IL GENOCIDIO

IL GENOCIDIO
UNA VITA NOMADE

lunedì 2 ottobre 2023

CORSA ALLA VETTA (17)

 









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con Giuseppe Tucci (15/6) 


(e taluni approfondimenti)  







Prosegue con il capitolo 


completo accompagnato 


(da alcune immagini...)







Quando avrai imparato a meditare, nonché disegnare con anima e spirito, la foglia e al lieve suo respiro, potrai salire in vetta!

 

Quando avrai compreso all’Albero a cui appartiene il suo Genio, solo allora potrai raccoglierne la luce profonda a cui alla sua ombra, Anima e Spirito aspirano e con loro Dio, ricomporre nella tua Conoscenza ugual smarrita foresta!




Quando scorgerai i colori della Stagione (e con Lei il breve Frammento di questa e ogni apparente esistenza) lenti smarrire la linfa nell’eterna promessa di vita per ogni Primavera, avrai compreso il seme della saggezza a cui la radice della foglia aspira: fondare il misero vostro Intelletto, o un più profondo Eremo meditativo aggrappato con salda la radice nella dura roccia.

 

Quando avrai compreso – ancora – donde, in Verità e per il vero, Intelletto e Pensiero derivano, mentre osservi attonito la Cima, l’intero Albero sarà bruciato al rogo della nuova Conoscenza, la quale per sua corrotta e deviata natura, ne priva la linfa della vita a cui ogni essere aspira.




E quando il non-essere si smarrì, non più al frutto d’una strana mitologia - o al peccato della conoscenza -, ma  all’ombra d’una diversa Selva, sognò l’Essere a cui apparteneva e che per Secoli havea vissuto e transitato sulla stessa Via incarnato per ogni trascorsa vita.

 

Sognò Cime Frammenti Pietre e Radici e con Loro, passate trascorse vite congiunte alla Natura d’un’eterna preghiera di nuovo cresciuta ai Rami degli Dèi, o al Golgota d’un medesimo Dio, assieme sacrificati all’uncinato altare della nuova materia politica.




Il rogo avanzò per ugual medesimo Sentiero: c’è chi della Selva aspira al solo rogo o calore del legno, e chi invece, ne medita la Cima della Conoscenza per ogni smarrita e più profonda elevata Saggezza!  




C’è, in verità e per il vero, nel karma di questa umile esistenza, chi pone l’Anima e lo Spirito, al rogo d’una strano Tempo senza il Tempo di Dio per solo poterlo svelare.

 

C’è, in verità e per il vero, chi condanna al patibolo d’una fallace breve conoscenza l’Anima dell’Infinito e le Stagioni di Dio; osserva: mentre corri verso la Vetta, la foglia smarrire la linfa con tanta troppa bellezza, per solo poter meditare la fine della breve sua e tua esistenza: quel colore, infatti, così soave che dipinge l’intera Selva, testimonia la promessa d’una nuova certezza, scolpita nel duro inverno dell’Universo, donde, in verità e per il vero, dal freddo d’un apparente Nulla trarrà sacrificio oblio o merito - del sofferto respiro - scolpito o imprigionato - per ogni nuova esistenza.




E sì! Di certo potrai correre per ugual medesima selva, rimembrare e aspirare alla Vita, per poi scoprire il corpo d’una diversa esistenza: ricorderai la Selva e i colori scomposti d’una antica esiliata e più profonda sacra conoscenza, per millenni transitata su ugual via; ricorderai come in un Sogno strano la trascorsa esistenza al patibolo d’un diverso Ramo, mentre soffocava o conferiva linfa da cui il frammentato soffocato respiro di Dio; rimembrerai il peccato commesso e colui che promise l’eterno perdono e Dio.

 

Ricorderai il cantico e la preghiera e la pace eterna di Dio.

 

Ti perderai nei flutti del torrente e con Lui diventerai Uno.




Guarderai smarrito il Suo sguardo mentre brilla al sole d’Autunno riflesso sul Torrente che parla per lingua d’ugual Dio.

 

Avrai certezza del male e del bene che passano lungo la stessa riva, e quando le ossa affioreranno come sassi dal letto d’un sogno antico a cui l’Anima aspira, mutilato dal demonio d’un diverso diavolo, comprenderai la poesia di Dio.

