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Diritto & Democrazia (23/4)
Prosegue con...:
l'uomo che sapeva
troppo [26]
& con l'uomo che sapeva
troppo poco [27]
In quei tempi di Guerra Fredda e caccia alle
streghe imperversava un duplice sospetto. Da un lato l’FBI, galvanizzato dalle
requisitorie del senatore Joseph McCarthy, sospettava che dietro ogni cittadino
americano si nascondesse un comunista, sebbene, per ammissione dello stesso
Edgar Hoover, in tutto il paese gli iscritti al Partito non fossero più di
venticinquemila, contando anche gli agenti federali infiltrati, che erano
all’incirca uno su sei.
Dall’altro lato i cittadini americani non necessariamente
comunisti, ma su cui potevano gravare dei sospetti, sospettavano a loro volta i
propri vicini di essere dei poliziotti che sospettavano di loro, o come minimo
delle spie pronte a denunciarli. Gli esseri malvagi che, nell’Invasione degli
ultracorpi e in decine di storie simili, si insinuavano fra gli uomini potevano
quindi simboleggiare tanto gli agenti di Mosca, quanto quelli dell’FBI
incaricati di braccarli: le intenzioni degli autori contavano meno delle disposizioni
ricettive del pubblico.
Ognuno, in maniera più o meno cosciente, tendeva a
identificare, nei lineamenti immutati e terribilmente familiari del proprio
vicino, il suo nemico: un rosso schifoso per il fattore del Midwest, un poliziotto
di merda per il cittadino di Berkeley. Dagli anni Trenta Berkeley era diventata
la capitale rossa degli Stati Uniti. Non solo perché ospitava un nucleo di ‘veri’
comunisti, iscritti al Partito, ma perché tutti lì erano in un certo senso
simpatizzanti e utilizzavano un gergo ispirato al marxismo in cui il termine ‘capitalista’
era sinonimo di ‘fascista’ e veniva affibbiato a chiunque avesse anche solo un
minimo rapporto con l’autorità costituita o addirittura a chiunque portasse la
cravatta.
Dick era cresciuto in quell’ambiente.
La sua baby-sitter, una certa Olive Holt, non si
stancava mai di contrapporre la bella vita dei lavoratori dell’Unione Sovietica
alle misere condizioni del proletariato americano, che ingrassava i vampiri di
Wall Street con il suo sudore e il suo sangue. Sua madre, pur senza mai
arrivare a iscriversi al Partito, approvava quei discorsi. Sua moglie ne teneva
di molto simili con voce squillante e a volte, dopo i corsi di scienze politiche,
partecipava ad assemblee di cui poi ripeteva gli slogan.
Dick invece non aveva molta simpatia per il comunismo
e, agli occhi degli amici che Kleo invitava a casa, appariva un emerito
reazionario. Dalle sue letture, in particolare da Orwell e da Hannah Arendt,
aveva tratto una filosofia politica che respingeva in blocco comunismo e fascismo,
rifiutando al primo il riconoscimento delle buone intenzioni e considerando
solo i risultati, vale a dire l’instaurazione di un regime totalitario.
Un giorno, discutendo con un comunista, aveva
trovato esasperanti il suo dogmatismo e la sua chiusura mentale. Questo però non
gli impediva di ammirare i grandi rivoluzionari, di schierarsi istintivamente
dalla parte dei perseguitati e, pur senza amare l’Unione Sovietica, di
disprezzare i borghesi che ne erano terrorizzati. Quindi era abbastanza in
sintonia con le persone del posto, che erano di idee ‘radicali’, ovvero,
secondo la definizione straordinariamente precisa dell’FBI, ‘positivamente
orientati verso gruppi e persone a loro volta positivamente orientati verso il
comunismo’.
Alle persone così orientate non erano sfuggiti i
brillanti esordi del senatore repubblicano della California, Richard Nixon, che
aveva cominciato a farsi conoscere verso la fine degli anni Quaranta
nell’Orange County. Quella zona spaventosamente reazionaria, situata quasi
mille chilometri più a sud, rappresentava per Berkeley una specie di antimondo,
un po’ come il dipartimento del Var, popolato da pensionati che votano per il
Fronte nazionale, potrebbe essere visto da una comunità di sessantottini
dell’Ardèche. Nixon ne era il tipico rappresentante, uno zotico infido con il
mento mal rasato e i capelli impomatati, che si faceva fotografare davanti alla
sua collezione di armi da fuoco con in testa un cappello Stetson.
