CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

venerdì 31 luglio 2020

IL MALE DEL NOSTRO SECOLO (9)




























































Precedenti capitoli:

Epistole di Giuliano... (8/1)

Prosegue con...:

Pietro Paolo (10)














Il maestro sceglie il discepolo, ma il libro non sceglie i suoi lettori, che possono essere malvagi o stupidi; questo timore platonico perdura nelle parole di Clemente di Alessandria, uomo di cultura pagana:

‘La cosa più prudente è non scrivere ma invece apprendere e insegnare a viva voce, perché ciò che è scritto rimane’.

e in queste altre dello stesso trattato:

‘Scrivere in un libro tutte le cose è lasciare una spada in mano a un bambino’,

…che derivano anche da quelle evangeliche:

‘Non date le cose sante ai cani né gettate le vostre perle davanti ai porci, acciocché non le calpestino coi piedi, e si volgano contro di voi e vi sbranino’.




Questa massima è di Gesù, il più grande dei maestri orali, che una sola volta scrisse alcune parole in terra e nessun uomo le lesse (Gv, 8, 6).         
         
 Nell’ottavo libro dell’Odissea si legge che gli dèi tessono disgrazie affinché alle future generazioni non manchi di che cantare; l’affermazione di Mallarmé:  


‘Il mondo esiste per approdare a un libro’

…sembra ripetere, trenta secoli dopo, lo stesso concetto di una giustificazione estetica dei mali. Le due teleologie, tuttavia, non coincidono interamente; quella del greco corrisponde all’epoca della parola orale, e quella del francese a un’epoca della parola scritta.

In una si parla di cantare e nell’altra di libri.




Un libro, qualunque libro, è per noi un oggetto sacro; già Cervantes, che forse non ascoltava tutto quel che diceva la gente, leggeva perfino le carte strappate nelle strade.

Il fuoco, in una delle commedie di Bernard Shaw, minaccia la biblioteca di Alessandria; qualcuno esclama che brucerà la memoria dell’umanità, e Cesare gli dice:

‘Lasciala bruciare. È una memoria d’infamie’.

(J.L. Borges)




È questa irreversibile costante memoria di infamie che ci interessa, la quale compone la Storia; la quale ci priva del dono della saggia Parola, e talvolta anche del Pensiero come l’inutile materia vorrebbe per imporre la più deleteria corrotta dottrina contraria alla Vita.

E prima di lei lo Spirito e l’Anima che l’accompagna, rimpiangere ciò che al meglio componeva l’Armonia dismessa barattata e confusa…

È questa Memoria che vorremmo ritrarre  dipingere e descrivere sottratta all’occhio da cui la vera Natura abdicata alla demenza da cui la vostra materia…


  

In nessun paese esiste più una letteratura così grande come quella del mondo antico; i giornali, i libri scadenti d’ogni genere, le preoccupazioni della gente per ogni tipo di trasformazione concreta, hanno scacciato l’immaginazione viva del mondo.

Questi uomini, che tante centinaia d’anni separavano fra loro, avevano il medesimo Spirito. Siamo noi ad essere diversi; e allora mi tornò alla mente un Pensiero ricorrente, ossia che loro vivevano in tempi in cui l’immaginazione si rivolgeva alla stessa Vita per esaltarsi.

Il mondo non mutava velocemente intorno a loro!

Non c’era nulla che distogliesse la loro immaginazione dal mutarsi dei campi, dalle nascite e dalle morti dei loro figli, dal destino delle loro Anime, da tutto quanto costituisce la sostanza immortale della Letteratura.




Non dovevano intrattenere rapporti con un mondo composto da masse tanto enormi da poter essere rappresentate alla loro mente solo per mezzo di raffigurazioni e generalizzazioni astratte. Tutto quello che percorreva il loro animo vi si imprimeva con la vivacità dei colori dei sensi, e quando scrivevano, ciò scaturiva da una ricca esperienza personale, scoprivano i loro simboli espressivi nelle cose che avevano conosciuto per tutta una vita.

