CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

domenica 10 dicembre 2023

DOVE REGNANO DIRITTO e DEMOCRAZIA? (ovvero, dall'altra parte del muro... e alla Storia ampia sentenza!) (23)





 







Precedenti capitoli 


sul principio 










della corruzione (19/21) 


& la Storia (22)  continua



 




....con il sistema KGB 


(& i suoi nuovi zar)









Nel mese di agosto del 1961 una nuova recluta della Stasi di nome Hagen Koch percorreva le strade di Berlino con un barattolo di vernice e un pennello, tracciando la linea dove doveva sorgere il Muro. Aveva ventun anni ed era il cartografo personale del segretario generale Honecker. A differenza di molti capi di stato, Honecker aveva bisogno di un cartografo personale, perché stava ridisegnando i limiti del mondo libero.

 

L’appartamento di Koch è la cella in un alveare, un casamento in cui molti ex agenti della Stasi abitavano con le loro famiglie prima della caduta del Muro, e ancora vi abitano. I balconi sono stati ridipinti tutti in un colore rosato. Su alcuni di essi gli ombrelloni svernano arrotolati in letargo.

 

L’uomo che apre la porta emana una specie di alone – un viso luminoso, stempiato, occhi castani. Koch fa un gran sorriso e mi stringe la mano. Gesticola vistosamente, come un direttore di circo. ‘Benvenuta all’Archivio del Muro’, dice.

 

Lungo il corridoio sono appese le fotocopie a colori, incorniciate, di mappe della Stasi che un tempo erano top secret. Mostrano vari tratti del Muro in veduta aerea, con un codice di colori per le torri di guardia, le mine, i cani e le trappole a filo. Gagliardetti neri gialli e rossi della Germania Est sono affissi alle pareti e il giubbetto di un’uniforme della guardia d’élite dei leader, il reggimento Felix Dzershinski, è appeso a una stampella, afflosciato come uno spaventapasseri. Ricordi più oscuri del regime sono chiusi dentro vetrinette. Mentre percorriamo il corridoio mi sembra di vedere un centrino lavorato all’uncinetto nei colori nazionali.




Koch comincia subito a parlare e quando arriviamo al suo studio sta già elencando sulle dita i vip che sono venuti a visitare lui e il suo archivio. Dietro la scrivania la grande targa dorata con il martello e il compasso della Germania Est luccica giusto all’altezza della sua testa. La stanza è tappezzata di articoli di giornali in cornice. Le fotografie mostrano Koch con i suoi visitatori. Lui guarda dritto nell’obiettivo, con il suo viso dai lineamenti netti, rotondo e gongolante: Koch con la regina di Svezia, Koch con un attore di Star Trek, Koch con Christo, l’artista imballatore.

 

È perfettamente a suo agio con il microfonino del mio registratore. Quando gli chiedo se posso agganciarglielo alla camicia me lo prende e lo brandisce come una rockstar. Ha gli avambracci color miele carico e leggermente pelosi.

 

Gli chiedo come abbia chiesto di far parte della Stasi.

 

‘No, no, no, no. Non è così che funzionava. Dovevano sceglierti loro’.

 

A quanto pare è uno dei pilastri del sistema: non chiamarci, ti chiamiamo noi.




Chi è che l’ha scelta, allora?

 

‘Un momento’,

 

…dice lui.

 

‘Per lei sarà difficile capire. Senza sapere della mia infanzia non si spiegherà perché uno avrebbe voluto appartenere alla Stasi’.

 

Questo non è vero. Ho riflettuto a fondo sui motivi per cui se ne sarebbe voluto far parte. In una società congelata in “noi” e “loro”, un giovane ambizioso può benissimo desiderare di essere uno del gruppo che conta, uno di quelli non molestati. Se non ci fosse mai fine al tuo paese, e tu non potessi andartene, perché non dovresti optare per una vita pacifica e una carriera soddisfacente?

 

Quello che mi interessa è il processo con cui si affronta quella decisione ora che è finito tutto. Puoi rielaborare il tuo passato, la sabbia che gratta dentro di te, fino a rendere quel passato lucido e levigato come una perla?




 ‘La mia educazione fu così…’

 

…cerca le parole,

 

‘così… Ddr’.