 

Quando osservi danzare il tuo primitivo Dio, Uno come l’Elemento che corre per donare Vita, avrai compreso il Suo segreto; scorgerai una lacrima nell’ululato d’una foglia d’autunno che riluce e brilla per l’intera Selva, e solo in quell’Infinita hora comprenderai come invoca il miracolo della Parola abdicata al Secondo d’una diversa ugual Vita donde deriva: chiedere il frutto dell’innata conoscenza in noi smarrito, implorare Poesia o Preghiera!  




Scorgerai non più Tempo Stagione e Vita, ma Uno e il miracolo della Natura, e con Lei il Sacro per sempre violato.

 

E solo quando avrai imparato a disegnare la foglia e comprenderne l’oracolo da Lei comandato, solo allora, dicevo, potrai salire in Vetta e conquistare il mondo?

 

Questo il problema all’Alba del nostro e loro giorno, smarrito o ritrovato per ugual tramonto mentre la Stagione compie l’apparenza del Tempo incamminato.




Giacché tutti aspirano alla Vetta della materiale conquista, pochi all’oro della foglia che si specchia e confonde nella corsa del torrente che dalla stessa sale e ne conquista la Cima della vera e più profonda conoscenza, comporre smarrita eterna preghiera e con Lei saggezza per sempre smarrita, o ancor peggio, precipitata nell’Abisso della materia!  

 

Allora non puoi stupirti se al bivio del Sentiero, al confino, la Cima, si scompone nel luogo del Sacro d’un Sogno violato e profanato dal demone della materia posto al servizio d’una strana parabola confonderne Parola; non ti stupire, ti dicevo, se in ugual medesimi  profanati templi per sempre dimenticati in nome del dio del progresso, scorgerai Mani comporre congiunte preghiere all’Altare di millenari profeti. 




Nel paradosso della materia l’Eresia invoca il proprio apparente disgiunto Frammento (apparentemente avverso all’Universo) nel motivo del Bene e del Male di questa e ogni vita implorare la Sua ugual Parola riflessa in una foglia che anch’essa narra la propria ed altrui precedente esistenza; compone hora la bellezza di questa smarrita Selva e che Dio benedica anch’essa!  

 

E con Lei ogni creatura!




 

 

ORSU’ PROSEGUIAMO IL SENTIERO 





 

  L’identità dell’autore del trattato Gli Dei e il Mondo è oggetto di un’antica controversia. Già il Tillemont, in base a numerosi passaggi del Res Gestre di Ammiano Marcellino, aveva distinto due personaggi legati all’imperatore Giuliano l’Apostata ai quali attribuire con eguale probabilità la paternità del trattato; in realtà da recenti studi effettuati dall’Anima dell’anacoreta si è scoperto un Terzo Sallustio, del quale la Storia ivi tracciata e ripercorsa in tutti questi eterni Sentieri ove mutilata del Genio, aspira alla somma taciuta perseguitata Verità.  

 

Dei due conosciuti transitati alla nostra ombra trattasi di Flavius Sallustius e di Saturninius Secundus Salustius. Entrambi sono noti anche grazie a due iscrizioni onorifiche ritrovate a Roma che consentono di conoscere il loro cursus honorum. In particolare da queste iscrizioni si ricava che Flavius Sallustius, originario della Spagna, fu prefetto del pretorio della Gallia dal 361 al 363, Saturninius Secundus Salustius, nato in Gallia, fu nominato prefetto del pretorio d’Oriente nel 361. Poiché sussistono argomentazioni a favore dell’uno o dell’altro personaggio per l’attribuzione del trattato, la critica si è divisa in due, noi facciamo riferimento al Terzo pressoché sconosciuto… di cui medesimo Giuliano udiva il Genio così ispirato…




 

a Sallustio...

 

 

I boscaioli continuavano il lavoro con la massima indifferenza, come se non ci fosse nessuno a osservarli. Quattro facevano andar su e giù la sega che aveva ormai oltrepassato la metà del tronco. Il quinto era salito per attaccare la fune che sarebbe servita per far cadere l’albero dalla parte giusta Seduto su di un sassone, da solo, vicino alla base dell’albero, stava uno dei genî, simile a tutti gli altri; era il Genio dell’Abete che si stava tagliando. Seguiva il lavoro dei boscaioli con grande attenzione.