Il problema di sapere se da un tipo del genere
qualcuno avrebbe mai comprato un’auto usata non era stato ancora posto
esplicitamente, ma cominciava già a circolare il soprannome ‘Tricky Dick’, Dick
l’Imbroglione, e fin da allora, quando le carriere di entrambi erano agli
inizi, il Dick di cui parlo vedeva nell’altro un nemico personale. La ‘Berkeley
Gazette’ lo descriveva come un uomo dalle dita pelose, che era stato eletto
solo grazie a una feroce campagna di diffamazione contro la sua rivale
democratica, accusata di essere lesbica e ‘rossa fino alle mutande’.
Nessuno si sorprese quando il senatore Nixon,
nominato membro della Commissione per le attività antiamericane, si distinse
per il suo zelo. In confronto a lui McCarthy era solo un gran chiacchierone e il
Congresso non ebbe problemi a metterlo a tacere appena cominciò ad averne
abbastanza. Ma non era facile mettere a tacere Nixon: lui non sbraitava a
destra e a manca, faceva le sue mosse a tradimento. Nel 1952, quando Phil Dick vendeva i primi racconti, Tricky Dick, candidato
in ticket con Eisenhower, era diventato vicepresidente degli Stati Uniti. L’epoca
in cui le baby-sitter potevano dichiararsi apertamente comuniste era bell’e finita.
Nell’inverno del
1955, un giorno che Dick era solo in casa e stava ascoltando una sinfonia
di Beethoven, si presentarono due tizi, che in un primo momento lui prese per
venditori porta a porta. Uno era alto e grasso, l’altro basso e magro, e il
contrasto era accentuato dalla loro tenuta identica. Portavano entrambi un
abito grigio a tre pezzi, un cappello di feltro e delle scarpe nere lucide,
come Gli intoccabili della serie televisiva, i cui primi episodi sarebbero
stati trasmessi di lì a poco, e anche come suo padre, che nel frattempo era
diventato terribilmente chiuso, rigido e conservatore e che Phil non vedeva più
da anni: per l’esattezza dall’epoca di Hiroshima, perché Edgar trovava
inammissibile che suo figlio disapprovasse quell’energico avvertimento lanciato
contro i musi gialli.
I due tizi non avevano niente da vendere. Gli
mostrarono i tesserini dell’FBI, e Dick, per sembrare disinvolto, volle raccontare
una barzelletta. L’aveva letta sul ‘New Yorker’, nella rubrica ‘Chiacchiere in
città’: due agenti dell’FBI interrogano il vicino di un individuo sospetto; il vicino
riferisce che il tipo ascolta spesso delle sinfonie.
‘Sinfonie, ma guarda!’
…dicono gli agenti.
‘E in che lingua?’.
Benché fosse una storiella semplicissima, Dick s’impappinò
nel raccontarla. Come gli capitava sempre quando era turbato, la voce prese un
tono acuto, tornando al falsetto dell’adolescenza. I due agenti, che erano
rimasti sulla soglia, non sorrisero nemmeno. ‘Di sicuro non erano del nostro
ufficio’ commentò uno dei due. Entrati in casa notarono la macchina da scrivere
e il giradischi, che Dick spense con un gesto nervoso. Disapprovavano
visibilmente il comportamento di quel tipo alto, che alle undici di mattina, in
maniche di camicia, con la barba non fatta, ciondolava per casa, invece di
andare a lavorare come tutti in un ufficio, in una fabbrica o in un negozio.
Il più robusto dei due gli chiese che cosa scrivesse
esattamente, e la sua risposta lo divertì: storie di marziani, di omini verdi,
quella roba che piace tanto ai ragazzi; naturalmente il tizio non ne leggeva mai,
ma aveva capito il genere... Il suo sorrisetto tradiva un disprezzo a cui Dick era
abituato, ma che lo offese in modo particolare da parte di un simile interlocutore.