È la trasformazione che seguì il Rinascimento, e venne completata dal dominio dei giornali e dal movimento scientifico che ci ha sovraccaricato di queste frasi e generalizzazioni elaborate da menti che pretenderebbero di cogliere ciò che non hanno mai visto.




Esiste un’espressione presso un antico scrittore cabalistico sull’uomo che cade all’interno della sua stessa circonferenza: ora ad ogni generazione ci troviamo più lontani dalla Vita stessa e l’Anima-Mundi che forma la sua essenza, e cadiamo sempre di più in preda di quell’influenza cui si riferiva Blake quando scrisse:

I Re ed il Parlamento (e tutti i loro cortigiani) mi sembrano cosa diversa dalla vita umana (dalla realtà e verità umana)…

Perdiamo sempre più la libertà man mano che fuggiamo da noi stessi, e non solo perché le nostri menti sono stravolte dalle frasi astratte e dalle generalizzazioni, riflessi su uno specchio che sono un’apparenza della vita, ma perché abbiamo capovolto la scala dei valori e crediamo che la radice della realtà non stia al centro, ma da qualche parte in quella vorticosa circonferenza.




E in che modo potremmo creare come gli antichi, se innumerevoli considerazioni di probabilità esterne o di utilità sociale distruggono il potere creativo, solo apparentemente irresponsabile che è la Vita stessa?

…Ogni argomento come abbiamo letto ci riconduce a qualche concezione filosofica-religiosa, e alla fine l’energia creativa degli uomini dipende dalla loro fede di possedere, nel loro intimo, qualcosa di immortale e di incorruttibile, e che ogni altra cosa non è che un’immagine in uno specchio formare la spirale appena detta….

Sino a che questa fede non sarà soltanto formale, un uomo trarrà le sue creazioni da un’energia piena di gioia, senza cercare tante prove per un impulso che può essere davvero sacro, e senza ricorrere ad alcun fondamento fuori dalla vita stessa…




L’Arte, nei suoi momenti più alti, non è una creazione volontaria, ma deriva da un sentimento potente, dalla pura essenza intesa quale Anima-Mundi di vita, ed ogni sentimento è figlio di tutte le età passate (come una Spirale donde la vita) e sarebbe diverso se anche un solo istante fosse stato trascurato.

E davvero non è proprio quel piacere della bellezza e dell’armonia che dice all’artista che egli ha immaginato quel che forse non morirà, ed è esso stesso soltanto un piacere delle forme perenni e tuttavia cangianti in spirali di vita, nelle sue stesse membra e nei suoi tratti?

Quando la vita l’ha donato, non ha forse dato nient’altro che se medesima?

Riserva forse mai altra ricompensa, perfino ai santi?

Se uno fugge verso il deserto, non è quella luce chiara che cade sull’Anima quando tutte le cose insignificanti sono state allontanate, altri che la vita che l’ha sempre circondato, ora finalmente goduta in tutta la sua pienezza?

Se un uomo trascorre tutti i suoi giorni in buone opere sinché nel suo cuore non resti emozione alcuna che non sia colma di virtù, la ricompensa che implora non è forse vita eterna?

(W. B. Yates)




Il Cesare storico, a parer mio, approverebbe o condannerebbe il giudizio che l’autore gli attribuisce, ma non lo riterrebbe, come noi, uno scherzo sacrilego. La ragione è chiara: per gli antichi la parola scritta non era altro che un succedaneo della parola orale.

È fama che Pitagora non abbia scritto; Gomperz  sostiene che operò in tal modo perché aveva più fede nella virtù dell’istruzione parlata.

