i lati fino alle sue falde, mentre sul bordo del lago il grazioso paesetto di Piè di Luco ne occupa tutta la base.

 

Il gaio e ridente aspetto del paese, la chiarissima e leggiermente cerulea acqua del lago, l’alternarsi del verde e del roccioso nei monti, formano uno dei più leggiadri quadri che la natura, maestra dell’arte, sa offrire ai suoi cultori. Eppure tal quadro è a ben pochi conosciuto. Pur troppo non si può a meno di pensare che se Piè di Luco ed il meraviglioso suo eco fossero situati in paese straniero, per esempio, in Svizzera, diverso sarebbe l’aspetto del luogo.




Migliaia e migliaia di Ciceroni si presenterebbero a voi con portavoce e con armi per meglio farvi godere dell’eco: numerose e gaie villette dai smaglianti colori popolerebbero e rallegrerebbero le verdi rive del lago, e agili e leggiadre barchette di tutte le forme solcherebbero veloci le quiete acque. infondendo vita e moto a quella funerea calma della natura. Invece quattro assi che restavano uniti fra loro non per artificiale connessione, ma chi sa per qual legge a noi ignota di affinità, ci trasportarono in circa 15 minuti dalla base di monte Sant’Egidio al paese di Piè di Luco, il cui interno non brilla certo per sontuosità. Qui facemmo colazione e alle 11,30 a. ci riponemmo in marcia diretti verso Leonessa, piccolo paese d’Abruzzo, per intraprendere poi all'indomani la salita del Terminillo.

 

Seguimmo per un certo tratto la via postale che conduce ad Aquila, poi volgemmo a sinistra per entrare nella valle detta della Sega, e nella nuova carta di Stato Maggiore del Fuscello, risalendo la quale si sarebbe pervenuti a Leonessa. Prima però di imboccare nella valle, un contadino, certo un mandatario di Belzebù, se pure non era Belzebù in persona, ci si mise tra i piedi e cominciò colla voce e coi modi più persuadenti che immaginar si possano, a consigliarci di non andare a Leonessa seguendo il fosso della Sega, adducendoci tra le altre ragioni che non essendovi strada ed in molti luoghi essendo il fosso straripato e tutto ghiacciato, ci saremmo trovati in un brutto impiccio.




Noi per l’esperienza già acquistata di quanta delizia fosse il camminare sopra sentieri ghiacciati, ci lasciammo facilmente persuadere, e fattaci insegnare la strada che egli proponeva su pei monti, ci indirizzammo verso il paese di Labbro, indi di Morro, e... poco dopo incominciarono le dolenti note. Internatici fra varie colline, in breve smarrimmo la via, e girando su e giù ci trovammo in certe insenature di monti sopra scogli a picco sempre in cerca di un sentiero che non riuscivamo a rintracciare.

 

E non ci fu fatto mai di incontrare anima viva, ed eravamo carichi di borsette e di borraccie, ed io per soprappiù di una macchinetta fotografica sulle spalle, e l’amico Allievi di uno zaino uso quelli da ufficiale dell’esercito. Per farla breve, cominciava a farsi notte allorché a mezzo di un monte vedemmo un largo sentiero, verso del quale anelanti ci arrampicammo. Lo seguimmo per lungo tratto e pervenimmo così ad un ponte sopra un torrente. Qui un gradito abbaiare di cani commosse le nostre più intinte viscere che già brontolavano per il lungo ozio a cui le avevamo condannate. Una buona vecchia con un suo figlio di 14 anni erano gli unici abitanti di un casolare che serviva di rifugio a molte pecore e che era anche una specie di osteria. Vi trovammo vino ed uova e pane e soprattutto una ospitalità veramente abruzzese che invano si cercherebbe nei paesi più civilizzati ,della nostra provincia.

 

La filosofia ottimista di quella vecchierella era ammirabile e coi suoi racconti ci divertì mezzo mondo, specialmente con quello del miracolo fatto da un frate alle sue pecore, allontanando colla sua presenza nel casolare i lupi che scorrazzavano nella campagna, e reclamando poi per sé una pecora!!!