Per un attimo aveva immaginato che si interessassero a lui proprio in quanto
scrittore di fantascienza. In quel caso i loro sospetti gli sarebbero sembrati
logici: se fosse stato un agente dell’FBI, lui ne avrebbe avuti.
Un autore di fantascienza si rivolge al grande
pubblico, a persone prive di cultura, che non leggono nient’altro e che di
conseguenza sono facilmente manipolabili; è nella posizione ideale per traviare
le loro menti, proprio come un ingegnere idraulico per avvelenare la riserva di
acqua potabile di una grande città. Senza considerare che, credendo di seguire
la propria immaginazione, potrebbe benissimo scoprire e svelare segreti tecnologici
d’importanza capitale per la difesa del paese.
Sì, se fosse stato un ‘cacciatore di streghe’, Dick
non si sarebbe preoccupato dei raffinati scrittori della costa orientale o dei
registi ostentatamente rossi di Hollywood, che forse servivano soltanto a
sviare l’attenzione; non si sarebbe lanciato su quelle false piste, ma avrebbe sorvegliato
giorno e notte i veri manipolatori dell’opinione pubblica, quelli che la
producono alla fonte attraverso questa letteratura proletaria e puerile che
tutti fanno mostra di disprezzare.
‘Lei è impegnato in attività politiche, signor
Dick?’
….gli chiese l’agente grasso.
Lui rispose di no, ed era la verità.
Non aveva mai militato in nessun gruppo, mai
votato, e l’unica cosa che nella sua vita poteva essere considerata in un certo
senso sovversiva era la passione per Dostoevskij e per il Boris Godunov, di cui
possedeva due registrazioni.
‘Sua moglie però’
…riprese l’agente grasso
‘appartiene alla sezione studentesca del Partito
socialista dei lavoratori. Le parla mai delle riunioni a cui partecipa?’.
‘No. Sa che non m’interessano’.
‘Però, se lei si mostrasse interessato,
probabilmente gliene parlerebbe. Non pensa che potrebbe essere una buona idea?’.
Dick stentava a credere che gli stessero proponendo
così apertamente di spiare sua moglie. Era inverosimile: forse aveva a che fare
con falsi agenti dell’FBI. Perché rivolgersi a lui quando tutti sapevano che il
Partito socialista dei lavoratori e tutti gli altri partitini di sinistra erano
pieni di informatori?
E poi, pure ammettendo che per qualche motivo
avessero bisogno di lui, avrebbero dovuto ricorrere a lunghe e astute manovre
di avvicinamento, tendergli una trappola e dargli l’aut aut solo dopo averlo messo
con le spalle al muro. Ma forse la trappola c’era, ed era lui che non riusciva a
vederla. Non conoscendo le loro reali intenzioni, assunse un’aria ottusa e rispose
di no, che la cosa non gli interessava. Sembrava non interessare molto neanche
all’agente magro e silenzioso, che in piedi dietro la scrivania leggeva senza tanti
complimenti il foglio inserito nel carrello della macchina da scrivere.
Il collega grasso volle allora sapere se Dick aveva
qualche simpatia per il Partito comunista. Dal punto di vista ideologico non ne
aveva per niente, ma ancora una volta gli sfuggiva il senso della domanda. Dal momento
che essere comunista era proibito, che risposta potevano aspettarsi da lui? A
un tratto gli tornò in mente quella che una celebre spia inglese aveva dato a
una domanda simile. Phil aveva apprezzato l’eleganza della battuta e aspettava
da tempo l’occasione giusta per riproporla.
‘No’,
…disse
‘non ho simpatia per il Partito comunista. Ma lei
sa perfettamente che se ne avessi le risponderei la stessa cosa’.
Per quanto veritiera fosse, la risposta sembrò
lasciare interdetti i due uomini, che si guardarono l’un l’altro e poi si
congedarono annunciando che sarebbero tornati un altro giorno. Rimasto solo,
Phil si chiese se fosse riuscito a levarsi di torno con l’astuzia quei due
imbecilli o se al contrario fosse cascato in pieno in un astuto tranello. In quello
stato d’animo cogitabondo gli tornò in mente una frase che aveva sottolineato
in un libro di Bertolt Brecht, scrittore notoriamente comunista, nonché autore
preferito di sua moglie: ‘Rideva perché i suoi nemici non riuscivano a
colpirlo; ma non sapeva che si stavano esercitando a sbagliare mira’.