 

Alza e abbassa le sopracciglia.

 

‘Tutto ciò che era Ddr-positivo, quello ero io’.

 

Koch si gira verso uno scatolone che sta a terra accanto alla scrivania. ‘A mettermi su questa strada fu mio padre’. Prende dalla scatola una fotografia ingiallita del padre in uniforme dell’esercito, con l’espressione che hanno spesso gli uomini nelle fotografie da militare, come se fossero già altrove. Poi torna al cartone e tira fuori una pagella scolastica. Me la mostra e vedo la vecchia grafia gotica. Koch comincia a leggere:

 

‘Hagen è stato un allievo diligente e preciso…’.

 



E poi legge la relazione fino alla fine. Siamo all’inizio della sua vita. Guardo lo scatolone, e vedo che è profondo. A quanto pare questo pomeriggio sfoglieremo uno dopo l’altro tutti quei fogli imbustati dal primo all’ultimo nella plastica.

 

‘Deve vederlo’,

 

…dice,

 

‘nel contesto di mio padre, e della propaganda della Guerra fredda – la Ddr era come una religione. Era una cosa in cui mi avevano insegnato a credere…’

 

Parla con voce appassionata e forte, anche se sono seduta a un passo da lui e la stanza è piccola. Lo guardo mentre muove braccia e microfono. Estrae altre fotografie, altri documenti, e gli sento dire: ‘Come vede dopo la guerra non avevamo materassi, i buchi nelle calze…’.




Ma io sto rimuginando sull’idea della Ddr come articolo di fede. Il comunismo, almeno della varietà tedesco-orientale, era un sistema di fede chiuso. Era un universo nel vuoto, completo di inferni e paradisi autoprodotti, di castighi e redenzioni fabbricati qui sulla Terra. Molte delle punizioni erano inflitte semplicemente per la mancanza di fede, o anche per la sospetta mancanza di fede. L’infedeltà era calibrata fin nei segni più minuti: l’antenna puntata in modo da ricevere la televisione occidentale, la bandiera rossa non esposta il Primo maggio, qualcuno che racconta una barzelletta spinta su Honecker per pura e semplice igiene mentale.

 

Ricordo madre Eugenia a scuola, con le sue dita a salsicciotto, che spiegava il “salto di fede” che era richiesto perché l’universo chiuso del cattolicesimo avesse un senso. Le sue dita facevano il salto, rosa e inverosimili, mentre noi bambini disegnavamo i “frutti dello spirito santo” – una banana per la redenzione, ricordo – e io non riuscivo a pensare ad altro che a un personaggio-salsiccia che saltava dal ciglio di un dirupo, convinto che la mano di Dio lo avrebbe sostenuto a mezz’aria. La sensazione di avere qualcuno che esamina quanto vali interiormente, la violenza dell’idea che quel valore possa comunque essere misurato, era la stessa. Dio poteva vedere dentro di te per calcolare se la tua fede fosse sufficientemente salda per salvarti. Anche la Stasi poteva vedere nella tua vita, solo che aveva molti più figli sulla Terra ad aiutarla.




La Ddr, nei suoi quarant’anni, cercò strenuamente di creare l’Uomo socialista tedesco e insieme di portare la gente a credere in lui. L’Uomo socialista tedesco doveva essere diverso dall’Uomo nazista tedesco, e diverso dall’Uomo occidentale (Imperialista capitalista) tedesco. La storia veniva insegnata come una serie di inevitabili salti evoluzionistici verso il comunismo: dallo stato feudale al capitalismo e poi – nel più grande balzo in avanti mai compiuto – al socialismo. Il nirvana comunista era il mondo a venire. Mi attraversano la mente diagrammi darwiniani che mostrano l’uomo in una successione di fasi in cui è sempre più eretto e meno peloso: dalla scimmia a Neanderthal a Cro-Magnon al Moderno. Ed ecco di fronte a me l’Uomo socialista, levigato e appassionato e molto, molto loquace.

 

Mentre Koch si tuffa per l’ennesima volta nello scatolone, mi chiedo se abbia mai provato il desiderio di essere uno scolaro distruttivo e indisciplinato anziché diligente e preciso; se questo gli avrebbe risparmiato di portarsi dietro per tutta la vita il suo scatolone giustificativo.