Una brutta notizia però ci fu partecipata, che cioè eravamo distanti 2, ore e mezzo da Leonessa. Alle 7 e mezzo ripartimmo e alle 9 e mezzo riuscimmo a giungere a questo paese, ove trovammo da dormire nell’osteria di un tal Conti. Cercammo di un vecchio cacciatore detto il Luparo, nel quale molti nostri compagni avevano trovato una buona guida pel Terminillo. Ma essendo egli assente, ci accordammo invece con un suo figlio di 14 anni, Giuseppe Chiaretti, e con lo zio di questi, Giovanni Chiaretti; indi andammo a riposarci.

 

All’indomani, giorno 13, alle 5 a. eravamo in piedi, e alle 5,45 ci ponemmo in cammino per l’ascensione del Terminillo. Uscimmo al sud di Leonessa e subito entrammo nel letto del fosso detto Tuscino. Era tutt’altro che piacevole il marciare sopra la ghiaia dell’asciutto torrente, ma ne eravamo compensati dalla bellezza del panorama che, allorché cominciò ad albeggiare, destava ad ogni istante il nostro entusiasmo. Il letto del fosso, quasi sempre asciutto, è incassato entro alte e rocciose montagne, ed ha un giro tortuoso ed oltre ogni dire pittoresco.

 

Anche qui come non trasportare coll’immaginazione nella Svizzera il paese di Leonessa e vederlo ad un tratto subire una grande trasformazione?




Esso perderebbe quel suo aspetto di borgo medioevale, si rimodernerebbe, sorgerebbero numerosi alberghi, una potente réclame richiamerebbe stranieri a vedere le famose gole del Tuscino; comode diligenze percorrerebbero ampie e belle strade, trasportando continuamente touristes a visitare tutti i dintorni: ed allora gli scienziati non si farebbero ancor essi pregare e verrebbero a studiare un poco di più queste remote parti dell’Appennino Centrale da essi senza alcun dubbio troppo neglette.

 

Ma invece Leonessa ha subìto l’influsso dell’inerzia, a cui furono condannati da mille cause quasi tutti i paesi dell’Italia Centrale e Meridionale, e le sue bellezze naturali sono rimaste pressoché ignorate. Risolviamoci a riconoscere le colpe nostre e dei nostri predecessori e poniamoci con energia a provvedervi seriamente. 

 

(Dott. ENRICO ABBATE 

Segretario della Sezione Romana del C. A. I. 1882)



 

 

 


domenica 18 agosto 2024

E' JITA MALE...

 






Orsù!!

 

…intrepidi forestieri viandanti & più che noti benché sconosciuti latitanti Ciarlatani; seppur più stracchi che stanchi più cotti che accaldati - satolli ma sempre affamati – (e mai diffamati!), in ode alla prematura morte di Madre Natura accompagnata dalla suocera novella Madonna, da ognun ammirata e insegreto violentata seppur dichiarata Vergine (as)salita e Assunta dipinta per ogni edicola, quando cadde dal subaffitato settimo cielo (quello per intenderci e ben volere, celebrato dal noto Dante dato per disperso per l’altrettanta  morta selva…) senza il velo che ben la proteggeva casta e pura, fu arsa allo spiedo da ogni paladino di corte fedele al proprio ed altrui nobilitato Cavaliere; solo doppo aver forzato la serratura le fu tolta anche la solida cintura, affinché la sete dello sfrenato desiderio senza l’amore della Natura poffa compiere la propria breve orgiastica disavventura; fu dichiarata et spafciata per Eretica giacché la sua Storia è l’Esilio d’una Fonte sconosciuta ove un Dio la prega e adora, seppur braccato peggio d’un Lupo… suo ultimo sventurato araldo… 

 

….coniato su una Forca…




Ben compiuta breve nonché accordata o scordata  premessa senza liuto o pagnotta neppur caciotta e/o ricotta dello Pastore in cerca dello noto Lupo e col permesso della Madonna, porgiamo et offriamo i servigi del noto seppur sconosciuto calzolaio, per lo riparo dell’acciaccato sandalo, della sofferente ciabatta, dell’ultima sola non più risolata, dell’ulcerata anca non ancor pregata all’altare della più nota Patria o Suocera melonata, affinché l’intiera brigata possa compiersi al saldo dello pellegrinaggio dalla Cascata fin sulla più alta vetta dal Guerin celebrata in ode alla Sibilla e alla sua Fonte prosciugata dopo l’ultimo sibilo dell’oracolo dallo Settimo Cielo censurato et perseguitato, affiché lo canone della ‘porca’ non ancor porchetta possa compiere lo strazio alla medesima Natura…