Di maggior forza della mera astensione di Pitagora è la testimonianza indubitabile di Platone. Questi, nel Timeo, affermò:

‘È ardua impresa scoprire l’artefice e padre di questo universo, e, una volta che lo si è scoperto, è impossibile rivelarlo a tutti gli uomini’,

…e nel Fedro narrò una favola egizia contro la scrittura (la cui abitudine fa sì che la gente trascuri l’esercizio della memoria e dipenda da simboli), e disse che i libri sono come le figure dipinte,

che paiono vive, ma non rispondono una parola alle domande che vengono loro poste’.

Per attenuare o eliminare tale inconveniente immagino il Dialogo filosofico così come abbiamo letto con Giuliano specchio dei Tempi che al meglio ritraggano




Leida 1629

Disegnare l’occhio che osserva (o al contrario, osservato, in questi Tempi al roverso del vero senso come sempre ammirato e contemplato…) era l’inizio dell’Arte.

Tracciare i contorni dell’organo della vista era l’iniziazione dell’apprendista al ‘mistero’ del suo mestiere ma anche un simbolo dello scopo di quel mestiere: una sorta di professione stenografica del potere della vista (non ancora del tutto ulcerata e corrotta).

La consuetudine di disegnare l’occhio umano doveva essere così radicata nell’inconscio di un artista da riaffiorare nel pieno della sua maturità, in forma di scarabocchio o di schizzo casualmente tracciato su un foglio bianco o su una lastra di recupero.

Un acquaforte dei primi anni Quaranta mostra su un lato un albero, su un altro una sezione destra della parte superiore del volto dell’artista, con l’occhio ben visibile sotto il berretto calcato sulla fronte; ma tra il berretto e l’albero c’è, del tutto a sé stante e perfettamente tracciato, un secondo occhio: spalancato vigile, vagamente inquietante.

Una Visione singolare!




Quando dipingeva occhi, dunque Rembrandt sapeva ciò che faceva.

Sapeva che nel repertorio convenzionale del linguaggio dell’occhio a disposizione dell’artista non c’era nulla di adeguato a questo momento; certo non bastava una fissità di occhi di vetro. Perciò per comunicare il senso di un distacco creativo, quel ‘sonno’ nella veglia che fin dai tempi di Platone gli autori paragonavano ad una sorta di trance sciamanico, opta per l’oscuramento.

Per il silenzio!

La Parola più comunemente usata per indicare quella situazione interiore era ingenium, o inventio, quel Divino Elemento, cioè, senza il quale mestiere e disciplina non erano che bassa manovalanza.

Quel Divino Elemento, cioè, senza il quale la Vita non avrebbe il perenne Studio da cui per ultimo l’uomo…




Solo l’ingenium distingueva chi era straordinariamente dotato da chi possedeva un mestiere perfetto.

Ma, a differenza della perizia tecnica e della pratica, l’ingenium non era cosa che si potesse acquisire con lo studio. Era una qualità innata e pertanto degna, letteralmente, di riverente timore:

Dono di Dio!

La Visione poetica veniva, in condizioni simili al delirio, a coloro che erano benedetti da quell’occhio interiore…

(S. Schama)




…Per tutti gli altri transitati nel comune Libro della Storia colma di infamie e ben conservata per ogni Secolo percorso al rogo della Memoria mai del tutto svelata neppure descritta e narrata qual male antico unanimemente condiviso in nome e per conto del falso progresso o atroce unanime apocalittico turpe destino, per tutti gli altri dicevo, ovvero i posseduti dal male antico, materia avversa allo Spirito, dedico cotal perla affinché sopravviva alle ceneri in ciò da cui il male si contraddistingue affliggere la Natura e con lei ogni Opera dell’Ingenium Creata…  











venerdì 10 luglio 2020

RINCONETTO FEDELE SERVO DEL SUO PADRONE (7)




















Precedenti capitoli con...:

Giuliana Facciatonda (6/1)

Prosegue con:

Giuliano l'altra faccia della medaglia (8)














Esiste un altro modo di offendere la Carità, cui nessun autore ha dedicato mai i suoi scritti, e di cui altrettanto pochi si preoccupano, e questo è la censura non di intere professioni, mestieri o condizioni, ma di intere nazioni; e così ci diffamiamo scambievolmente con epiteti obbrobriosi e, con logica priva di carità, osservando la tendenza di alcuni concludiamo che sia un’abitudine di tutti.

