CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

lunedì 28 novembre 2016

DAL MAR BALTICO ALLA LUNA (11)



















Precedenti capitoli:

L'umanità corrotta (1/10)  &
















Insoliti viaggi onirici.....















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....Alla Luna.... (12)














Era l’estate di 175 anni fa; il 21 agosto 1835 il New York Sun avvertì i propri lettori che avrebbe presto ripubblicato un estratto dell’Edinburgh Scientific Journal, con le ultime scoperte dell’astronomo più famoso dell’epoca, John Herschel (a sua volta figlio di un altro grandissimo astronomo, lo scopritore di Urano William Herschel). L’annuncio non destò particolare clamore, ma una settimana dopo, quando iniziarono a susseguirsi gli articoli, scoppiò un vero e proprio putiferio.




Il Sun del 25 agosto raccontava infatti di come John Herschel fosse riuscito a montare un gigantesco telescopio al Capo di Buona Speranza, con il quale aveva potuto “stabilire una nuova teoria per le traiettorie delle comete e osservare nuovi pianeti al di fuori del sistema solare”; ma, soprattutto, scandagliare con precisione la superficie lunare, sulla quale aveva trovato segni di vita intelligente!
Dopo l’annuncio di un fatto così sconcertante, l’articolo proseguiva con una serie di spiegazioni tecniche sulla costruzione del telescopio, di come si fosse riusciti a fare in modo che gli oggetti ingranditi fossero comunque luminosi tramite l’inserimento di una seconda lente, e di come l’impresa avesse avuto tra i finanziatori lo stesso principe d’Inghilterra. Il tutto si concludeva promettendo, per i giorni successivi, ulteriori novità.




Nelle edizioni seguenti le rivelazioni si succedettero, sempre più strabilianti. 
Il secondo articolo raccontava dei mari e delle praterie lunari, con la loro flora. 
Nel terzo si descriveva la fauna, fra cui alcune specie di bisonti, e degli strani unicorni azzurri. Nel quarto fecero la comparsa gli uomini intelligenti, dal pelo arancio come quello degli oranghi, che vivevano in palafitte e conoscevano l’uso del fuoco. A fianco di questi si descriveva una specie più evoluta di “uomini pipistrello”, denominata “Vespertillo Homo”, dai modi più raffinati e dalle alte costruzioni. 
Nel quinto e nel sesto articolo si analizzava ulteriormente la civiltà degli uomini pipistrello, descrivendo un anfiteatro color zaffiro abbandonato, e il loro stile di vita, decisamente “bucolico”. Tutti gli articoli erano firmati dal Dr. Andrew Grant, sedicente assistente dell’illustre astronomo. Inutile dire che non esisteva nessun Dr. Grant, e che John Herschel – che in effetti all’epoca si trovava davvero al capo di Buona Speranza, per osservare il transito di Mercurio sul disco solare – era all’oscuro di tutta la vicenda.




 I lettori però ci credettero, e l’impressione e i dibattiti suscitati dagli articoli furono enormi. La notizia travalicò persino i confini nazionali, arrivando in Europa: fra le vittime illustri ci fu François Arago, presidente dell’Accademia delle Scienze francese. Anche in Italia uscì un opuscolo con le traduzioni degli articoli del Sun; la cosa interessante è che, nella migliore tradizione delle leggende metropolitane, il libello italiano aggiungeva dettagli e particolari originali. Fra i “debunkers” che cercarono di smontare la notizia ci fu anche Edgar Allan Poe, all’epoca giornalista, che pubblicò un’analisi punto per punto delle affermazioni del Sun, accusandoli di aver copiato un suo precedente racconto di fantascienza.