Sulle prime Kleo prese la faccenda molto sul serio,
cioè si mise a gridare ai quattro venti che gli Stati Uniti erano diventati un
paese fascista. Ma un po’ alla volta si calmò. Per qualche tempo George Smith e
George Scruggs – così si chiamavano i due – andarono a trovarli una volta alla settimana.
Smith, quello grasso, faceva domande, parlava del più e del meno, mentre
Scruggs, quello magro, badava discretamente ai fatti propri, come se, non
avendo niente di meglio da fare, avesse accompagnato l’amico a un appuntamento
che non lo riguardava. Kleo ne dedusse che era il più pericoloso dei due, ma
senza mai trovare prove a sostegno di quell’impressione. Uscendo lasciavano
alla coppia dei questionari, che ritiravano, compilati, la volta successiva. Li
presentavano come sondaggi d’opinione, ma era chiaro che si trattava di test
finalizzati a stabilire il grado di correttezza della convinzioni di ciascuno.
Ciò che risultava sconcertante in quei test, come
nel comportamento dei due George, era la difficoltà nel capire quanto andassero
presi sul serio. Le domande ricordavano quelle che ti fa l’Ufficio immigrazione
quando entri nel paese: ‘Lei è tossicodipendente? Terrorista? Ha intenzione di
assassinare il presidente degli Stati Uniti?’. Più i quesiti sembravano stupidi
e le risposte da dare evidenti, più era probabile, secondo Dick, che celassero
un trabocchetto, come nella scala K2 del Minnesota Multiphasic, la cosiddetta ‘scala
della menzogna’.
Per esempio, bisognava scegliere fra questi tre
enunciati:
‘La Russia’
1) si sta indebolendo;
2) si sta rafforzando;
3) resta più o meno allo stesso livello del mondo
libero’.
Naturalmente era meglio barrare la casella 2, per mostrare
di condividere la preoccupazione delle autorità di fronte alla crescente
potenza della Russia e la convinzione che il mondo libero dovesse perennemente
raddoppiare le sue spese militari.
Questa prima domanda, però, era resa sospetta da
una successiva:
‘La tecnologia russa è’
1) molto buona;
2) media;
3) tipicamente inadeguata.
La scelta della casella 1 sarebbe suonata come un complimento
ai comunisti. La risposta 2 sembrava la migliore e probabilmente era anche la
più vicina alla verità. D’altro canto la 3 era formulata in modo tale che
qualsiasi cittadino benpensante l’avrebbe scelta senza un attimo di esitazione:
dopotutto che cosa ci si poteva aspettare da quei rozzi slavi asserviti se non
una tecnologia inadeguata? Ma, se era così, come avrebbe fatto una nazione tecnologicamente
inadeguata a rafforzarsi di continuo?
Per fortuna c’erano domande in cui la risposta era
sottintesa:
‘Il maggior nemico del mondo libero è’
1) la Russia;
2) il nostro elevato tenore di vita;
3) gli infiltrati nascosti in mezzo a noi.
‘D’accordo’, disse Kleo ‘barriamo la 3’.
Ma, se capisco bene quello che intendono, mi sa che
gli infiltrati nascosti in mezzo a noi siamo proprio noi! Ridevano, giocavano a
mettersi paura a vicenda. Sapevano di essere pesci piccoli. Con il passare del
tempo George Scruggs cominciò a presentarsi a casa loro da solo o con Merton,
il suo bracco tedesco. I Dick si chiesero se quel cambiamento preannunciasse
nuove manovre o fosse semplicemente un segnale di allentamento della
sorveglianza. Finché non venne fuori che a George il Magro, che abitava da
quelle parti, faceva piacere, andando in ufficio, fermarsi un po’ a chiacchierare
con loro. Le sue visite non avevano più granché di minaccioso. A differenza del
suo incolto e sprezzante collega, George Scruggs sembrava impressionato dal
fatto di conoscere uno scrittore.