San Paolo che chiama bugiardi i Cretesi, lo fa solo indirettamente e citando il loro stesso Poeta. In un certo senso è un pensiero altrettanto sanguinario quanto quello di Nerone lo fu in un altro. Poiché con una parola sola noi feriamo mille, e con un colpo assassiniamo l’onore di una nazione (medesimo ‘onore’ vilipeso ed offeso nella patria, mi perdoni l’autore, di Giuliana Facciatonda, la qual dimora, per il breve appunto…, in ogni nazione accompagnata da Monopodio suo eterno protettore…).




È una manifestazione non meno assoluta di pazzia denigrare i Tempi (circa modi & tempi e le improprie evoluzioni, così come interviene l’autore del blog in Dialogo meditativo con l’Autore citato, oppure, in ugual medesima scena del ‘crimine’ Rinconetto che a comando del suo padrone inveisce e con intenzionale premeditato atto abdica il proprio timore all’intimidazione: batte ed assesta a comando il ‘colpo’ detto veicolato dal Timone al timore dell’intimidazione, ‘colpo’ non certo composto da Ragione ed Intelletto, ma come lo stile appreso alla scuola o bottega del suo padrone, il quale interviene sulla e contrario alla Ragion detta, attenta il prossimo incutendo timore…, Rinconetto qual fedele servo del proprio padrone…) inveendo contro di essi, di quanto lo sia il pensare che si possano richiamare gli uomini alla Ragione con uno scatto d’ira (Rinconetto è un sol scatto d’ira giacché specchio del suo padrone, odia per difettevole natura Ragione ed Intelletto accompagnare una Verità più prospera e matura comporre Dialogo… Strofa e Rima…)…

Democrito il quale credette di riportare alla bontà i tempi col riso (come il curatore pretende per i più diligenti ed intelligenti rispetto il povero Rincoletto), non mi sembra affetto d’ipocondria meno profonda di quella di Eraclito, il quale si doleva di essi.




Non mi melanconizza lo spettacolo della moltitudine negli umori che le sono propri (come Rincoletto ne dimostra uno dei tanti aspetti che intercorre fra pubblico e privato, ovvero quando in privato si vogliono nascondere i pubblici vizi privandoli delle semplici virtù abdicate ad altre moderne virtù in questa sede poche accette…), nei suoi eccessi di follia e di demenza, intendo dire, ben comprendendo che la saggezza non si profana dandola al mondo (per questo Rincoletto si affanna e batte ‘colpo’ a comando, diligente comando del suo padrone), e che è privilegio di pochi esser virtuosi (e al contrario, sembrerebbe diritto di tutti, essere dei sani retti imbecilli).

Coloro che si adoperano per abolire il vizio distruggono pure la virtù, poiché i contrari, pur distruggendosi a vicenda, rappresentano la Vita l’uno dell’altro: il Bene avversare il Male.




Così la virtù (una volta abolito il vizio) è un’idea; l’universalità del peccato, inoltre, non menoma la bontà; poiché quando il vizio dilaga fra i più, la virtù acquista in eccellenza in quanti la conservano ed, essendo andata persa in taluni, moltiplica la sua bontà in altri che ne rimangono immuni, e si mantiene intera nella generale inondazione (di cui il povero Rincoletto ne manifesta l’impeto ‘degli e negli’ impropri elementi e metodi adottati…).    

Posso perciò contemplare il vizio (e non solo di Madonna Giuliana, o di Monopodio e l’intera banda) senza suddetta satira, limitandomi ad una semplice ammonizione o ad un rimprovero esplicitativo; poiché le nature nobili e quelle capaci di bontà sono spinte al vizio delle invettive; laddove gli ammonimenti le portano non meno facilmente alla virtù; e dovremmo tutti essere gli oratori della bontà, per poter così proteggerla dalla forza del vizio, e per sostenere la causa della verità oltraggiata.