Ma – cosa che forse dovrebbe fare riflettere – sembra che i cittadini di New York preferissero ascoltare le improbabili storie del Sun piuttosto che dare retta ai ragionevoli argomenti esposti da Poe. Il diretto concorrente del Sun, il New York Herald, accusò Richard Adams Locke, un giornalista appassionato di ottica e di astronomia, di aver orchestrato la bufala con il solo scopo di aumentare la tiratura del suo giornale; e in effetti il Sun, che allora era solo un piccolo giornale, aumentò a dismisura la propria tiratura, rimanendo stabilmente a un numero maggiore di copie vendute anche quando divenne evidente la natura “bufalina” degli articoli.




Insomma, tutta l’operazione potrebbe essere definita come un esempio di “marketing virale” ante litteram. Lo stesso Herschel si dimostrò dapprima divertito dalla vicenda, quindi contrariato, infine decisamente scocciato di dover ripetere in ogni occasione pubblica la sua estraneità ai fatti. A poco a poco la storia si sgonfiò, e la ‘Great Mon Hoax’  rimase a lungo la più riuscita burla mediatica della storia giornalistica. Probabilmente il suo successo si deve anche al fatto che la possibilità di vita sulla Luna era, a quei tempi, un tema molto dibattuto: se da un lato la chiarezza della forma lunare durante le eclissi faceva pensare al fatto che non ci fosse atmosfera, e quindi neanche la vita, dall’altro schiere di astronomi e filosofi erano più che convinti dell’esistenza di abitanti sul nostro satellite. 




Lo stesso matematico Fredrich Gauss aveva proposto la costruzione di un enorme triangolo nella tundra, in modo da segnalare ai lunari la nostra presenza. La verifica di ciò che c’era effettivamente sulla Luna sembrava allora una sfida lontana e impraticabile: una sfida che però l’umanità, con l’epoca eroica della conquista spaziale, ha vinto, permettendoci finalmente di sapere molte cose sulla natura del nostro satellite, che 175 anni fa, all’epoca degli “uomini pipistrello”, ancora ignoravamo.


































giovedì 24 novembre 2016

L'HOMUNCULUS (5)








































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Lettera a un bambino (4/1) &















in riferimento allo specifico contratto matrimoniale:

Mentre nascevo...

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L'homunculus (6/1)













…Prima di addentrarmi in successive narrazioni…

(le quali come specificato all’araldo del Primo Passo di codesto sofferto e periglioso cammino, sempre in compagnia, oltre che del fido ronzino anche di una ‘eletta’ e poco raccomodabile schiera a cui poco è gradita sia la Rima che la sofferta Opinione espressa, giacché debbo specificare sia all’asino del fedele cammino sia al suo solerte allevatore, taluni sentieri percorsi… talché mi sembra obbligo ‘morale’ quanto ‘storico’ per l’acuto suo acume o intelletto, dono di un creatore di cui fece così raro tesoro nell’ingegno suo posto, questo par sottointeso non meno del ‘verbo’…, specificare, come qui dico e ripeto, il bivio là ove è solito segnalarlo o fors’anche impalarlo di una buona e costante ‘segnaletica’…: croce la qual accompagna sempre il sofferto cammino di chi Eretico per sua nobile e discreta e non meno umil Natura… Ad indicare così l’intento di chi esce dal Sentiero maestro specchio del devoto ma poco illuminato ingegno: fedele ronzino asino per sua nobile e diletta natura ‘carico’ del popolo che bela e lavora ed ogni tanto, o fors’anche troppo spesso, impunta lo zoccolo malfermo al bivio di un carico trascinato e sofferto o solo indeciso giacché sempre mulo del padrone a cui il devoto lavoro nobilita la ‘pentola’ caricata ad ogni ora dell’eterno giorno della sua ed altrui Storia priva di qualsivoglia giusta Memoria… E più non dico…)….