 

‘La mia storia viene direttamente dalla storia di mio padre’.




Hagen Koch mi passa di nuovo la fotografia del padre, e Heinz Koch mi guarda da un secolo più giovane. Ha gli stessi occhi castani del figlio, ma su un viso più sottile, più dubbioso.

 

Heinz Koch era nato in un piccolo centro della Sassonia il 5 agosto del 1912, e venne cresciuto come figlio del sarto del paese. Un giorno, quando aveva sedici anni, arrivò a casa di corsa da scuola, sconvolto, con la pagella in mano. Nello spazio “Nome” c’era scritto: “Koch, Heinz, nipote del mastro sarto.” Koch tira fuori una pagella ingiallita dalla scatola. ‘Questo capitava il 23/3/1929’, dice, agitando il documento. ‘Quel giorno mio padre venne a sapere che era un figlio illegittimo – la sorella maggiore era sua madre!’ Heinz rimase frastornato all’idea che tutti gli avessero mentito: Tutti voi mi avete tenuto nascosta questa cosa per così tanto tempo?

 

Chi era il suo vero padre?

 

‘Ci arriverò’,

 

…dice Hagen.




‘Secondo il codice morale tedesco di quel tempo, l’illegittimità era una cosa terribile, vergognosa’.

 

Gli amici di Heinz gli dichiararono immediatamente l’ostracismo costringendolo a lasciare la scuola. Decise di entrare nell’esercito, sperando che l’uniforme nascondesse lo stigma della sua nascita. Nel settembre del 1929 si arruolò per una ferma di dodici anni.

 

Heinz Koch ottenne più di quanto avesse cercato. Quando doveva scadere il suo periodo di servizio, nell’ottobre del 1941, si trovava di stanza in Francia con la forza di occupazione nazista e non poté essere congedato. Nel maggio 1945, dopo la resa di Berlino, il sergente maggiore Koch riuscì in qualche modo a tornare a Dessau, dalla moglie e i due figli piccoli. Viaggiò su un territorio di crateri provocati dalle bombe, attraverso città in macerie. La gente impazziva di dolore e di segreti. Nei boschi e sulle strade c’erano profughi, criminali di guerra, gruppi di terroristi e forze alleate che avevano iniziato la guerra fredda tra loro prima ancora che finisse quella calda.




A Dresda gli parve di sentire l’odore della carne in decomposizione. Ma, una settimana dopo la fine della guerra, Heinz Koch era a casa. Alla Conferenza di Potsdam, Dessau fu ceduta ai russi.

 

Lo sollevarono dal servizio attivo.

 

Koch parla, pesca nella scatola dei documenti, parla. Poi si sporge in avanti come per comunicarmi un’informazione pesante. Sento l’odore del suo dopobarba. ‘Il primo settembre 1945’, dice, ‘il comando sovietico concesse a Heinz una Autorizzazione a circolare in bicicletta’.

 

C’era bisogno di un permesso? domando.

 

‘Sì, perché potevano portare dei messaggi! Trasmettere informazioni!’ esclama Koch. ‘Non c’erano altri mezzi di trasporto. Chi andava in bicicletta poteva sfuggire ai posti di blocco, poteva avere abboccamenti segreti’.




Evidentemente, l’atmosfera di paranoia si era insediata fin dall’inizio della presenza russa. Comunque, comincio a preoccuparmi del livello di dettaglio in cui stiamo sprofondando. Lancio un’occhiata a quella scatola senza fondo, chiedendomi se ci stiamo impantanando per il gusto di farlo o se verrà fuori un senso dalla faccenda della bicicletta. Poi, mentre si volta per rimettere il documento nel suo contenitore, dice: ‘Ma prima, lei capisce, dovettero esaminare i suoi precedenti per assicurarsi che non fosse una cattiva persona’.

 

Era questo il punto?

 

Koch stava usando tutto il materiale a sua disposizione – in questo caso un permesso di circolazione – per costruire o confermare una storia sull’innocenza di suo padre durante la guerra?

 

È chiaro che c’è una porzione del passato, qui, che non può essere sostenuta con fatti, o documenti. Tutto quello che c’è è un’autorizzazione ad andare in bicicletta.