Nessun uomo può giustamente censurarne o condannarne un altro soprattutto quando cerca di apportare una verità, se questa nemica del vizio coltivato e ben protetto, allora oltre alla verità detta, nessun uomo conosce veramente non solo l’altro ma anche cosa sia il sentimento che accomuna e consolida uno Stato assente ed immune alla Verità detta…

Ed inoltre nessun uomo può giudicarne un altro, poiché nessun uomo conosce se stesso, chi abdica cotal sforzo di conoscenza in difetto con se medesimo e proteso all'insindacabile giudizio dell’altro, non pecca solo della dovuta necessaria intelligenza circa la conoscenza detta, ma altresì, anche con se medesimo oltre nei confronti del Principio che meglio la alimenta ed alberga, come l’Anima e lo Spirito che lo sostenta o almeno dovrebbe; rendendolo molto più simile alla bestia, anzi mi perdoni il Rincoletto e l’intera sua bottega, offenderemo decoro ragione e ugual medesima Intelligenza della bestia da cui deriva, per la quale il Rincoletto nel meccanico cartesiano gesto del colpo si avvicina alla sua più remora natura estinta…




Giacché la Natura di cui la bestia detta, a mio modesto umile parere, assai più matura ed evoluta, ed allora il povero Rincoletto così esperto nel nobile mestiere nell’arte a cui dedica ore di passione, come e dove al meglio lo dovremmo collocare qual invisibile servitore del potere?

In quale nazione?

In quale stato?

Ma abbiamo detto sin da principio circa l’armonia che deve o dovrebbe intercorrere, e come al meglio viene albergata la dotta parola compresa medesima considerazione dell’autore, giacché possiamo annoverare l’onnipresenza di Monopodio ed il suo fido Rincoletto nel quale il vizio può prevalere sulla Ragione, ed oltretutto con incomodo di difettevole Ragione in difesa della Ragione (di cui Rincoletto giustificato dell’atto o al meglio del colpo) osservare e negare se medesima; in difetto delle virtù dette bandite dalla Ragione stessa.




In cotal paradossale condizione con cui si vestono le sfarzose grammatiche parole compresa la Legge a difesa della Ragione del Rincoletto avversare il principio su cui poggia la stessa (Ragione e Legge) che al meglio lo protegge, adottiamo i principi di virtù umiltà e superiore Fede, anche quando quest’ultima diviene Eresia, condannata dalla Ragione di Stato… in difetto di Virtù Verità e Ragione…

Sicché, citando e continuando sul Sentiero dell’Autore, tutto è esclusivamente ciò che tutti condanniamo: egoismo.




Anche se in pubblica aspirazione la falsa Ragione (quella del Rincoletto per intenderci accompagnata dal suo padrone) protende alle virtù del contrario, offrendo in verità e per il vero, anzi concedendo, la più sottile cospirazione affine al potere, per ogni grado e ruolo ove il vizio, uno dei tanti suoi aspetti, mantiene la propria ed altrui Ragion d’essere condizione necessaria e sufficiente per al meglio prosperare e quindi sopravvivere…

…E far sopravvivere masse popoli e genti privi di scrupoli nutrite ed abbeverate dal lucroso vizio della corruzione…

Ciò non vuol essere una diffamazione ma solo una presa di Coscienza di cui priva la Ragione divenuta incoscienza, neppure un’ingiuria oppure una maldicenza con la quale Monopodio si distingue nell’affermare le dubbie proprie ed altrui ragioni, semmai un Dialogo così come nei remoti tempi persi e dismessi si conversava con l’autore, oppure, con il Filosofo depositario della saggezza persa, e non per questo lungo il cammino dissentire circa ugual medesima miseria condivisa…

Ma questo un altro capitolo, lo abdico al Rincoletto se già non lo abbia letto…

(Dialogo con T. Browne)