Volli esaminare il ‘contratto matrimoniale’ di mia madre, per soddisfare il lettore e me stesso su quei punti che esigevano un chiarimento; ebbi la fortuna di capitare sull’argomento che cercavo, dopo aver letto senza interrompermi soltanto un giorno e mezzo, mentre temevo di impiegarci almeno un mese…
Il che mostra in modo evidente che, quando uno si accinge a scrivere una storia, foss’anche soltanto quella di Pollicino con i suoi compagni o compari, conosce quanto i suoi calcagni gli ostacoli e i pasticci, in cui s’imbatterà cammin facendo, o i salti mortali che sarà costretto a fare tra una digressione e l’altra (giacché l’opinione è sempre poco gradita come la verità per ogni via…), prima di terminare o iniziare il Sentiero, o, come meglio si aggrada alla lingua e palato di un ‘illuminato’ destino di un popolo il qual ha confuso pentola e pendola alla eterna cucina della sua ed altrui gola la qual nominano talvolta ‘politica’ talvolta pasto gradito e ben saporito all’osteria ove il passo ed il cammino poco gradito… Ma io carico lo Spirito e con questo la ‘pentola’ augurando al suo ingordo ventre ‘buon appetito’ sempre e sottointeso di aver cura dello stomaco con cui nutre l’ingegno pur non essendo neppure quella nobile donna la qual mirava Spiriti invisibili presso la sua dimora… ma forse questa è tutt’altra ‘materia’… al cospetto di chi danza un altro e diverso tempo della Storia…




…Uno storiografo potrebbe trascinare la sua storia come un mulattiere trascina il suo mulo, dritto filato, senza mai sostare per esempio da Roma a Loreto, e senza mai voltare (né pagina né rigo privato del devoto inquisitore… della storia…) né a destra né a sinistra; allora forse potrebbe riuscire a prevedere l’ora in cui pensa di terminare il Viaggio. 
Ma un tal comportamento, moralmente parlando, è impossibile perché, se è una persona dotata di un po’ di Spirito, devierà almeno cinquanta volte dal cammino diritto per unirsi durante il Viaggio, ora ad una compagnia ora ad un’altra, e codesto inconveniente, se così vi piace nominarlo, non potrà essere evitato. Sempre nuove vicende e nuovi avvenimenti (e non certo i soliti che la sofferta e limitata Memoria ci riserva nell’ortodossa mulattiera di codesta via…) lo solleciteranno e non potrà stare a lungo fermo a guardarli, ma, prima o poi, prenderà il volo se ancora sa volare…
Avrà inoltre
situazioni da armonizzare,
aneddoti da cogliere,
dediche da redigere,
racconti da legare assieme,
tradizioni da vagliare,
personaggi da presentare,
panegirici da affiggere alla porta,
barzellette e buffonate: tutti obblighi da cui, naturalmente, sono esclusi tanto l’uomo o l’homunculus che il suo mulo…

E, per finire, vi sono pezzi d’archivio da esaminare a ogni passo, che l’amore di giustizia ogni tanto esige che si leggano. In breve, non si arriva mai alla fine di un tal lavoro… Da parte mia, dichiaro d’aver impiegato ben sei settimane (e cercavo di fare tutto a gran velocità come i tempi moderni richiedono) per narrarvi e porre all’attenzione del prezioso palato di codesti nobil-uomini quanto avete letto sinora e, notate, non sono ancora nato: INTENDO DIRE COME PRECEDENTEMENTE ESPRESSO che ho potuto dirvi ‘quando’ ciò accadde, ma non ‘come’; lo vedete anche voi che la cosa è ben lungi dall’essere realizzata… 

















domenica 20 novembre 2016

INTERMEZZO VENATORIO: il cacciatore














































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Intermezzo venatorio (2)













Arrivai all’Albergo della Posta a Martigny verso le quattro del pomeriggio…
‘Perbacco!’ dissi al padrone posando il bastone nell’angolo del camino e aggiustandovi sopra il mio cappello di paglia ‘c’è una bella trottata da Bex fin qui!’.
‘Sei piccole leghe nostre, signore’.
‘Che son poi circa 12 leghe di Francia! E di qui a Chamonix?’.
‘Nove leghe’.
‘Grazie. Fatemi trovare una guida per domani mattina alle sei’.
‘Il signore va a piedi?’.
‘Sempre’.
Compresi che se le mie gambe crescevano nella considerazione del mio ospite, ciò avveniva certamente a spese della mia posizione sociale.
‘Il signore è artista?’ continuò l’albergatore.
‘Pressappoco’....