Giacché Atene brucia non posso dir o argomentar altro, e come detto nell’ultimo papiro non ancor abbruscato meglio il sigillo dello discreto ulcerato silenzio…. (lo boscaiolo mi punta et osserva per la disadattata fuga senza appunto o appuntato che la protegga…)   

 

Iniziamo lo Viaggio dalla Cascata…:

 

A  natura,  e  l’arte  fono  concorfe  a  formare  la  Caduta  delle  Marmore   ed  a  renderla  un  oggetto  della  giuda  ammirazione  di  quanti  fi portano  ad  offèrvarne  lo  spettacolo.  Quelle  acque  del  Velino,  che  dalla  fommita  d’un  Monte  tagliato  perpendicolarmente  fi  precipitano  nel  fiume,  che corre  alle  radici  del  medefimo  coftituifcono  quefta  maravigliola  Caduta. 



Nafce  il  Velino  nei  monti  dell’ Abruzzo  da  quella  parte,  che  riguarda  lo  Stato  Pontificio   e  tratto  il  fuo  principio  da  due  fòrgenti  delle  quali  l’una  è preffo  Civita  Reale,  e  l’ altra  ad  Antrodoco,  fi  trova  ben  prefto  ricco  di  tale  copia  di  acque   che  prefenta  un  Canale  sufficiente  alla  navigazione,  divide  la  Città  di  Rieti  dal  fuo  Sobborgo   e  quindi  correndo  lentamente  pel  vafto,  e  deliziofo  Territorio  alla  medefìma  lottopofìo,  pafla  vicino  al  Lago  di Piediluco  raccoglie  in  abbondanza  le  acque  di  quell’ampia  Provincia,  e  qua, e    dolcemente  fileggiando,  giunge  finalmente  al  piano  delle  Marmore, ove  comincia  quella  velocità  del  fuo  corfo,  che  quindi  paffo  paffo  crefcendo   monta  ad  un  grado  il  più  forprendente. 

 

Si  è  dalla  dotta  curiofità  degli  eruditi  Etimologici  ricercata  l’origine  del nome  Velino,  e  fi  è  da  alcuni  pretefo  dedurla  dal  nome  della  Dea  Velia,  una delle  molte  Divinità  del  Paganefimo. 

 

Sarebbe peravventura  tollerabile  quefla  pretenfione,  di  dedurre  dalla  Mitologia  tutti  i  nomi  lafciatici  dalla  piu  remota  antichità  quando  Dionifio  d’Alicarnalfo  non  ci  facefle  chiaramente fapere,  che  quello  nome  trae  la  fua  origine  dalla  parola  Velia,  che  anticamente  indicava  un  luogo  paludofo:  ibi  erant  palufìria,  qua  mine  prifco lingua  more  dicuntur  Velia  ( Lib.  I.). 





Si  potrebbe  piuttofto  ricercare  di  qual lingua  foffe  avanzo  quefta  parola  Velia,  fe  della  Celtica,  dell’Etrufca,  della  Volfca  della  Sabina,  o  dell’antico  Idioma  del  Lazio:  ma  farebbe  quello parimente  un  imitare  il  coraggio  di  quegli  Scrittori,  che  fi  avanzano  a  darci le  più  diftinte  notizie  di  quelle  lingue,  di  cui  non  fi  fono  confervate,  che poche  voci.     


Quefte e quelle poche voci che udiamo pascere e delirare per quanto offerto e mai contraccambiato in nome del vigilato tribolato vento, udite in Pio silente silenzio, fra le morte secche foglie arfe al sole del profgresso, rimaste mute e vigili at vigilare ciò che l’Anima rimembra ma non più prega giacché purgata dallo più che affollato Settimo Cielo (or mi dicono immobile et soppalcato), le celebriamo pascoliamo rimembriamo adoriamo et alla prematura fine… preghiamo; e come detto all’ingresso di sifcato sudario, le accompagnamo con altrettanti artisti ciabattini affinché li sudati calzari fino all’oculo che li guarda e brama come tali, rimembri l’antico passo, or meglio l’antico cantico dello Pensiero perso comandato et esiliato ad una differente sofferta Vista, qual miglior ispiractione verso la comune antica Via; et assieme in nome dell’Assunta Madonna con scadenza di contracto - sfrattata dallo stesso Cielo - accompagnata all’intiera brigada della Natura, udirli et ripararli ancora in sofferta esiliata Vita è un dovere a me caro, e che la loro Voce ci sia d’ispiractione per sifcata silente perseguitata eretica preghiera… 

 


Grazie alla indefessa e sincera attività promozionale, forse non del tutto disinteressata ma efficace, dello scultore Aurelio De Felice (1915-1996) Orneore Metelli a guerra appena finita da Parigi fu designato come, se non l’unico, certo uno dei pochissimi pittori cosiddetti da considerare erede del Doganiere Rousseau.