Voleva sapere da dove prendeva le idee e lesse
anche un suo libro. Phil era lusingato da quell’interessamento. Pur sospettando
che l’agente federale cercasse di conquistarsi la sua fiducia solo per incastrarlo
più facilmente, finì per stringere con lui una specie di legame di amicizia.
Quando venne a sapere che Phil non sapeva guidare, George si offrì di dargli lezioni.
Quell’uomo minuto aveva una macchina piccola come lui: Phil doveva contorcersi
per farci entrare le sue lunghe gambe. Tutte le domeniche mattina, intrappolato
fra il sedile e il volante, passava un paio d’ore a parlare con l’agente,
scoprendo a poco a poco il piacere della manipolazione.
Sotto la crosta delle certezze categoriche indispensabili
alla sua professione, in George Scruggs c’era un fondo di onestà e di buonafede
che ne faceva la vittima ideale di un sofista. Era disposto a riflettere sulle
cose più di quanto richiedesse il suo mestiere, e Phil ne approfittava per
fargli accettare, sotto l’apparenza dello scherzo, della fantasia o della
semplice argomentazione logica, idee francamente sovversive. Un giorno, mentre
giravano attorno all’isolato con il motore al minimo, l’allievo interrogò il
suo istruttore a proposito dei dossier che sicuramente l’FBI aveva su di lui e su
Kleo. Imbarazzato, George Scruggs alzò
le spalle e borbottò qualche vaga parola.
‘Dica la verità’,
…insisté Dick
‘lei crede ancora che mia moglie sia comunista’.
‘Frequenta le assemblee del Partito socialista dei lavoratori,
e il Partito socialista dei lavoratori è un’appendice occulta del Partito
comunista. Ha firmato l’appello di Stoccolma. Mi dispiace, ma i fatti parlano chiaro’.
‘A chi vuole darla a bere!’
…disse Phil strizzando l’occhio.
‘Partecipa alle assemblee, scandisce slogan di
sinistra, firma petizioni. Questo dimostra una sola cosa, e lei lo sa meglio di
me: che, per l’appunto, non è comunista. Se lo fosse, sarebbe più prudente’.
‘D’accordo’
…disse George Scruggs (e questa semplice concessione
attestava l’avvenuto irretimento: George Smith non si sarebbe mai detto
d’accordo con Phil).
‘Ma allora come dovremmo riconoscerli i comunisti?
Se non partecipano alle assemblee, non scandiscono slogan e non firmano
petizioni?’.
‘Be’, proprio dal fatto che non fanno niente di
tutto questo. Del resto lo sapete già: fingete di sorvegliare gli innocui
simpatizzanti come mia moglie, ma quelli che vi interessano veramente sono i
tipi che non si fanno notare. O quelli che sbraitano di più contro i comunisti.
Non sono così ingenuo’.
George Scruggs si grattò la testa. Phil aveva
capito che era facile confonderlo attribuendogli retro-pensieri machiavellici.
Quel sospetto gli insinuava il dubbio che avrebbe dovuto averne davvero.
‘Però’
…protestò debolmente
‘dobbiamo pur basarci su qualche indizio, su quello
che la gente fa. Altrimenti come potremmo sapere che cosa gli passa per la
testa?’.
‘Ma via, George, non penserai che sono nato ieri?’.
George era sempre più nervoso. Senza capire quando
e come fosse accaduto, aveva l’impressione che lui e il suo interlocutore
avessero invertito i ruoli. Non si sarebbe stupito più di tanto se Phil gli
avesse rivelato di essere a sua volta un agente dell’FBI, un suo superiore
camuffato da scrittore miserabile e trasandato.
‘Stando alla sua logica, in questo paese sarebbero
tutti pericolosi...’.
‘E chi dice che non sia così?’.
‘La smetta... Se tanto mi dà tanto, anche Nixon è
un rosso’.
Negli occhi azzurri di Phil balenò un lampo di
sarcasmo. Sorrise.
‘George, si ricordi che questo non l’ho detto io’.