‘Il signore pranza?’.
‘Tutti i giorni, devotamente’.
Infatti, siccome i pranzi sono molto cari in Svizzera, e ognuno costa quattro franchi, prezzo fisso sul quale non è possibile ribattere nulla, nei miei programmi di economia avevo già da tempo tentato di rifarmi in qualche modo su quest’articolo; finché, dopo lunghe meditazioni, ero riuscito a trovare una via di mezzo tra la rigidità scrupolosa degli albergatori e la ribellione della mia coscienza: si trattava di non alzarmi da tavola se non dopo aver mangiato per un valore di almeno sei franchi; in tal modo il mio pranzo veniva a costarmi soltanto quaranta soldi.
Naturalmente, vedendomi accanito all’opera e sentendomi dire: ‘Cameriere; replica!’, l’albergatore borbottava tra i denti: ‘Ecco un inglese che parla maledettamente bene il francese’.
Si vede che l’albergatore di Martigny non era profondo nella scienza fisiognomica del suo compatriota Lavater dal momento che osava pormi questa domanda piuttosto impertinente: ‘Il signore pranza?’.
Quand’ebbe inteso la mia risposta affermativa: ‘Il signore è capitato bene oggi’  continuò ‘abbiamo ancora dell’orso’.
‘Ah! Ah!’ feci, mediocremente entusiasta dell’arrosto ‘E’ buono questo vostro arrosto?’. L’albergatore sorrise scuotendo la testa con un movimento dall’alto in basso, che poteva tradursi così: ‘Quando lo avrete assaggiato, non vorreste mangiare altro’.




‘Benone’, ripresi ‘e a che ora si pranza?’.
‘Alle cinque e mezza’.
Guardai il mio orologio; erano soltanto le quattro e dieci: ‘Bene; giusto il tempo d’andare a visitare il vecchio castello…’.
… Quando rientrai, gli altri viaggiatori erano già a tavola: gettai un’occhiata rapida e inquieta su di loro; tutte le sedie si toccavano, e tutte erano occupate; ero senza posto!... Un brivido mi passò per la schiena, e mi voltai per cercare l’albergatore. Era dietro di me. Mi parve di scoprire sulla sua faccia un’espressione mefistofelica. Sorrideva!
‘Ed io’ gli dissi ‘ed io, disgraziato!’.
‘Guardate’ mi rispose, indicandomi col dito una piccola tavola a parte, ‘guardate: ecco il vostro posto! Un uomo come voi non deve mangiare con tutta quella gente là’.
Oh il degno discendente degli Octodurii! Ed io che avevo pensato male di lui! La mia piccola tavola era apparecchiata meravigliosamente. Quattro piatti formavano la prima portata, e in mezzo troneggiava un arrosto d’un aspetto tale da far vergogna a un ‘beefsteak’ inglese!
L’albergatore vide che esso attraeva tutta la mia attenzione. Si chinò misteriosamente al mio orecchio: 
‘Solo.... 

(Prosegue...)


















martedì 15 novembre 2016

SULLE SCOGLIERE DI MARMO



















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Negli stessi anni....













.....Dalla terrazza si passava nella biblioteca per una porta a vetri.
Nelle serene ore mattutine questa porta era interamente aperta, sicché
fratello Ottone sedeva al suo ampio tavolo come se fosse in giardino.
Entravo sempre volentieri in questa camera, alla cui parete le verdi om-
bre del fogliame parevano giocare, ed il silenzio era appena interrotto
dal pigolio degli uccelli usciti da poco dal nido e dal vicino ronzio delle
api.
Presso le finestre su di un cavalletto era disposta la grande tavola da
disegno, e alle pareti si susseguivano file di libri sino al soffitto. La fi-
la inferiore era disposta in un compartimento alto, opportuno per gli
in-folio, per il grande Hortus Plantarum Mundi e per opere con allumi-
nature a mano, quali ormai più non si stampano.




