Prosegue in:
Altri prigionieri e morti giù nella stiva...
Il….. venne distrutta nel corso della conquista, fra le fiamme degli
incendi e il fetore della morte, ‘una delle più belle culture del mondo’.
La vita azteca, tuttavia, non trapassò immediatamente in una sorta di limbo
culturale. La vita in quanto continuità biologica, proseguì. Le abitudini degli
uomini sono difficili da cambiare: il cibo e la sua preparazione, le attività
artigiane continuarono, e, allo stesso modo, vasti e attivi rimasero i mercati.
Ma i tributi provenienti a dorso di portatore, dai villaggi sottomessi di
regioni come il Guatemala, furono ormai solo quelli richiesti dai
conquistatori.
Gli uccelli che un tempo fornivano le sgargianti penne per i costumi e
gli scudi di guerra non li voleva più nessuno. Così, tra i primi articoli a
scomparire dai mercati reali furono le penne del Quetzal. Membro della famiglia
dei trogonidi, questo uccello, famoso per le splendide penne caudali verde-oro
misuranti un metro di lunghezza, viveva, e vive, nelle foreste pluviali
centro-americane, in una regione compresa fra il Messico meridionale e,
attraverso il Chiriquì, il Panamà settentrionale. Delle 75.632 specie di
uccelli classificate dai naturalisti, il Quetzal è forse la specie in assoluto
più magnifica. Questo
uccello ha una lunga storia di associazione coll’uomo delle Americhe; una
storia che rimonta agli Olmechi, il popolo della gomma, di secoli precedenti
i più noti Maya.
Penne di Quetzal erano scolpite come motivo di
decorazione architettonica, mentre le penne vere fungevano da simbolo di
distinzione per vari tipi di elaborati copricapi. Gli Aztechi lo chiamavano
'quetzaltolotl', ed è possibile che esso vivesse in cattività, con altri
uccelli, nelle uccelliere reali, che fornivano ai tessitori di mosaici di piume
le penne della muta. Il Quetzal era anche un articolo di tributo.
L’elenco azteco dei tributi a
noi conservato riporta 371 villaggi tenuti a rendere un tributo annuo alla
capitale messicana di Tenochtitlàn, e, fra questi, molti sono quelli obbligati
a fornire una quantità enorme di penne caudali di quetzal. Nell’antica
mitologia azteca fu associato al serpente, e ne nacque Quetzalcoatl, il
‘Serpente piumato’, cioè il Dio del cielo, superiore a tutte le divinità. Il
mito diventò leggenda. Col tempo, sviluppandosi il tema, il dio del cielo fu
immaginato di pelle bianca; poi si narrò che, adirato per la condotta del suo
popolo, il Dio era salpato verso oriente su una zattera, giurando che sarebbe
tornato per ‘Ce Actl’ ossia, secondo il calendario azteco, nel 1519.
Ora avvenne che Cortés
arrivasse coi suoi armati proprio alla data fissata da ‘Quetzalcoatl’ per il
proprio ritorno; e così, sfruttando la serie di coincidenze (malefiche), Cortés
poté gettare una testa di ponte, cinquecento
uomini contro migliaia!, che, col tempo, avrebbe non solo distrutto le civiltà
maya e azteca, ma altresì avviato la completa conquista dei due continenti
americani. Tutto in base ad un equivoco, che fece intendere a Montezuma (nipote
del primo Montezuma, detto l’‘Irato’) l’annunziato ritorno del ‘Sepente
Piumato’.
(Victor Von Hagen, Alla ricerca
del sacro Quetzal)
Le nostre merci erano molte, e le nostre navi così cariche che tutti i
giorni ci incagliavamo due o tre volte sui bassifondi scogliosi: i quali in
alcuni punti misuravano quattro o cinque leghe ed erano circondati da banchi di
arena così bassi che osavamo veleggiare soltanto in pieno giorno e sempre con
lo scandaglio in mano. Per questa ragione, decidemmo di non fare nulla prima di
esserci liberati di tutto il bottino che portavamo con noi, e Antonio de Faria
non si preoccupava d’altro se non di trovare un porto ove poterlo
vendere. E guidandoci il nostro
capitano per dare effetto a questa comune volontà, dovemmo faticare quasi tutta
quella notte con le gomene di rimorchio per risalire il fiume perché la forza
della corrente era tale che ci ricacciava indietro.