    


mercoledì 8 luglio 2020

DIFFERENZA FRA ERETICI E... (4)




















Precedenti capitoli di:

Due cani lungo la strada (3/1)

Prosegue con i...:

ciarlatani... (5)

& Giuliana 'Facciatonda' (6)














Alla morte di don Chisciotte ciò che ricordiamo di lui, oltre penna e pennello esposti alle vicissitudini del Tempo, evoluto se pur immobile, osservato nell’orbita da chi mirabilmente lo ha (ri)creato dipinto e ben ritratto, l’apparente ‘pazzia’  nella dolente nota biografica accomunare l’Eresia alla Verità negata allo stesso, lento scorrere ai capricci del vento così come ogni Elemento ed ogni Straniero scagliarsi al mulino della inesorabile sua ed altrui evoluzione: minuti ore secoli numerati e transitati, ère immuni alla Verità così come la Ragione ed ogni Eretico rincorrere la propria Visione… immune al Tempo con solo negli occhi l’orrore del presente!

Fedele alla solitaria Dottrina negata derisa e perseguitata, combattuta fra Monopodio ed il triste Tempo numerato, e l’‘esule’ vittima d’ogni visibile invisibile reato da cui deriso e perseguitato; giacché chi afferra il senso nonché sottile ‘quadro’ della metafora qual dettaglio della dovuta congiunzione intuirà anche, che i favori del Secolo ogni Secolo conservato e dipinto maggiormente incline a Monopodio accompagnato da tutti i personaggi che lo omaggiano e proteggono, in Primo Piano o sullo sfondo comporre l’eterno panorama della Storia a voi narrata e felicemente vissuta…  

Dividere, per l’appunto, Infinito e Tempo…

Nella prospettiva con cui deriso descritto e ritratto…




La postura, si prenda dovuta nota nella differenza, che intercorre fra la postura detta e l’impostura, si compone nel mirabile ritratto che si conviene al gentiluomo virtuoso: lo sguardo è fermo, rivolto a noi, o meglio a voi, al vostro felice Tempo così mirabilmente transitato ciarlato vilipeso non meno che perseguitato, Rembrandt non distante negli anni dalle tristi vicissitudini del Cervantes, ci tramanda un mirabile dettaglio: il gentiluomo Six si sta sistemando il guanto con cui si predispone alla ‘vista’ dello spettatore, del resto chi lo osserva appartiene a ben vedere al Tempo transitato per ogni museo o Tomo ben rilegato.

Il Gentiluomo, invece, Infinito nel dettaglio della celata prospettiva raffigurare mirabile metafora la qual unisce Arte Poesia e Filosofia, Pittogramma di una velata eretica Dottrina nella postura per l’appunto, in cui il guanto degna maschera (ai nostri odierni intendimenti anche ‘mascherina) d’una più ordinata odierna impostura… di cui il Tempo transitato ne ammira la solitaria sottigliezza immune da qualsivoglia patologica corrotta Natura…




Il gentiluomo nell’ipotesi comune della Storia sembra che si stia sistemando il guanto sinistro sulla mano, preparandosi, per così dire, ad assumere la sua figura pubblica.

Me il pittore si è preoccupato di evidenziare con grande cura il pollice infilato nel guanto aderente, al punto di delineare l’estremità superiore dell’unghia sotto la morbida pelle di camoscio. È quindi altrettanto plausibile immaginare che la mano nuda, la destra, sia invece per sfilare il guanto. Ciò non significa, ovviamente, che dobbiamo invertire la direzione del movimento di Six – da un uscire ad un entrare, dal commiato al benvenuto -, quanto piuttosto la volontà di Rembrandt quando intende cogliere il soggetto proprio sull’ambiguo limite fra la casa ed il mondo esterno, tra pubblico e privato, per indurci altresì a pensare oltre che osservare nel dettaglio le due mani, ornate e protette da guanti (o da ‘mascherina’), nella più reale o irreale relazione e connessione in cui e per cui ritratto il gentiluomo condiviso e diviso tra relazioni pubbliche e private: una per il mondo e una per gli amici (degli amici) e per se stesso…