 

Metelli fu infatti definito e accettato come il ‘Rousseau’ del XX secolo. Per altro verso il calzolaio di Terni fu precursore, come creatore e interprete di calzature speciali e di lusso, del poi celeberrimo Salvatore Ferragamo. Metelli si dedicò alla sua riposta, nascosta vocazione e passione primaria per la pittura subito dopo la fine della Prima Guerra Mondiale. Tuttora viene considerato nel mondo uno dei principali interpreti dell’espressività pittorica ingenua e autodidattica, anche se poco rappresentato perché le sue opere non sono nel giro commerciale perché, credo, sono ‘musualizzate’ (né ‘mussulinizzate’) o comunque in collezioni stabili, consolidate.




Orneore nacque a Terni il 2 giugno 1872 da David e Getulia Fabri. Sua madre svolse la professione di sarta, mentre il padre lavorò come calzolaio nella ditta di famiglia, che era stata fondata da un antenato nel 1798, stando a quanto si evince dall’epigrafe dipinta dal M. nell’Interno della calzoleria (Terni, CAOS - Centro arti opificio Siri, dove sono conservati i dipinti del M., salvo diversa indicazione).

 

Terminati gli studi elementari il M. entrò come apprendista nella calzoleria paterna. Visse sempre a Terni – fatta eccezione per brevi e sporadici viaggi – città nella quale sposò, il 4 giugno 1900, Giulia Ponnetti e dove svolse il mestiere paterno per tutta la vita, occupandosi anche dell’elegante negozio di corso Tacito (arteria principale del centro storico). Il M. produsse scarpe particolarmente apprezzate per l’elevata qualità e l’originalità delle forme: calzature civili, militari e teatrali, esportate anche all’estero, soprattutto in Francia, che ottennero numerosi premi e menzioni d’onore alle esposizioni campionarie nazionali e internazionali nelle quali furono presentate. Raggiunse una tale notorietà in questo settore che all’Esposizione internazionale di Parigi del 1911 venne invitato fuori concorso e fu nominato membro della giuria d’onore preposta alle premiazioni.



In questi anni il M. impiegò il proprio tempo libero, soprattutto serale, per dipingere nella cantina o nella cucina della sua casa. Egli considerò la pittura una pratica intima e personale, condotta con costante impegno, ma senza alcuna velleità o pretesa intellettuale, tanto che, per rammentare la sua vera professione, era solito tracciare accanto alla firma la forma stilizzata di uno stivaletto.

 

Artista di autentica vocazione e maniera naïf, il M. dipinse con vivace gusto narrativo, non privo d’intonazioni aneddotico-didascaliche, e acuta sensibilità cromatica, episodi di vita popolare ternana, scorci urbani e interni domestici, a volte intrisi di riferimenti autobiografici. Nella sua produzione figurano anche vedute di altre località, mai riprese dal vero, ma sempre sulla base di ricordi o immagini sussidiarie, come ad esempio le cartoline illustrate prodotte nella tipografia Alterocca.




Oltre alla più consueta tela utilizzò supporti di vario genere: compensato, cartone, lastre di zinco, terracotta, scampoli della stoffa leggera impiegata per foderare l’interno delle scarpe e persino l’anta lignea di una porta. Nella maggior parte dei dipinti i personaggi, le cui dimensioni risultano stabilite in base all’importanza e al ruolo sociale svolto, sono argutamente atteggiati e inquadrati entro campi scenari architettonici o paesistici, raffigurati secondo un’arbitraria quanto ferma e nitida prospettiva. Il M., infatti, considerò le regole geometriche di rappresentazione dello spazio adattabili alle esigenze compositive, tanto che la dislocazione di uno o più punti di fuga era determinata in base all’importanza e alla funzione dell’oggetto da porre in risalto. Chiari esempi di estrema arditezza prospettica sono Allegoria romana (1935), Processione (1938) o Temporale alla stazione di Assisi, dove la profondità spaziale si alterna a proiezioni assonometriche e le dimensioni di oggetti e figure variano liberamente in ogni porzione del quadro.

