Con Precedenti
PROSEGUE CON...:
All’Eterno Ritorno dell’Uguale cui ci sta abituando
la nuova “destra di governo” mancava solo lui, Denis
Verdini.
Il mefistofelico Macellaio di Campi Bisenzio, icona del tardo-berlusconismo. Prima grossista di
carni, poi parlamentare azzurro, editore e persino banchiere. Prima
plenipotenziario di tutte le P3 e P4 nella Terra di Mezzo tra politica e
affari, poi depositario delle firme del Cavaliere e del Royal Baby Renzi sul Patto
del Nazareno.
Tutto torna, nell’ennesima inchiesta in cui è indagato lui, e per la quale è agli arresti domiciliari suo figlio Tommaso. Tornano gli appalti dell’Anas, la solita mucca da mungere tra mazzette di Prandini e Citaristi negli Anni ’90 e gare truccate della Dama Nera negli Anni 2000. Tornano gli impresari, pronti a pagare pur di “entrare nel giro”. Tornano i funzionari delle società pubbliche, pronti a tutto pur di ottenere promozioni e prebende.
Torna il vecchio leone toscano mai domo, il centro del “Sistema” capace di farlo girare sempre in nome delle amicizie e delle parentele, dei soldi e del potere. E tornano anche le intercettazioni, grazie alle quali si svelano le corruzioni, le trame segrete, gli incontri della gang con il sottosegretario leghista Freni, e si possono leggere frasi come “guarda caso arrivano dopo che Salvini si è insediato, che tempistica ragazzi!”.
Non si scompongano le anime pie riverginate dalla
Dottrina di Arcore: qui nessuno grida “dimissioni”, data l’inutilità
del rito e la sordità degli interessati. Ma il nuovo scandalo, che coinvolge il
noto quasi-suocero pregiudicato, almeno qualche imbarazzo dovrà pur crearlo
all’illustre quasi-genero vicepremier (considerato dai soci della cricca un
“referente”, senz’altro a sua insaputa).
Possibile che di questa torbida connection non sia mai uscita una sola parola, nelle allegre serate verdiniane trascorse da Matteo e Francesca ai tavoli di Pastation, il ristorante romano gestito proprio da Tommaso?
…E in ogni caso, da ministro competente delle Infrastrutture, non sarebbe
doveroso che riferisse al Parlamento ciò che sa di un’indagine su una delle più
grandi stazioni appaltanti del suo dicastero e del Paese?
Lo sarebbe, certamente.
Ma come fa ogni volta che vede la malparata, il
condottiero del Carroccio latita, fischietta, parla d’altro. Di calcio,
addirittura, pur di evitare quel cognome che inizia con la V. La realtà è che
le tre destre oggi coalizzate — come quelle a suo tempo cementate da Berlusconi
— hanno un problema irrisolto nei rapporti tra funzioni pubbliche, interessi
economici e risvolti giudiziari.
I feticci ideologici giocano brutti scherzi. E soprattutto producono messaggi schizofrenici.
Da una parte, verso i
colletti bianchi, c’è la foia garantista della Lega e di Forza Italia. Il
laissez-faire, il “modello fiduciario” di cui ha scritto Gianluca Di Feo.
Basato su una certezza (la corruzione è una bolla pretestuosa, gonfiata solo
dall’eccesso di burocrazia e di controllo). Costruito su una necessità (bisogna
fidarsi sempre “degli imprenditori, dei sindaci, dei professionisti, degli
ingegneri, degli architetti, dei geometri” e lasciare libere le aziende di
operare sul mercato senza lacci e lacciuoli).
Dunque, deregulation selvaggia e per decreto.
Nel Codice degli appalti: previste meno gare pubbliche e soglie più alte per facilitare gli affidamenti privati. Nel Codice penale: depotenziato il traffico di influenze, con l’eliminazione della fattispecie del millantato credito. Nel Codice di procedura penale: imbavagliata l’informazione, cui si vieta di pubblicare atti integrali delle ordinanze di custodia cautelare (ad esempio, quella che ora riguarda il clan Verdini).
Dall’altra parte, i dirigenti della pubblica
amministrazione in “buoni” e “cattivi”. Da premiare
erano quelli che assicuravano appalti alle società clienti della Inver, la
società di consulenza, meglio di ‘influenze illecite’ secondo la procura di
Roma, della famiglia Verdini.