Sopra quel compartimento sporgevano i ripostigli, che si potevano an-
cora ampliare mediante tavole, coperte di carte occasionali o dei fogli
ingialliti degli erbari.
Quei cassetti contenevano anche una raccolta di piante pietrificate, che
noi avevamo estratte da miniere di calce e di carbone, e fra di esse pa-
recchi cristalli, che si usano esporre come soprammobili, e che a volte
si soppesano in mano, per trastullo, nel mediato conversare.
Sopra le cassettiere si innalzavano le file di volumi di formato minore,
una raccolta di opere botaniche non molto vasta ma completa di tutto
quanto prima d'allora era apparso sulla coltivazione dei gigli. Questa
parte della biblioteca si distingueva in tre diversi rami, formati cioè
dalle opere circa la struttura, il colore e il profumo dei giglio.




Le file di libri proseguivano anche nel piccolo vestibolo e lungo le
pareti della scala, che portava all'erbario. Quivi vi erano custoditi
altri preziosi tomi.
Sovente io salivo presto nell'erbario, ove proseguivo il lavoro sin
oltre la mezzanotte. Quando ci eravamo accasati colà avevamo
fatto foderare in legno quella stanza e avevamo incassato alle pare-
ti una lunga serie di armadi: quivi, nei vari scomparti si accumula-
vano a migliaia i fasci di fogli dell'erbario.




Eravamo venuti all'Eremo con il piano di dedicarci a profondi studi
circa le piante, e cominciammo, secondo l'ordine antico nelle cose
dello spirito, degli esercizi del respiro e dall'imporci un regime nella
nutrizione.
Come tutte le cose di questa terra, anche le piante ci vogliono par-
lare, ma una mente chiara è necessaria per comprenderne il linguag-
gio. Seppure nel loro germinare fiorire e sfiorire si nasconda la falla-
cia, cui niente di ciò che fu creato si sottrae, assai bene però vi si
può intuire l'elemento immutabile racchiuso nello scrigno delle ap-
parenze.




L'arte di rendere in tal guisa acuto lo sguardo, fratello Ottone dice-
va comparabile ad una 'astrazione dal tempo': e riteneva che la pu-
ra astrazione non fosse raggiungibile al di qua della morte.
Dopo che ci fummo stabiliti nell'Eremo notammo che il nostro tema,
quasi contro il nostro volere, si andava ampliando. Forse l'aspra a-
ria dell'Eremo della Ruta dava una nuova direzione al pensiero, co-
me la fiamma arde più chiara e vibrante nel puro ossigeno.....
Il presentimento che un ordine è implicito alle cose incitava anche
noi, poiché l'uomo sente l'impulso a copiare con il suo debole spiri-
to l'opera della creazione come l'uccello nutre in sé l'istinto di costrui-
re il nido. L'intravedere misura e norma immutabile pur al caso e ai




disordini di questa terra era ricchissimo premio alle nostre fatiche.
Nell'ascesa noi ci avviciniamo al mistero che la polvere della pianu-
ra ci nasconde: fra i monti ad ogni nuovo passo il sembiante ingan-
nevole dell'orizzonte si tramuta e svanisce, ma quando infine siasi
giunti abbastanza in alto, dovunque sia, il puro anello, che è promes-
sa dall'eterno, ci attornia.
Invero un lavoro da principianti e un compitare rimaneva quello che
noi così celebravamo; eppure ne proveniva a noi una maggiore sere-
nità, come a ciascuno che non permane nell'ambito di ciò che è vol-
gare.