 

Tutti stavano zitti.

 

Si udiva soltanto il rumore della sega e il fruscio dei rami mossi involontariamente dal vento. Il sole andava e veniva a causa delle frequenti nubi. Il colonnello notò che sull’abete che si stava abbattendo non c’era neppure un uccello mentre quelli intorno ne erano addirittura rigurgitanti.

 

Ad un tratto il Bernardi si staccò da un punto del semicerchio, avanzò per il terreno libero e si avvicinò al genio che sedeva solo, battendogli una mano sulla spalla.




 ‘Siamo venuti per salutarti, Sallustio!’

 

…disse a voce alta come per far capire che parlava anche a nome di tutti gli altri compagni.

 

Il Genio dell’Abete rosso si alzò in piedi, senza però staccar gli occhi dalla sega che rodeva il suo tronco.

 

‘Quello che succede è triste, non ci siamo assolutamente abituati’

 

 continuò il Bernardi con voce pacata.

 

‘Ma tu sai quanto io abbia fatto per cercare d’impedirlo. Tu sai che siamo stati traditi e che ci è stato rubato il vento’. 

 

E così dicendo rivolse i suoi sguardi, forse per puro caso, in direzione del colonnello Procolo, nascosto dietro la schiena dei Genî.

 

‘Siamo venuti a dirti addio’

 

…continuò il Bernardi.




 'Questa sera stessa tu sarai lontano, nella grande ed eterna Foresta di cui in gioventù abbiamo sentito tanto parlare. La verde Foresta che non ha confini, dove non ci sono conigli selvatici, né ghiri, né grillitalpa che mangiano le radici, né bostrici che scavino il legno, né vermi che divorino le foglie. Lassù non ci saranno tempeste, non si vedranno fulmini o lampi, neppure nelle calde notti d’estate’.

 

‘Ritroverai i nostri compagni caduti. Essi hanno ricominciato la vita, questa volta definitivamente. Sono tornati piantine a fior di terra, hanno di nuovo imparato a fiorire e sono saliti lentamente verso il cielo. Molti di loro devono esser già cresciuti bene. Salutami il vecchio Teobio, se lo rivedi, digli che un Abete come lui non si è più visto, e sì che sono passati più di 200 anni. Questo gli potrà far piacere’.

 

‘Sì, è un po’ dura una partenza così. Ci si era affezionati l’un l’altro e tutto questo sembra strano. Ma un bel giorno finiremo per ritrovarci. I nostri rami si toccheranno ancora, e riprenderemo i nostri discorsi e gli uccelli ci staranno a sentire. Ce ne sono lassù di grandi e bellissimi, uccelli a molti colori, come da queste parti non esistono’.

 

‘Ti confesso che avevo preparato un gran discorso, ma è meglio che parli così alla buona. Fra qualche giorno, forse domani stesso, qualcun altro di noi verrà a raggiungerti; può darsi che siano molti e che in mezzo ci sia pure io’.

 

‘Tu troverai il tuo posto pronto, ti rifarai con la pazienza un tronco, assai più bello di questo. Gli Abeti di quella foresta raggiungono anche i trecento metri e passano da parte a parte le nubi. In fondo ti ci troverai bene: chissà, fra due tre mesi, ho paura, avrai già dimenticato anche i fratelli del Bosco Vecchio, non ti ricorderai più nemmeno dei nostri tempi felici’.

 

Il Bernardi tacque.

 

L’altro gli strinse la mano, dicendo:

 

‘Grazie, adesso va’ pure con gli altri, perché mi pare che si metta al brutto. Non è il caso di fare cerimonie’.




Orsù procediamo per questo difficile Sentiero cancellato, o solo appena accennato.

 

Orsù proseguiamo per questa impervia mulattiera e non certo per brama della Cima, giacché aspiriamo - come l’Elemento che.....



...perenne transita in ogni Stagione della vostra Storia – all’antico Olimpo di Madre Natura.