I ‘cattivi’ invece erano quelli che mettevano i bastoni tra le ruote. I primi dovevano essere premiati e fare carriera nelle aziende di Stato. I secondi messi da parte. Per farlo, scrive la gip di Roma Francesca Ciranna nell’ordinanza di custodia cautelare con la quale ha arrestato Tommaso Verdini e il suo socio Fabio Pileri, ‘grazie al peso politico di Denis Verdini erano in grado di segnalare al nuovo management di Anas/Fs e al sottosegretario al Mef, il leghista Federico Freni, l’elenco di soggetti “affidabili”’. ‘Una lista – chiosa il giudice – di buoni e cattivi’. Che aveva preso un peso specifico sempre maggiore negli ultimi tempi: quando la Lega occupa i ruoli chiave del governo.
Ecco il testacoda: mentre lo Stato Minimo protegge e blinda il potere politico-economico, lo Stato Etico bastona e reprime la società civile. La contraddizione è stridente. E deflagra soprattutto in casa della presidente del Consiglio.
Giorgia Meloni viene dalla Fiamma di Almirante, che
ha sempre riscaldato il totem identitario intitolato a “Legge e Ordine” e
ispirato al ruolo sovrano della magistratura. La stessa Sorella d’Italia
confessa di essersi iscritta alla gioventù missina sull’onda emotiva
dell’eccidio mafioso di Via D’Amelio e del martirio di Paolo Borsellino.
Oggi, nell’ambiguo fregolismo politico che la vede a giorni alterni “di lotta e di governo”, la premier sta facendo stingere anche questa residua fedeltà all’antico “Ideale”. Con il risultato che persino su questo terreno l’azione e la comunicazione dell’esecutivo suggeriscono un progressivo slittamento democratico.
A prescindere dalla piccola e presunta Tangentopoli
verdiniana, è lo stesso “principio di legalità” che spesso viene vulnerato,
negli atti e nei misfatti della destra al comando. Pensiamo all’evasione
fiscale, il Grande Interdetto di questa stagione politica. Come possono reagire
i cittadini, di fronte a una Meloni che chiama ‘pizzo di Stato’ le tasse e che
davanti alle Camere annuncia la fine della ‘persecuzione’ sui lavoratori
autonomi, ‘vera spina dorsale della Nazione’?
Cosa devono dire i contribuenti onesti, di fronte ai quattordici condoni introdotti dalle manovre di questi ultimi due anni?
Un paio di mesi fa, con un silenzio quasi
carbonaro, il ministro Giorgetti in palese confusione ha depositato in
Parlamento la “Relazione annuale sull’economia non osservata e sull’evasione
fiscale e contributiva”. Una miniera di dati, che fanno rabbia e indignazione:
nonostante l’impatto del Covid, “il valore aggiunto generato dal sommerso economico”
ha raggiunto i 157,3 miliardi, pari al 7,5% del Pil.
Nello stesso periodo, l’evasione fiscale e contributiva si è attestata sui 96,3 miliardi. Basterebbe aggredire questa vergognosa montagna di “nero”, invece di ridurre i fondi alla Sanità o tagliare le pensioni di medici e insegnanti.
Il governo sa, ma confonde le acque e nasconde il
fenomeno. Esattamente come faceva il Cavaliere, pace all’anima sua, che di
fronte ai graduati della Guardia di Finanza diceva ‘pagare le tasse oltre un
certo limite è immorale’. Questo, per inciso, a conferma di quanto fosse
“moderato” l’Unto del Signore, di cui oggi sarebbero orfani chissà quanti
milioni di centristi senza tetto.
Per questo, oggi, si può serenamente riaffacciare
anche Verdini.
E per questo, sia pure su piani diversi, possono tranquillamente restare al loro posto le Santanché, i Delmastro, gli Sgarbi. E finalmente, a Montecitorio, si sono risvegliate le opposizioni che a tratti, pur marciando divise, riescono a colpire unite. Giuseppe Conte, su Repubblica, parla di una ‘nuova questione morale’. Non ha tutti i torti. Ma senza scomodare quel gigante di Enrico Berlinguer, torna più banalmente alla memoria un noto adagio di Piercamillo Davigo, che sugli imputati suicidi l’ha detta grossa e l’ha detta male, ma su molti altri, forse, l’ha detta giusta:
non hanno smesso di rubare, hanno solo smesso di vergognarsi.
(la Repubblica)
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