I giorni scorrevano, come tra sicure sponde, più agili e possenti,
quando il vento di occidente alitava, noi avevamo il presentimen-
to di una gioia senz'ombra e intera.... 
Ma in primo luogo perdemmo un poco di quell'ansia, che inquie-
ta e confonde la mente come la nebbia che sale dalle paludi. E av-
venne che non tralasciammo il lavoro neppure quando il Foresta-
ro accrebbe la sua potenza nelle nostre regioni e quando lo spa-
vento si diffuse attorno a noi.
Noi conoscevamo il Forestaro da tempo, quale antico signore del-
la Mauretania. Lo avevamo di frequente veduto nei Convegni e a-
vevamo trascorso più notti giocando mangiando e bevendo in sua
compagnia.




Egli era di quelle figure che presso i Mauretani sono considerate
a un tempo come grandi signori e un poco scherzosamente, al mo-
do come al reggimento si accoglie un vecchio colonnello di cavalle-
ria della riserva, che di quando in quando se ne viene dalle sue ....
Terre. La sua ricchezza era ritenuta enorme, e nelle feste che dava
nella sua casa di città regnava l'abbondanza.
Ma i primi segni del male non attardarono a manifestarsi. Quando
dalla Campagna giunsero le voci dei tumulti si pensò a un acuirsi di
vecchi contrasti causati, da vendette familiari; ma ben presto si sep-
pe ch'esse assumevano aspetto nuovo, inusato e ben più cupo.




Il primitivo senso d'onore, che aveva dato legge alla violenza, andò
smarrito, e rimase il puro misfatto, senza apparente ragione. Sem-
brava che agenti e spie, venuti dalle foreste, fossero entrati a far
parte delle fazioni per impadronirsene a scopi estranei.
In questo modo le vecchie forme persero ogni loro senso.
Un tempo, se avveniva di trovare a un bivio un cadavere con la lin-
gua forata dal pugnale, non vi era dubbio che un traditore ivi era
caduto, vittima dei vendicatori lanciati sulle sue tracce.
Dopo la guerra invece si poteva bensì inciampare ancora in cadave-
ri che portavano tale segno, ma ciascuno ormai sapeva trattarsi di
un semplice misfatto.




Sovente la plebaglia, sotto la guida di gente venuta dai boschi, era
solita presentarsi la notte alle fattorie, e se le si rifiutava l'ingresso,
le porte venivan forzate con la violenza.
Queste bande eran dette dei 'Vermi del fuoco', perché usavano as-
salire le case con travi e puntoni, cui erano legate faci ardenti. In
molti caddero sotto le forche di codesti assassini....

(E. Junger; Libro consigliato:
 Ernst Junger, Sulle scogliere di marmo)















lunedì 14 novembre 2016

NOI ASCOLTAVAMO... DJANGO (.....pronto Roger mi senti....?)


















Per i 'giganti......

Django 1

Django 2

Django 3

Django 4

Django 5

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Negli stessi anni...














La moda dei cabaret russi (e non) sarebbe incontestabilmente diventata uno
dei fenomeni più salienti delle folli notti di Parigi.
Queste 'notti da principi', evocate così bene nel 1927 dallo scrittore Joseph
Kessel in un'opera sulla vita intensa propria al carattere degli emigrati russi
di allora; figure quasi mitiche di un mondo notturno oggi scomparso, ufficiali
della guardia imperiale diventati fattorini di grandi alberghi o conducenti di
taxi, aristocratici rovinati o principi decaduti (dai titoli abbastanza sospetti)
promossi maitre d'hotel o cantanti.




Notti bianche per russi 'al verde', ma dove ricchissimi festaioli affiancati da
mondane d'alto bordo e da spendaccioni, se non da celebrità cui mancava
 il pittoresco, spendevano delle fortune ubriacandosi di champagne e di
vodka.
E tutto ciò in un vortice sfrenato di balli caucasici, di violini e zimbalon tziga-
ni, di colori e balalaiche rom, senza beninteso dimenticare le chitarre manou-
che e gitane che stranamente s'integrano al folclore slavo a tal punto da diven-
tare gli elementi familiari e quasi obbligatori dei cabaret (russi) di Parigi.