 

In maniera analoga il M. elaborò una teoria delle ombre altrettanto inusuale ed empirica, affinché le parti ombreggiate non recassero mai alcun ingombro alla rappresentazione. 




Attento e partecipe cronista della sua epoca, il M. documentò le tradizioni contadine umbre, ma soprattutto le trasformazioni sociali e architettoniche in atto a Terni, città che, divenuta capoluogo di provincia nel 1927, necessitava di un moderno assetto viario e urbanistico con edifici amministrativi di avvenimenti più significativi riguardanti la città, come la Visita di Mussolini a Terni, le periodiche processioni religiose e le sfilate militari, senza trascurare la descrizione delle abitudini piccolo borghesi di una tranquilla vita provinciale: le passeggiate in carrozza nel parco (I giardini pubblici di Terni) o gli allegri incontri dei cacciatori (Bona caccia: la partenza).

 

In queste, come in altre opere, il dato aneddotico risulta non di rado trasposto su un piano d’incantata e favolistica narrazione, che può raggiungere toni nostalgici o persino mitici. In alcuni dipinti il valore didascalico delle scene illustrate è rafforzato dall’inserimento di parole scritte come fumetti, a volte associate addirittura a filastrocche dialettali o partiture musicali, come ne La forza del destino (Basilea, Kunstmuseum).




Nel 1936 il M. dipinse Uno dei Mille e Mio padre garibaldino calzolaio, offrendo uno scorcio di intima vita familiare: l’interno della casa paterna con la madre intenta a cucire accanto al camino, il padre impegnato con le tomaie e il ritratto del nonno Vinceslao, garibaldino della prim’ora, appeso sulla parete di fondo.

 

La galleria dei ritratti del M. è costituita da una serie di personaggi, storici o contemporanei, di cui non è mai possibile conoscere l’identità, come nel caso della Venere di Terni (Basilea, collezione privata), Susanna (Terni, collezione privata), Personaggio storico o Personaggio provinciale.

 

Celebri gli autoritratti, a cominciare da quello nel quale veste la pittoresca divisa della banda cittadina, con tanto di cappello piumato e giubba ornata con lustrini, bottoni e ricami dorati. Il M. non attribuì mai valore artistico ai propri dipinti, mostrati di rado agli amici più fidati. Vivente partecipò soltanto a tre rassegne espositive, a Terni, nel 1936, propose l’opera Rientra la processione; l’anno seguente, a Perugia, espose un olio di analogo soggetto (Processione), ed infine, nel 1938, di nuovo a Terni, prese parte alla VII edizione della Sindacale con due dipinti: La battaglia di Colleluna e È andata male.




Quest’ultima opera, di soggetto autobiografico, è nota anche con il titolo È jita male e documenta l’attività della Fanfara Metelli, il complesso musicale che l’artista costituì nel 1910. Sotto una sferzante nevicata i musicanti rientrano in città, soltanto il M., il capobanda, si protegge con l’ombrello, quel parapioggia verde costantemente presente in tutti i dipinti che descrivono episodi della sua vita.

 

Il M. morì a Terni mentre era ancora in corso la manifestazione, all’alba del 26 nov. 1938, lasciando incompiuto il dipinto al quale stava lavorando, Uscita dal teatro. Dopo la morte del M. le sue opere furono costantemente presenti nelle esposizioni nazionali e internazionali: nel 1941 nell’ambito della VIII Sindacale a Terni gli fu riservata, quale omaggio postumo, una sala personale nella quale vennero esposti tredici dipinti. L’anno seguente le opere del M. varcarono per la prima volta i confini regionali per essere presentate alla LVII Mostra della Galleria di Roma nella rassegna riservata agli artisti partecipanti alle Sindacali umbre. Nel 1946 alla Galleria di Roma fu allestita la prima retrospettiva su iniziativa dello scultore ternano A. De Felice. Le sue opere furono esposte alla II Triennale internazionale d’arte di Bratislava, durante la quale il M. fu riconosciuto come uno dei classici della pittura naïf.