Immediatamente dopo la fine della guerra gli Alleati si spartirono il nemico battuto. Inglesi, americani e francesi occuparono la parte occidentale della Germania, e la Russia prese gli stati orientali di Turingia, Sassonia, Sachsen-Anhalt, Meclemburgo-Pomerania occidentale e Brandeburgo. Berlino fu divisa allo stesso modo tra i vincitori: i quartieri occidentali a inglesi, francesi e americani, quelli orientali all’Urss. Ma, poiché la città sorgeva nel cuore della zona orientale, i suoi sobborghi occidentali divennero una singolare isola di amministrazione democratica e di economia di mercato in un territorio comunista.

 

Nelle loro zone, le potenze occidentali diedero la caccia ai pezzi grossi del nazismo e istituirono assetti democratici di governo: un sistema federativo di stati, la divisione dei poteri politici, amministrativi e giudiziari, e la garanzia della proprietà privata. Nel 1948 consegnarono queste istituzioni alla neonata Repubblica federale tedesca (la Germania Ovest) insieme con massicce iniezioni di fondi in base al Piano Marshall americano.




I russi gestirono direttamente le parti orientali della Germania fino alla fondazione, nel 1949, della Repubblica democratica tedesca come stato satellite dell’Urss. La produzione fu nazionalizzata, le fabbriche e le proprietà assegnate allo stato, l’assistenza sanitaria, gli affitti e l’alimentazione furono sovvenzionati. Fu istituito un regime monopartitico sostenuto da un servizio segreto onnipotente. E i russi, avendo rifiutato l’offerta di capitale americano, saccheggiarono per proprio uso la produzione della Germania Est.

 

Spogliarono le fabbriche di impianti e macchinari mandandoli nell’Urss. Al tempo stesso, pretesero una retorica di “fratellanza comunista” dai tedeschi orientali, che avevano liberato dal fascismo. Quali che fossero le loro storie personali e le loro tendenze private, gli abitanti di questa zona dovettero passare dall’essere (se non altro retoricamente) nazisti un giorno a essere il giorno dopo comunisti e fratelli dei loro precedenti nemici.




E quasi dall’oggi al domani i tedeschi degli stati orientali furono resi, o si resero, esenti dal nazismo. Sembrava che credessero davvero che i nazisti provenissero dalle parti occidentali del paese, e che lì erano tornati, e che erano in qualche modo differenti da loro – il che non era affatto vero. Così la storia fu in breve rifatta, e con tanto successo che si può affermare che gli orientali non sentivano allora, e non sentono oggi, di essere gli stessi tedeschi responsabili del regime di Hitler. Questo gioco di prestigio storico si colloca sicuramente come una delle più straordinarie manovre di innocenza del secolo.

 

Una volta, a Dresda, su un ponte azzurro sul fiume Elba, ho visto una targa che commemorava la liberazione dei tedeschi orientali dagli oppressori nazisti a opera dei loro fratelli russi. L’ho guardata a lungo, una piccola cosa sbiadita dallo sporco dell’aria. Mi sono chiesta se fosse stata posta lì immediatamente dopo l’arrivo dei russi nella Germania sconfitta, o se fosse stato lasciato passare un certo tempo prima che si potesse cominciare a riscrivere in che modo erano andate le cose.




Per iniziare un nuovo paese, con nuovi valori e cittadini socialisti di nuovo conio, è necessario cominciare dall’inizio: dai bambini. I maestri delle regioni orientali furono immediatamente licenziati perché avevano lavorato a educare i bambini nei valori del regime nazista. Bisognava creare insegnanti socialisti. Le autorità formularono programmi di formazione semestrali per gli “insegnanti del popolo”, che poi entrarono nelle scuole. Nel febbraio 1946 Heinz Koch, che personalmente non aveva completato gli studi, era un maestro pienamente qualificato nel villaggio di Lindau, a trenta chilometri da Dessau.

 

Nell’ottobre di quell’anno, in Germania Est furono tenute le prime elezioni “libere e democratiche”. In effetti, per tutta la vita della Germania Est le elezioni si tennero con regolarità. Sulla scheda elettorale erano presenti i rappresentanti di tutti i partiti maggiori: copie carbone dei partiti che esistevano nella Germania Ovest. C’erano i democristiani (Cdu) di centrodestra, i liberaldemocratici (poi Fdp) e i comunisti (Sed). Per quarant’anni, un’elezione dopo l’altra, i risultati vennero trasmessi alla televisione: e sempre, in misura schiacciante, vincevano i comunisti. Risultati di problematica credibilità: 98,1 percento; 95,4 percento; 97,6 percento.