In realtà fin dalla fine del XIX secolo, una prima ondata di musicisti tzigani
aveva già soggiornato a Parigi in occasione di varie manifestazioni ufficiali.
Ma la maggior parte si trattava di orchestre a corda ungheresi, la cui musica,
ardente e languida che fosse, avrebbe furoreggiato nelle birrerie del Secondo
Impero prima di conquistare i caffè-concerto della belle époque.
Secondo F. de Vaux de Foletier, benché un gruppo ungherese, detto gli Zin-
gari, si fosse già esibito a Parigi nel 1840 nel sensazionale costume magiaro -
pantaloni a sbuffo e stivali con speroni - tanto nei teatri quanto nei palazzi pri-




vati, la comparsa massiccia dei musicisti tzigani avvenne solo alla fine di Napo-
leone III; risultato, senza dubbio, della vasta migrazione scatenata dall'affran-
camento progressivo (che terminò nel 1856) degli tzigani moldavi che, lo dimen-
tichiamo troppo spesso, erano schiavi fin dal XIV secolo (non solo dei re e dei
boiardi ma anche del clero e dei monasteri).
Dopotutto il termine 'schiavo' viene dal latino slavus che significa 'slavo'.
L'arrivo in Francia dei primi tzigani transilvanici si situa generalmente verso il....
1866. Ora, il cronista parigino Alexandre Privat d'Anglemont, gironzolone impe-
nitente, rievoca in un'opera del 1854: "Un vecchio dal colorito scuro, dall'occhio
fulvo, dagli stracci picareschi che raschia con un pezzo di piuma uno strano man-
dolino (il guzla).




E' uno tzigano di Valacchia, un bohémien come diciamo noi, nato a Bucarest e
al servizio di un qualunque boiardo. Il suo signore, avendo studiato Parigi, ritor-
nò nel suo paese con delle idee francesi e si affrettò ad affrancare la sua gente;
ma cos'è la libertà per uno tzigano di Valacchia o per un nero d'America se non
il diritto a non fare nulla?
Si mettono a passeggiare, a suonare la guzla, a ballare tutto il giorno....
E un mattino il nostro uomo prese la sua guzla sottobraccio, caricò in spalla ciò
che poté e partì nella grazia di Dio senza sapere dove andare. Dirvi come percor-
se le 600 leghe che separano Parigi dalla Valacchia sarebbe un'odissea.





Finalmente arrivò.
La sera del suo arrivo, credendosi ancora nelle pianure della Romania, si addor-
mentò senza cena sulla panchina che trovò. Passò una pattuglia; lo interrogaro-
no insieme alla sua compagna di viaggio, una giovane e bella gipsy portata dal-
la Germania.
L'interprete del luogo disse loro che se richiedevano la medaglia che consentiva
di essere cantanti ambulanti, li avrebbero rilasciati. L'indomani cominciarono dun-
que il loro nuovo mestiere. La donna era giovane e bella e chiedeva l'elemosina.
Si è sempre generosi con una bella donna.




L'uomo divertiva facendo le smorfie e suonando il suo strumento sconosciuto.
Parigi portò loro fortuna e oggi sono diventati benestanti".
E Privat d'Anglemont aggiunge: "Se gli si chiede del suo mestiere di chiedere
l'elemosina: 'Cosa intende per chiedere l'elemosina?', risponde il nostro uomo
drappeggiandosi nei suoi stracci. 'Sono un musicista, pagano il mio talento, Pa-
ganini chiedeva forse l'elemosina quando si esibiva in concerto?' ". 
Quattordici anni dopo la sua morte (1840), il prestigio del leggendario violini-
sta italiano restava ancora vivo presso i bohémien dell'epoca. Dopotutto diceva
Paganini - oltre a essere Satana in persona 'le cui grinfie maledette scorrevano
l'archetto sullo strumento incantato' - doveva il suo virtuosismo prodigioso a cer-
ti segreti che gli furono rivelati da misteriosi musicisti ....tzigani.....

(F. Billard/ A. Antonietto, Django Reinhardt)