Questa conversazione gli diede da riflettere,
soprattutto l’osservazione sconsolata dell’uomo dell’FBI sulla difficoltà di
sapere che cosa passa per la testa alla gente. Si chiese che effetto gli
avrebbe fatto ritrovarsi nella testa di qualcuno così diverso da lui come
George Scruggs, o, peggio ancora, come George Smith, o come suo padre, o come
Richard Nixon. Per un po’ giocò con l’idea, poi accantonata, di scambiare il
suo cervello con quello di Nixon, almeno per la durata di un romanzo: un bel
giorno Phil Dick si sarebbe svegliato nei panni del senatore della California,
e quest’ultimo in quelli di uno scrittorucolo di Berkeley. Magari ne sarebbe venuta
fuori una buona storia, carica di sviluppi, ma non era questo che interessava a
Dick.
In un manuale di filosofia aveva scoperto la
distinzione fra l’idios kosmos, la particolare visione del mondo che ciascuno
di noi ha in testa, e il koinos kosmos, ovvero ciò che s’intende come mondo oggettivo.
Quando parliamo della ‘realtà’, per comodità
ci riferiamo al koinos kosmos, ma il koinos kosmos, propriamente parlando, non
esiste: la sua percezione deriva da una convenzione che gli uomini stipulano
pur di avere un terreno stabile su cui costruire le loro relazioni; è una sorta
di finzione diplomatica, il minimo comune denominatore fra il mio idios kosmos
e quello dei miei vicini – sempre ammesso che i miei vicini esistano davvero e
che io non sia solo al mondo, come vorrebbe l’idealismo più intransigente.
Di fatto, Dick non pensava di scambiare il proprio
idios kosmos con quello di un altro, rischiando oltretutto di non accorgersi di
nulla, perché a quel punto non sarebbe stato più se stesso, ma quell’altro.
L’idea era semmai di visitare l’idios kosmos di un altro senza spogliarsi del
proprio, di viaggiarvi all’interno come in un paese straniero. Aveva solo
bisogno di un espediente per rendere possibile il viaggio, e il genere
letterario in cui era specializzato aveva perlomeno il vantaggio di fornirne a
bizzeffe.
La sera stessa batté a macchina queste righe, che
sono un eloquente concentrato di ciò che nei libri di fantascienza induce gran parte
del pubblico colto a interrompere la lettura prima ancora di arrivare alla
seconda pagina:
‘Il 2 ottobre 1959 [era il 1956, quindi si trattava
di un futuro vicinissimo] il deflettore di raggi protonici del bevatrone di
Belmont ebbe un’avaria: un fascio da sei miliardi di volt si irradiò verso il
soffitto della sala, riducendo tutto in cenere al suo passaggio, e in
particolare una piattaforma di osservazione su cui si trovavano otto persone
che caddero sul pavimento, dove giacquero ferite e in stato di incoscienza fino
a quando il campo magnetico non fu disattivato e le radiazioni almeno in parte neutralizzate’.
Nel paragrafo successivo le otto persone coinvolte nell’incidente
riprendono conoscenza: alcune vengono portate in ospedale, mentre le altre,
quelle ferite in modo più lieve, tornano a casa loro. Tutto sembra rientrato nell’ordine,
se non fosse per certi piccoli particolari apparentemente trascurabili, che
lasciano una sensazione di inquietudine. Con il passare del tempo questi
particolari cominciano a diventare meno trascurabili: una bestemmia attira
sulla testa di chi l’ha pronunciata uno sciame di locuste; una preghiera
mormorata distrattamente viene subito esaudita.
Presto i sopravvissuti non possono più nascondere a
se stessi di essere finiti, Dio solo sa come, in un mondo impazzito in cui le
più grossolane superstizioni hanno l’autorità oggettiva che nel ‘vero’ mondo è
riservata alle leggi della fisica, la preghiera prende il posto della tecnica e
chiunque faccia un passo falso viene fulminato all’istante: in breve,
l’universo mentale di un predicatore pazzo. E in effetti è pressappoco così: i
personaggi capiscono che in realtà si trovano ancora nel bevatrone, svenuti; ma
l’energia liberata durante l’incidente ha trasformato il mondo personale di uno
di loro, probabilmente quello più vicino a riprendere i sensi, in un universo
mentale collettivo in cui gli altri sono rimasti intrappolati.
E come dice il protagonista sconvolto:
‘Siamo soggetti alla logica di un fanatico
religioso che mischia islamismo e cristianesimo medioevale, un vecchio che
nella Chicago degli anni Trenta ha aderito a un culto di svitati. Siamo dentro
la sua testa’.