Niente di tutto questo, però, era evidente nel 1946. A quel tempo era possibile, solo possibile, che in qualche modo emergesse uno stato socialista che tenesse fede alla “democrazia” presente nel suo nome. Avevano tutti vissuto l’inferno in Terra; non meritavano un paradiso? I sogni della gente erano stati temprati dalla sofferenza, forgiati in fogge nette e definite.

 

Heinz Koch fondò la sezione di Lindau del partito liberaldemocratico e si presentò alle elezioni a sindaco. Lì settembre è un mese di lunghi crepuscoli, la luce filtra fino a tardi tra le foglie, ancora sugli alberi. Perfino in questa terra di macerie e polvere c’era spazio per la speranza. Questa, dopotutto, era un’elezione: c’erano partiti, c’erano candidati, c’erano campagne locali e seggi elettorali.




E c’era una scheda elettorale su cui il nome del candidato del Partito comunista era in cima alla lista. Poteva essere una coincidenza, solo che accanto al nome di questo candidato, “Paul Enke”, non c’era scritto “Candidato del Sed” ma, di già, “Sindaco”.

 

Eppure, quando il voto fu espresso, fu chiaro che Heinz Koch aveva vinto le elezioni. Lindau era un piccolo centro: i liberaldemocratici ottennero 363 voti, il Sed 289 e il Cdu 131. La gente non voleva più destra o sinistra: voleva proseguire al centro della strada. ‘Ma Enke il comunista’, dice Koch, ‘era presidente della commissione elettorale’. Enke convocò immediatamente una riunione al municipio, “per la valutazione del voto”.

 

Koch mi racconta che la sala era piena di donne, alcune con i figli. C’erano alcuni vecchi, ma di giovani e di mezza età non ce n’erano quasi. Enke salutò tutti e poi si rivolse alla sala: ‘Allora, dove sono tutti i vostri uomini?’.




Ci fu silenzio, qualcuno si agitò sulla sedia.

 

‘Caduti in guerra’, fu una risposta.

 

‘Dispersi in azione’, disse un’altra voce.

 

Una donna mormorò: ‘Non lo so’.

 

Poi dal fondo della sala arrivò una voce. ‘Mio marito è prigioniero di guerra in Russia’.




Enke colse il suo momento. ‘Quanti dei nostri uomini sono nei campi di prigionia?’ domandò. Cominciarono ad alzarsi le mani, dapprima lentamente, ma poi diventarono molte. ‘Per quanto tempo tuo marito ha servito nelle forze armate?’ chiese Enke a una donna seduta in prima fila. ‘Un anno’, rispose lei. Le risposte cominciarono ad arrivare da tutta la sala: cinque anni, tre anni, sette anni.

 

‘E per questo sono stati presi prigionieri di guerra?’

 

‘Questo è quello che è successo’, dissero le donne.

 

‘Bene, allora vi chiedo’, disse Enke, ‘ritenete giusto che i vostri uomini, che hanno servito tre anni, cinque anni, sette anni nelle forze armate, siano in prigione, mentre il sergente maggiore Koch qui alla mia destra, che ha servito in quell’esercito fascista imperialista per sedici anni, deve farla franca? Nemmeno un solo giorno di punizione?’ ‘E in questo modo’, dice Koch, ‘mio padre fu condannato a passare sette anni in un campo di prigionia’.

 

‘Come? Semplicemente così?’ chiedo io.




Ora Koch è agitato. ‘Vennero i russi e lo presero in custodia. Era così che funzionava. E la gente diceva che era giusto che fosse così. Se mio marito è rinchiuso laggiù, deve andarci anche lui’.