Il dettaglio del guanto (oppure l’odierna mascherina) serve unitamente a preservare l’osservato nel pubblico Tempo transitato, che pur osservando se medesimo non riesce a cogliere il sottile dettaglio del guanto calzato oppure al contrario sfilato, così come l’intero abito con cui la mascherina conferisce ulteriore odierno dettaglio del degrado sia se calzata, oppure, per l’intrepido futuro che attende per ogni pubblica relazione…, sfilata, nel costante rischio d’un contagio con cui l’impostura peggio d’ogni virus inganna e falsa ogni prospettiva ed inganna la vista…

Divisa e condivisa fra pubblico e privato

Tra una casa e la scena d’un teatro…

Tra pubblico e privato non sufficiente un guanto, una mascherina, a preservarci dagli inganni accompagnati dai soprusi di Monopodio (e con lui chi al meglio lo nobilita e legalizza, fors’anche istituzionalizza), giacché da sangue ‘coronato’ e non ancor del tutto ‘guasto’ e ‘ulcerato’, dai remoti tempi in cui ogni falso sovrano o signore esige superiore pretesa nella ‘differenza’ posta e nell’apparenza vestita nonché adornata con ‘nobile’ ricchezza, quantunque sempre privata del dovuto Spirito da cui l’uomo; mai potrà nascere o evolvere Esemplare Novella nella ‘voce del sangue’ con cui scritta la Storia del nostro quanto altrui destino.




Tra pubblico e privato, per chi calza il guanto o cammina per la stessa ugual medesima strada scalzo, corre ed inciampa il Tempo preservato al tatto così come al contagioso respiro, d’una appestata realtà evoluta al panorama d’una Storia sempre corrotta…

Unita e divisa tra pubbliche e private risate di sdegno i Poeti di corte umiliarono Cervantes non reputandolo degno, il ritratto di se medesimo e di come il mondo cinto e calzato con ugual costume (e guanto) guasta l’intera Reale Compagnia non sopportandone l’altezzosa Rima ridotta al cortile d’una Osteria.

Il ‘quadro’ della Storia non meno della Rima al colore del pennello che l’accompagna ornata da Monopodio e chi al meglio, pur calzando guanto e mascherina, lo asserve e mantiene nel fasto della pubblica economia che nulla priva della ricchezza ottenuta pur il guanto e la maschera d’un penoso corrotto bilancio falsarne la Memoria, come Monopodio e l’eterna sua dottrina insegna…

Tra pubbliche calunnie il pastore incolpa il Lupo del danno mai arrecato alla pecunia del Monopodio di Stato, se pur il nobile paese assetato di gloria e colmo di arroganza e falsa dottrina divenuta morale di vita… umilmente ed umiliato calzo il guanto come la mascherina in ciò che divide Eretico e ciarlatano… astenendomi di inchinarmi, o ancor peggio, baciare le mani del Monopodio da cui ciò che Stato… e mai sarà…       

(il curatore del blog)