Dick si divertì molto a ritrarre questo universo
delirante. Ma non aveva intenzione di restarci per tutto il libro: aveva messo
otto persone nel bevatrone proprio per visitare l’idios kosmos di ognuno di loro.
Dal fondamentalismo religioso di un veterano di guerra che ricordava suo padre,
si passa all’utopia puritana di una gentile signora piena di buoni sentimenti,
che, come sua madre, ama l’arte, la bellezza, la purezza, e come lei detesta il
disordine, il sesso, la vita organica ed è convinta che sia possibile separare
il bene dal male, vale a dire eliminare il male: e così, nell’abolire i mali
del mondo, non fa sparire solo singoli oggetti, ma intere categorie: i clacson,
i netturbini che svuotano rumorosamente i bidoni della spazzatura, i venditori
porta a porta, la carne, la povertà, gli organi sessuali, l’asma,
l’ubriachezza, la sporcizia, la Russia, la musica dodecafonica...
Migliorato in tal modo, per sottrazione sempre più frenetica
degli elementi da lei ritenuti indesiderabili, il mondo della dama di carità si
autodissolve e cede il posto a quello, ancora più temibile, di una giovane paranoica.
Un mondo gelido, infido, ineccepibilmente normale, eppure pieno di minacce. Un
mondo in cui tutto ha un significato, fa parte di un complotto. Tutto è ostile,
pericoloso, ingannevole, anche gli oggetti. I personaggi, in balìa di questa mente
malata, cadono nel panico. Ogni mondo è peggiore del precedente.
Come sarà il prossimo, se ce ne sarà uno?
Tre di loro, che sembravano del tutto inoffensivi –
un vecchio militare mezzo rimbambito, una pia donna, una segretaria un po’
inibita –, si sono rivelati un fanatico religioso, una puritana monomaniaca,
una psicotica.
Quali abissi nascondono gli altri?
Peggio ancora, si chiedono i più intelligenti, quale
abisso ciascuno porta dentro di sé?
Che genere di incubo sarebbe il proprio universo
per gli altri, se fossero costretti a viverci?
Nelle prime pagine del romanzo Dick si era
soffermato a presentare, fra i visitatori del bevatrone, una coppia. La moglie,
Marsha, è sospettata di comunismo. Giura al marito che l’accusa è infondata, ma
lui comincia ad avere dei dubbi. Tanto più che il gruppo cambia di nuovo mondo
– dopo la fine della paranoica, divorata, come voleva la sua logica, da due dei
loro compagni trasformati in giganteschi insetti – e si ritrova in quello di un
militante comunista.
Per scrivere questo capitolo Dick richiamò alla
mente i racconti di Olive Holt e le parole dell’esasperante amico di Kleo, per poi
attingervi ampiamente e con grande diletto: capitalisti con le mani sporche di
sangue, milizie fasciste, neri linciati a ogni angolo di strada, città popolate
di gangster, barboni affamati che frugano nell’immondizia – ecco l’America secondo
l’ortodossia comunista.
Ma chi è il comunista ortodosso?
Da quale membro del gruppo proviene questa visione
al tempo stesso terribile e grottesca?
Naturalmente tutti i sospetti si appuntano su Marsha,
già denunciata all’inizio del libro dal responsabile della sicurezza del
bevatrone. E, benché lei neghi, perfino il marito comincia suo malgrado a
crederci, a credere che Marsha gli abbia sempre mentito. Su questo punto Dick
stava esagerando: le divergenze politiche tra lui e Kleo non avevano mai preso
una piega così drammatica. Ma voleva a tutti i costi che l’identificazione del
comunista fosse il momento clou del libro.
Mentre batteva a macchina l’ultimo capitolo, appena
due settimane dopo aver cominciato, immaginava il momento in cui George Scruggs
lo avrebbe letto: avrebbe intuito in anticipo il colpo di scena finale?
Avrebbe sospettato che il comunista nascosto nel gruppo
non era la generosa attivista di sinistra, ma il viscido responsabile della sicurezza,
il tirapiedi del grande capitale che si fingeva ossessionato dai rossi, il
supremo cacciatore di streghe?
(M. Carrère)