 

Orsù miei invisibili eroi - perenni nemici dei tiranni così come dei loro fratelli ciclopi e titani - figli d’un Tempo eternamente perseguitato - avviamoci al lento risveglio dell’Autunno fino al rogo dell’Inverno, quando gli ‘humani’ si scaldano al sonno della nostra perseguitata Ragione; aspettiamo con ansia di parlare con il ghiaccio la neve ed il vento, e non certo per perseguitare barattare o tradire Madre Natura, semmai una antica Preghiera per essere appena compresa… e rinascere alla bellezza della Primavera…

 

Orsù miei Eroi, foglie che cederete presto Passo e cammino ad un antico Ramo d’oro, solo la neve del nostro comune invisibile Infinito - sonno simile all’universo e dio -, potrà dipingere il più bel panorama o altare di questa terra, ove potremo inciampare sul volgo o l’eterna smorfia della pur morta materia spacciata come cosa viva.




Orsù miei poeti dimenticati e oltraggiati, offuscati dalla superiore vista, prossima alla cecità assoluta, di colui che siede alla nostra Ombra!

 

Orsù miei incorrotti puri paladini che sempre ispirate sano intendimento, che mi curate del morbo odierno, voi mutilati dell’antico Genio, posti al rogo del volgo del falso intelletto, temprate lo Spirito martoriato e avvilito di tanta troppo sulfureo veleno… unito all’ingorda ignoranza mascherata da falsa saggezza, d’un sapere mai colto pregato o solo ammirato…

 

Orsù, avviamoci per questo Secolar Sentiero ad udire la voce del Vento, ad ammirare Alba e Tramonto in laude all’Infinito, e se inciampi su un tronco a forma di ingiuria, se l’uncino vuole mozzarti la lingua, se il cane abbaia più della bestia, se il lupo si maschera da agnello, se il tempo precipita e nessuno prega, solo Ulisse e il suo Omero,… solo il Profeta e l’oscura cometa potranno forgiare la Stagione persa all’uscita di questa caverna.




 Orsù mio amico non piangere anche se le ossa dei vivi ti mordono il collo come vampiri, i morti accoglieranno l’eterna preghiera di chi Straniero in questa Terra satura di tenebra spacciata per arte evolutiva.

 

Orsù aguzzino (tu che leggi ciò di cui non intendi e comprendi d’un linguaggio troppo antico, giacché sei materia avversa allo Spirito con cui parlo e scrivo…), che ci spii dall’alba alla sera della tua disonesta via condita con il pretesto d’un falso comandamento; tu che possiede l’arte moderna di compiere l’opera antica di demonizzare e confondere ogni Genio - e non solo dell’antica Selva.

 

Orsù cancro e moneta d’un diverso principio di questa ed ogni Terra leggi questa mia (giacché l’Anima parla con un antico superiore Destino…l’Albero del nostro comune Sapere lo intravedi appena: l’Autunno lo colora e forgia dell’Infinito Principio, per te solo moneta d’un diverso dio neppure compreso…) giacché Pensiero Idea ed Intelletto ti siano sempre nemici in questo comune cammino…

 

Noi aspiriamo all’infinito tu all’inutile ingorda materia, orsù demonio procediamo ancora…


(Giuliano....)  


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giovedì 28 settembre 2023

GIUSEPPE TUCCI (15)

 









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circa il Sacro... (14/1)  


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Giuseppe Tucci (16) 








& con una vita 


nomade... 








per la corsa 


alla vetta  (17)







Secondo la cosmografia mistica dei Tibetani e le più antiche tradizioni indiane, il Kailasa (6600 m. circa) è il centro dell’universo; ai suoi quattro lati si distendono quattro continenti, e dalla bocca di quattro animali favolosi, agli angoli di un lago che si allarga alla sua base, fluiscono quattro grandi fiumi: la Ganga (Gange), il Brahmaputra, la Satlej e la Sita.

 

L’esplorazione geografica della contrada, cominciata da Strachey e seguita da Sven Hedin, ha rintracciato le sorgenti di questi fiumi, e i miti antichi hanno ceduto di fronte alla investigazione scientifica moderna, ma sta di fatto che alcuni dei massimi sistemi fluviali dell’Oriente scaturiscono proprio nelle immediate vicinanze di questa montagna, che è forse la più sacra dell’Oriente. Tanto sacra che la gente ci va in pellegrinaggio dai confini della Cina e della Mongolia e dalle più lontane province dell’India: oggi come forse agli albori del vivere civile; e se anche altri monti dell’Asia, e specialmente della catena himalayana, sono considerati particolarmente sacri per la favoleggiata presenza di Dio, non c’è dubbio che a nessun altro si gira intorno con tanta devozione.