Mentre eravamo così affaccendati e con la coperta tutta ingombra di
gomene e di cavi al punto che quasi non riuscivamo a muoverci, vedemmo spuntare
dal fiume due grosse giunche, con castelli posticci a poppa e a prua, tende di
seta, e tutte pavesate con bandiere dipinte di rosso e di nero, che davano loro
un aspetto molto bellicoso, tenendosi accostate l’una all’altra per meglio
concentrare le loro forze, ci attaccarono in modo così improvviso, che non
avemmo alcun tempo di prepararci e fummo costretti a mollare in mare gomene e
cavi così come si trovavano, per approntare le artiglierie ch’erano ciò che in
quel momento ci serviva di più. Le due giunche ci furono
addosso in un momento con alte grida, rullar di tamburi e scampanii: la prima
salva da tre con la quale ci accolsero fu di ventisei pezzi d’artiglieria di
cui nove erano falconetti e cortane; da ciò comprendemmo subito trattarsi di gente
dell’altra costa di Malacca, ed il fatto ci turbò un poco. Antonio de Faria che
sapeva il fatto suo, vedendole giungere incatenate comprese subito le loro
intenzioni e puntò verso il largo, sia per avere il tempo di prepararsi, sia
per far loro comprendere chi eravamo.
Anche i nemici, tuttavia, erano esperti della loro arte, e per non
farsi sfuggire la preda dalle mani staccarono l’una dall’altra le due giunche
per poterci meglio colpire, e come furono presso di noi ci abbordarono subito,
lanciandoci addosso una spaventevole pioggia di frecce. Antonio de Faria si
ritirò sotto il cassero assieme ai 25 soldati ch’erano nella sua giunca, e ad
altri dieci o dodici schiavi e marinai tenendo a bada i corsari per circa
mezz’ora con colpi d’archibugio, fino a quando essi ebbero consumate tutte le
frecce; queste però erano sì abbondanti che infiorarono tutta la coperta.
Infine i più coraggiosi di loro, in numero di 40, decisero di portare a
termine ciò che avevano iniziato, e saltarono dentro la nostra giunca, con
l’intenzione d'impadronirsi della prua. Il nostro capitano fu così
costretto a riceverli, e impegnandoci tutti di buona lena, si accese una
mischia così furibonda che, nel tempo di dire poco più di tre credi, il nostro
capo fu così ben servito che dei 40 ne uccidemmo 26, mentre gli altri si
gettarono in mare. Allora i nostri, per trar partito dalla vittoria concessaci
dalla mano di Dio, si lanciarono in venti nella loro giunca, ove non trovarono
molta resistenza dato che i più valenti erano morti, uccidendo a destra e a
sinistra tutti quelli che incontravano. Fu poi necessario salvare la vita a
quelli che s’eran gettati in mare, non essendovi braccia sufficienti per
tante navi. Appena fatto ciò Antonio de Faria si affrettò a porger soccorso a
Cristoforo Borralo che era alle prese con l’altra giunca, e stava assai
dubbioso della vittoria, ché la maggior parte dei suoi uomini erano rimasti
feriti. Ma piacque al Signore che al nostro arrivo i nemici si gettassero in
mare, ove la maggior parte annegò ed entrambe le giunche caddero così in
nostre mani.
Improvvisamente, Cristoforo Borralho si mise a gridare dall’altra
giunca dove si trovava: ‘Capitano, capitano, venite ad aiutarci, che abbiamo
più carne al fuoco di quanta se ne possa mangiare!’. Allora Antonio de
Faria saltò subito dentro la giunca con quindici o sedici soldati e gli chiese
cosa stesse succedendo. Borralho gli rispose che aveva udito a prua il vociare
di molte persone che dovevano essersi nascoste, e Faria, avvicinandosi con
tutti i soldati che aveva con sé fece aprire il boccaporto. Si udirono allora
prorompere dal fondo altissime grida di: ‘Signore Iddio misericordioso!’.