 

Tra il 1945 il 1950, la polizia segreta russa rinchiuse prigionieri di guerra, nazisti e altri come il sergente maggiore Heinz Koch che potevano essere d’impaccio. Riutilizzarono i campi di concentramento nazisti di Sachsenhausen e Buchenwald e altre strutture, e quando queste furono piene costruirono nuove prigioni, o mandarono la gente in Russia. Si calcola che dopo la guerra circa quarantatremila di queste persone morirono di malattie, di malnutrizione o di violenza. A Lindau la popolazione aiutò i vincitori a punire i propri concittadini, trovando la cosa giusta.




Dopo quasi un mese di detenzione, il 22 ottobre 1946, Enke venne a visitare il suo prigioniero. Heinz credette che la sua ora fosse giunta. Enke iniziò su un tema insolito. ‘Oggi, a quanto ne so, è il compleanno di tua moglie’, disse. ‘Sì’. ‘Non sarebbe un bel regalo per lei se tornassi a casa? Che cosa ne dici?’ Heinz rimase confuso. Si stava preparando alla deportazione. ‘È… è possibile?’ chiese. ‘Certamente. Io, dopotutto, sono un maggiore, e quello che dico si fa’.

 

Ci fu una pausa, quindi la cosa gli divenne chiara. ‘Quali sono le condizioni?’ domandò Heinz.

 

‘Rilassati, compagno, rilassati. È semplicissimo. Non devi far altro che lasciare i liberaldemocratici e passare con noi. Diventare membro del Partito di unità socialista. Appena questo succede, posso portarti a casa. Anzi, potrei portartici oggi stesso’.




Koch mi guarda fisso.

 

‘Lei che cosa avrebbe fatto?” mi domanda. In che senso mio padre avrebbe dovuto decidere?’

 

Per la moglie e la vita, ovviamente, dico io.

 

Koch è compiaciuto, sorride e annuisce e agita il microfono. ‘Quindi’, dice, ‘il giorno del compleanno della moglie Heinz cambiò partito e andò a casa’.




In questo modo il Partito comunista di Lindau annientò la sua opposizione e al tempo stesso installò uno dei suoi uomini come maestro nella scuola elementare locale, sotto la minaccia di deportazione in un campo di prigionieri di guerra. Lo tenevano là dove potevano tenerlo d’occhio: c’era un’unica scuola, e i figli di tutti i membri del Partito andavano lì.

 

Più tardi, quello stesso anno, Hagen cominciò ad andare a scuola. Heinz insegnava la dottrina del comunismo a tutti i suoi alunni, compreso il suo bambino. Si trovò a educare buoni cittadini socialisti per un regime che aveva cercato di distruggergli la famiglia, e la vita.




Verso la fine del 1946 i comunisti fondarono i Pionieri, un’organizzazione giovanile destinata a instillare nei ragazzini l’amore per Marx e per la patria. Per i più grandi fu istituita la Gioventù libera tedesca. Lo schema rispecchiava esattamente il Pimpfe nazista per i bambini piccoli e la Gioventù hitleriana per gli adolescenti. Si diceva scherzando che la Gioventù libera tedesca e la Gioventù hitleriana erano così simili che solo il colore dei fazzoletti che portavano al collo li distingueva. In entrambe c’erano riunioni, fiaccolate, un giuramento di fedeltà e una cerimonia di conferma per i tredicenni, completa di candele e formule simili a preghiere.

 

Tutti i bambini piccoli erano tenuti a iscriversi ai Pionieri. Ma questo avvenne troppo presto per gli abitanti di Lindau. Puntarono i piedi vedendo i loro figli ancora una volta marciare inquadrati e si rifiutarono di vestirli di nuovo in uniforme come richiesto dal potere. Heinz Koch fu arrestato e messo dentro.




Disse Enke: ‘Perché gli altri bambini dovrebbero iscriversi se il figlio del maestro non lo fa?’. Era necessario che Heinz Koch desse l’esempio tramite suo figlio. Fu rilasciato e gli fu data una altra opportunità di dimostrare perché non dovesse essere deportato.

 

Koch attinge alla sua scatola e tira fuori una piccola sciarpa azzurra. ‘Così, come risultato, il 13 dicembre 1946 io fui il primo bambino a portare questo fazzoletto al collo’. Fu così che Hagen Koch divenne un Musterknabe, un bambino modello per il nuovo regime.