 La natura pare abbia provveduto tagliando un corridoio lungo letti di fiumi e forre agevoli, quasi strada spontaneamente aperta alle folle adoranti.

 

Prima ancora che il Tibet si convertisse al Buddismo e col Buddismo accettasse molte tradizioni religiose indiane, il Kailasa era forse il massimo Dio fra la gente di pastori nomadi e predoni, che popolava con i suoi mobili accampamenti lo squallore dei deserti circostanti. Il culto della montagna è elemento fondamentale nelle religioni di tutte le stirpi himalayane: ed è naturale, perché proprio i montanari sono i più sensibili alle ineffabili bellezze di queste cime che toccano il cielo, e ne temono le insidie, e ne conoscono la terrifica maestà quando la tempesta si scatena sui dirupi, e il tuono urla di giogo in giogo, e i fulmini scoppiano sulle guglie mai violate dall’uomo.




Lo dovevano chiamare Tise, e il nome è restato anche oggi: poi i Bonpo, che precedettero con la loro religione i Buddisti favoleggiarono che sulle vette ghiacciate abitasse una coorte di 360 deità dette ghicòd, forse simbolo e immagine dei 360 giorni dell’anno roteanti intorno all’asse del mondo.

 

Gli Indiani lo conoscono come il Kailasa, e lo venerano come il paradiso di Sciva: sul picco adamantino che sembra lambire il cielo di turchese è il palazzo del supremo Dio dell’olimpo indiano: alle sue solitudini ed ai suoi silenzi i fedeli oranti e meditanti trassero fin dagli albori della civiltà indiana. Fu anche identificato spesso con la montagna mitica chiamata Meru o Sumeru, che è come la colonna o il pilastro intorno a cui si svolgono i mondi e sulla quale, per piani successivi, si succedono i paradisi e le sedi degli Dei.




Questa è la montagna a cui, in cerca di pace, muovono gli eroi della guerra mahabharatiana: i Panduidi, stanchi alfine delle dure lotte, la sciano il regno a Paricscit e vestiti da asceti cominciano, sotto la guida del pio Iudistira, la difficile e lunga ascesa delle catene himalayane verso il sacro monte oltre le cui nevi ed i cui ghiacci albergano, in sedi accessibili soltanto al puri, le schiere celesti; poco alla volta, incapaci di resistere alle fatiche del viaggio e alla disciplina dello yoge, fratelli cascano al suolo lasciando solo Iudistira col suo cane fedele.




Più aspra si fa la strada, ma l’eroe non cede: ed alfine le porte del cielo gli si aprono. Ma quando gli Dei gli annunciano che non può entrarvi in compagnia di un animale impuro, come è il cane, Iudistira è pronto a rinunciare al cielo piuttosto che abbandonare il compagno, ed allora il cane  miracolosamente si tramuta nella figura della Giustizia, e l’eroe, vinta anche quest’ultima prova, è degno del supremo godimento delle più alte beatitudini.




Insomma la tradizione indiana ha sempre considerato questi paesi come il centro del mondo e la porta del cielo.

 

I Buddisti poi immaginarono che al Kailasa albergasse Samvara simbolo di una delle supreme esperienze mistiche aperte all’asceta: e nel Tibet chiamarono la montagna Kanrinpocè ‘la gemma di ghiaccio’, nome che è passato oramai sulle nostre carte.




Io di montagne ne ho viste e ne ho scalate tante, che debbo essere creduto quando affermo che il Kailasa esercita su chi lo vede la prima volta profilarsi all’orizzonte un’impressione di superba bellezza che non si può dimenticare. E si comprende come i pellegrini indiani, che affluivano dalle pianure attraverso le aspre gole himalayane, piegassero le ginocchia alla prima vista di questa montagna e la celebrassero come dimora dei loro Dei.

 

Il cono adamantino del Kailasa si scopre per la prima volta da un arido costone che separa il lago Manosarovar dal Raksas Tal: si vede lo scintillare della cima superba sotto un cielo di turchese, quasi solitaria vedetta fra un lento ondeggiare di altri giganti che fuggono verso nord in un indefinito inseguirsi di guglie e di picchi. Visibile da molti punti del Manosarovar, a Barka appare in tutta la sua magnificenza; Barka è una casa in mezzo ad accampamenti di pastori e di nomadi, sulla pianura che si protende immensa come una landa sconfinata.