Assieme a sì spaventose urla e pianti da sembrare un fatto di magia. Il
capitano, alquanto intimorito si accostò allora alla bocca della stiva con
alcuni dei nostri, e vide un gran numero di prigionieri distesi sul fondo;
non potendo ancora credere a ciò che i suoi occhi avevano visto, ordinò che
qualcuno scendesse a vedere di che si trattasse. Due dell’equipaggio
obbedirono subito e portarono in coperta 17 cristiani, fra i quali v’erano
due portoghesi, cinque bambini, due giovinetti ed otto giovani, tutti ridotti
in condizioni così pietose che era uno strazio guardarli. Dopo di ciò fu
chiesto a uno dei due portoghesi di chi fossero quei bambini, come fossero
caduti nelle mani di quel pirata e come quest’ultimo si chiamasse. Egli rispose che il pirata
aveva due nomi, uno cristiano e l’altro pagano: il secondo era Necodà Xicaulem,
mentre quello cristiano era Francesco de Saa...
...Quel nome lo portava da cinque
anni e cioè da quando s’era fatto cristiano a Malacca. Il capitano della
fortezza era a quel tempo Francesco de Saa, ed essendo egli stato padrino al
battesimo gli aveva imposto quel nome e l’aveva anche sposato con una meticcia
orfana, che era una donna assai per bene e figlia di un portoghese di
buon casato, al fine di aiutarlo ad accostumarsi a quel paese. Nell’anno 1534,
mentre andava in Cina con una grossa giunca, sulla quale trasportava anche sua
moglie e venti fra i più nobili e ricchi portoghesi della fortezza, giunto
all’isola di Pullo Catan, si fermò per rifornirsi d’acqua, con l’intenzione di
proseguire poi per il porto di Chincheo.
Ivi erano da due giorni, allorché essendo l’equipaggio tutto suo e
cinese come lui, una notte ordinò loro di sollevarsi: vennero così uccisi a
coltellate tutti i portoghesi e i loro figli mentre stavano dormendo e nessuno
che fosse cristiano venne lasciato in vita. Ordinò quindi alla moglie da farsi
pagana e di adorare un idolo custodito in uno scrigno da uno dei suoi uomini,
divisando di darla in...
...moglie a quest’ultimo, una volta che fosse libera dalla legge cristiana. In cambio avrebbe avuto una sorella di quest’uomo che viaggiava sulla stessa nave, e che era pagana e cinese come lui. Ma poiché non volle adorare l’idolo né acconsentire a tutto ciò che egli chiedeva, quel cane le diede una sciabolata in testa facendole schizzare fuori il cervello.
...moglie a quest’ultimo, una volta che fosse libera dalla legge cristiana. In cambio avrebbe avuto una sorella di quest’uomo che viaggiava sulla stessa nave, e che era pagana e cinese come lui. Ma poiché non volle adorare l’idolo né acconsentire a tutto ciò che egli chiedeva, quel cane le diede una sciabolata in testa facendole schizzare fuori il cervello.
Partitosi da quel luogo s’era recato a Liampo per far commercio e,
temendo di ritornare a Platane a causa dei portoghesi che colà si trovavano, se
ne andò a svernare in Siam. Tornato l’anno seguente a Chincheo, s’era
impadronito d’una piccola giunca che proveniva dalla Sonda, uccidendo tutti i
dieci portoghesi che l’occupavano. E poiché era già corsa voce su tutta la
costa del male che ci aveva arrecato, temendo d’imbattersi nelle nostre forze,
se n’era venuto in questa insenatura della Cocincia, per vendere la sua merce
come mercante e per assalire le navi come corsaro, ogni qualvolta gli si
presentasse un’occasione propizia. Già da tre anni aveva scelto quel fiume per
le sue scorrerie, poiché vi si sentiva al sicuro da noi, dacché le nostre navi
non erano solite far commercio nei porti di quell’insenatura e dell’isola di
Hainan.
(Fernao
Mendes Pinto, Peregrinacao)