 

Il mio sguardo si è spostato sulla parete dietro di lui. Accanto alla targa dorata è appeso un calendario che mostra il torso nudo di una donna in una foresta. Il fotografo le ha tagliato la testa e le gambe all’altezza delle ginocchia. La didascalia dice: “Area naturale”.




Hagen Koch torna alla sua scatola, la sua collezione di curiosi talismani provenienti da un mondo scomparso. ‘Le faccio vedere questo coleottero’, dice, tirando fuori un poster. Lo srotola: ‘FERMIAMO IL PARASSITA AMERICANO!’ è scritto in grandi lettere maiuscole in cima al manifesto. Sotto c’è il disegno di un bambino che tiene una lente d’ingrandimento puntata verso il suolo. Sotto la lente c’è un insetto con un viso umano e grandi denti umani. Il coleottero, una dorifora, indossa una giacca dei colori della bandiera americana, e la sua faccia è quella del presidente Truman. ‘Erano appesi in tutte le nostre scuole’, dice, e spiega perché.

 

Nel 1948 i russi decisero che ne avevano avuto abbastanza di quella piccola isola di imperialismo capitalista che era Berlino Ovest. Brulicava di spie di paesi nemici. Era una testa di ponte per gli Alleati sul suolo socialista. In un assedio in pieno stile moderno, le forze di Stalin bloccarono le vie di rifornimento terrestre che attraverso la Germania Est arrivavano a Berlino Ovest. La notte del 24 giugno 1948 spensero le centrali che portavano l’elettricità alla città. Gli abitanti di Berlino Ovest dovevano morire di fame al buio.




Ma gli Alleati non potevano abbandonare due milioni di berlinesi. Per quasi un anno, dal giugno 1948 al maggio 1949, tennero viva la città dal cielo. In quel periodo gli aerei americani e britannici compirono qualcosa come 277.728 voli attraverso lo spazio aereo sovietico per lanciare alla popolazione di Berlino Ovest carichi di cibo, vestiario, sigarette, medicinali, carburante e attrezzature, compresi componenti per una nuova centrale elettrica.

 

In Occidente, quegli apparecchi divennero famosi come i Rosinenbomber, i “bombardieri di uvetta”, perché portavano da mangiare. Ma in Oriente, a Koch e ai suoi compagni di scuola veniva spiegato che gli aerei nemici, passando, spandevano dorifere della patata sui campi della Germania Est, per rovinare i raccolti. ‘Lindau si trovava praticamente sotto la linea di volo – gli aerei passavano giorno e notte’, dice Koch. ‘E allora ci diedero una figura del nemico: in un luogo dove la gente non riceve notizie dall’esterno, non ha nient’altro a cui credere’.




Come mai appariva credibile che gli americani facessero una cosa del genere? domando. Faccio fatica a immaginare una superpotenza nucleare che riempia i suoi aerei di insetti vivi su un letto di foglie e li spedisca dall’altra parte dell’Atlantico.

 

‘Perché avevano appena raso al suolo Dresda!’ esclama lui. ‘Quel meraviglioso centro della cultura tedesca! Insensatamente! E avevano perfino sganciato due bombe atomiche sul Giappone! Erano chiaramente e veramente malvagi! Di quale altra prova si aveva bisogno?’

 

Bombe, armi atomiche, e ora un flagello biblico.

 

‘Le sto dicendo come funziona la propaganda’, continua. ‘È così che sono stato tirato su’.

 

A quel tempo c’era ancora il razionamento. Lo zucchero scarseggiava e le caramelle erano un lusso. Ma c’era un programma di incentivi per i bambini. ‘Per ogni dorifora che raccoglievamo ricevevamo un centesimo. Per una larva, mezzo centesimo. E ogni cento, ci davano tessere per dieci razioni di zucchero! Così noi bambini andavamo nei campi ogni minuto libero che avevamo, a raccogliere insetti e larve, insetti e larve. Li consegnavamo e ricevevamo in cambio più dolci di quanto potessimo mangiare!’

 

Nella mente di Koch, il dolce sapore della ricompensa è legato al mandare all’aria il complotto americano per rovinare il raccolto delle patate e affamare il suo popolo. Questa storia – di insetti e caramelle e della fabbricazione di un nemico – è la storia della fabbricazione di un patriota.

(A. Funder)







Nessun commento:

Posta un commento