…Noi ci siamo riformati allontanandoci da loro, non contro di loro…; poiché facendo astrazione da quegli oltraggi e quello scambio di espressioni ingiuriose, che unicamente indicano la differenza fra le nostre tendenze e non nella nostra causa, esistono un unico nome e appellativo comune fra noi, un’unica fede e un necessario nucleo di principi comuni agli uni e agli altri; e perciò io non mi faccio scrupolo di conversare o vivere con loro, di entrare nelle loro chiese in difetto delle nostre, e di pregare insieme a loro, o per loro: non sono mai riuscito a percepire un qualche nesso logico con quei molti testi che vietano ai figli di Israele di contaminarsi con i templi dei pagani, essendo noi tutti cristiani, e non divisi da detestabili empietà, tali da poter profanare le nostre preghiere o il luogo in cui le diciamo; e nemmeno a comprendere perché mai una coscienza risoluta non possa adorare il suo Creatore ovunque, specialmente in luoghi dedicati al suo servizio; in cui, se le loro devozioni l’offendono, le mie possono piacergli, se le loro profanano il luogo, le mie possono santificarlo; l’acqua benedetta e il crocifisso (pericolosi per la gente comune) non ingannano il mio giudizio, ne fan menomamente torto alla mia devozione: io sono, lo confesso, naturalmente incline a quello che lo zelo fuorviato definisce superstizione; riconosco indubbiamente austera in genere la mia conversazione, pieno di severità il mio comportamento, non esente talvolta da qualche asperità; pure nella preghiera mi piace usare rispetto con le ginocchia, col cappello e con le mani…, insomma con tutte quelle manifestazioni esteriori e percepibili ai sensi…




…E quindi come vi furono molti riformatori, allo stesso modo molte riforme; tutti i paesi procedendo ciascuno col proprio metodo particolare, a seconda di come li dispone il loro interesse nazionale, insieme al loro temperamento e al clima; alcuni irosamente e con estremo rigore, altri con calma, attenendosi ad una via di mezzo, non con strappi violenti, ma separando senza sforzo la comunità, e lasciando un’onesta possibilità di riconciliazione; cosa questa che, sebbene desiderata dagli spiriti pacati disposti a concepirla effettuabile per opera della rivoluzione del tempo e della misericordia di Dio, pure a quel giudizio che vorrà considerare le attuali incompatibilità fra i due estremi, come questi dissentano nella condizione, nelle tendenze e nelle opinioni, potrà prospettarsi altrettanto probabile quanto lo è un’opinione fra i poli del Cielo…

…Ma per differenziarmi con maggior precisione, e portarmi in un cerchio più ristretto: non vi è alcuna Chiesa di cui ciascun punto tanto si armonizzi con la mia coscienza, i cui articoli, costituzioni ed usi sembrino così consoni alla ragione, e come formati per la mia speciale devozione, quanto questa dalla quale io traggo il mio credo, la Chiesa anglicana alla cui fede ho giurato obbedienza…




…Io non condanno tutte le cose del Concilio di Trento, e nemmeno approvo tutte quelle del Sinodo di Dort. In breve, là dove la Sacra Scrittura tace, la Chiesa è il mio testo; dove quella parla, questa è solo il mio commento; quando vi è l’unito silenzio di entrambe, non prendo da Roma o da Ginevra le leggi della mia religione, ma mi valgo piuttosto dei dettami della mia stessa religione.

È un ingiusta calunnia da parte dei nostri avversari, e un grossolano errore in noi, far risalire a Enrico ottavo la natività della nostra religione; poiché, sebbene sconfessasse il Papa, egli non rifiutò la fede di Roma, e non effettuò più di quanto i suoi stessi predecessori desiderarono e tentarono nei tempi passati, e per cui si ritenne si sarebbe adoperato lo Stato di Venezia ai nostri giorni.


Ed è ugualmente manifestazione poco caritatevole da parte nostra associarci a quelle volgarità plebee e a quegli obbrobriosi insulti contro il vescovo di Roma, cui come principe temporale dobbiamo un linguaggio castigato: confesso che c’è causa di risentimento fra noi; grazie alle sue sentenze io me ne sto scomunicato; Eretico è l’espressione migliore di cui dispone per me; tuttavia nessun orecchio può testimoniare che io lo abbia mai ricambiato chiamandolo anticristo, uomo del peccato, o meretrice di Babilonia. È metodo della carità sopportare senza reagire: quelle usuali satire e invettive del pulpito possono magari avere un buon effetto sul volgo, le cui orecchie sono più aperte alla retorica che alla logica; pure in nessun modo confermano la fede dei credenti più saggi, i quali sanno che una buona causa non ha bisogno di essere protetta per mezzo della passione, ma può sostenersi con una disputa contenuta.