A Darchin il Kailasa non si vede già più: gli si è proprio sotto. Darchin è una casa, o meglio un fortilizio in cui vive con i suoi scherani un prefetto di polizia, il quale deve tenere a bada le bande di briganti che scendono dai Passi a nord e ad est, e rapinano gli accampamenti e le mandrie dei pastori. Pellegrini, mercanti e pastori s’aggruppano intorno alla casa del Prefetto, quasi in cerca di protezione e di difesa: vivono in squallide tende insieme col loro gregge e le loro merci. Sani e malati, pastori e laici, venuti quassù, su questa terra santa, a mercantare e a pregare, a elemosinare e a rubare.

 

Indiani e Tibetani, gente di tutte le favelle e di tutti i costumi: ma divisi per province, raggruppati secondo i paesi da cui vengono. C’è un fiume che scorre quasi sotto la casa del Prefetto e divide la zona, diremo così, propriamente tibetana da uno spiazzato largo su cui piantano le tende soltanto i pellegrini indiani.




Io pure mi sono accampato vicino agli Indiani, perché il terreno è più alto e più pulito, e meglio ci si difende dall’assalto dei mendicanti e dei lebbrosi, che vengono ad implorare la carità, e non sono mai soddisfatti, e ritornano con la petulanza di cani famelici. Ma ogni momento scendiamo fra i Tibetani, in cerca, ora di libri, ora di oggetti preistorici che, trovati scavando la terra, si crede siano piovuti dal cielo, e sono perciò cuciti sulle vesti come talismani infallibili. Chi ne possegga nove è così munito contro gli assalti delle forze cattive e così ben corazzato, che si crede porti fortuna a tutto il villaggio in cui, per caso, venga a trovarsi. Chi vuole far raccolta di oggetti preistorici deve, nel Tibet, andare in cerca di cose cadute dal cielo: se no, nessuno l’intenderebbe.




Darchin è luogo di sosta: qui fanno capo le carovane di pellegrini, e di qui partono le colonne per compiere la circumabulazione della montagna: giro che i Buddisti e gli Indù fanno tenendo la montagna sempre destra ed i Bonpo invece in senso contrario. Le persone che ci vedevamo venire incontro durante il nostro cammino erano perciò tutte seguaci di questa religione, che sta quasi per scomparire.

 

Il circuito del Kailasa si può benissimo compiere in due o tre giorni al massimo: ma io ce ne ho messi di più perché ho voluto visitare i monasteri che pietà di fedeli e munificenza di principi hanno costruito nelle sue gole.




Qui i monasteri sono davvero quello che il nome tibetano significa: dgon pa, cioè luogo solitario e silenzioso, Si tratta infatti di veri e propri romitori, che, quando le istituzioni monastiche si sono diffuse nel Tibet, hanno preso le proporzioni di modesti conventi. Modesti perché in mezzo a questi deserti rocciosi, lontano dai centri abitati o dai grandi bazar, non potrebbe che vivere una popolazione numerosa di monaci; piccole comunità di persone meditanti, che nei silenzi di queste gole remote cercavano realizzare le supreme esperienze.

 

Adesso, in quel generale decadimento che ha soffocato ogni slancio di vita spirituale e distrutto ogni gloria politica di questa terra sacra alla memoria del Buddismo, i monaci sono scarsi e gli asceti più rari e vivono speculando sui ricordi di secoli passati ove vi conseguirono la loro perfezione spirituale.




La paura dei predoni che infestano le valli vicine e possono scendere da un momento all’altro dai valichi imminenti induce i pellegrini a cercare rifugio in questi monasteri che si tramutano in alberghi e dormitori chiassosi, nei quali favelle e religioni si confondono e si affratellano sotto la minaccia dei briganti.

 

I monaci sono lieti di concedere questa ospitalità, che non solo è opera umana e caritatevole, ma frutta ad essi ed al convento non dispregevoli prebende. Ché anche qui i Lama sono avidi di danaro e bramosi di mercatare. Ecco perché i monasteri sono quasi deserti: i monaci sono scesi nelle fiere a vendere, barattare, fare affari, impartire benedizioni e strologare.


(PROSEGUE)