CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

giovedì 24 aprile 2014

I COSTRUTTORI (navigare nell'Eretico mare dello 'Straniero') (50)


















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Quattro personaggi in cerca d'autore (49)

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I costruttori (51)












        
Sono rimasto deluso della Certosa in sé, con la gola di accesso, le montagne e il monaco che ci scortava. Gli edifici erano disegnati mediocremente ed erano raggruppati in modo confuso; la strada che sale fin là non aveva niente di impressionante a differenza della maggior parte delle strade alpine; le montagne intorno erano simili a tanti altri siti banali della Savoia, senza picchi, né cascate, e neanche pendii maestosi coperti dai pini.
E il monaco che ci guidava attraverso i corridoi non aveva un cappuccio degno di essere indossato, non aveva una barba da esibire, non aveva alcuna espressione se non di arroganza superbia saccenza classica dell’ignoranza accompagnata dai modi rozzi e ottusi che denotavano e denotano quanto fosse stanco del posto, più ancora di se stesso, e completamente di mio padre e di me.




Dopo averlo seguito per un po’ attraverso i passaggi dell’articolato edificio – nel quale non c’era niente da mostrare, non un quadro, non una statua, non un frammento di vetro antico, né qualsiasi elemento architettonico realizzato con il minimo ingegno o la minima passione – alla fine ci siamo fermati in quella che supponevo essere una moderna cella certosina; qui, chinandomi davanti al davanzale della finestra, ho detto qualche cosa, nello stile di ‘Modern Painters’, a proposito dell’influenza dello scenario esterno sullo spirito religioso. Al che, arricciando le labbra il monaco ha ribattuto: ‘Noi non veniamo per guardare le montagne’.
Di fronte al rimprovero ho chinato la testa in silenzio, senza però poter evitare di pensare: ‘Ma allora, per quale stupido motivo sei venuto qui?’.




…. Era questo, dunque, il nostro compito?
Ahimè, cosa abbiamo invece combinato!
Abbiamo distrutto il giardino invece di curarlo; abbiamo nutrito i nostri cavalli da guerra con i suoi fiori, e usato i suoi alberi per costruire lance.
E’ forse questa fiamma inestinguibile?
E non è davvero più possibile oltrepassare i cancelli che sbarrano la strada?
O siamo noi che non desideriamo più entrarvi?
Non potremmo riconquistare quel Primo Dio, se solo volessimo?
Diciamo che era un luogo colmo di fiori.
Bene: sempre i fiori cercano di crescere laddove noi lo consentiamo; e più sono belli, più sono vicini.
Può darsi ci sia stata una caduta dei fiori, come la caduta dell’uomo.
Ma, da creature fiduciose quali siamo, non riusciamo a immaginare niente di più bello delle rose e dei gigli, che crescerebbero per noi fianco a fianco, una foglia sull’altra, fino a rivestire la terra di bianco e rosso, se solo volessimo. E in paradiso c’era una piacevole ombra e viali con alberi da frutto. E allora cosa ci impedisce di riempire il mondo di ombra gradevole, fiori puri e buoni frutti?
Chi vieta che le sue valli siano coperte di messi fino a ridere e cantare, che le oscure foreste, spettrali e inabitabili, diventino immensi frutteti, e sulle colline si posino ghirlande di neve bucata da fragili fiori, lontano nella mezza luce dell’orizzonte d’Aprile….




Così come nella nostra definizione della struttura delle montagne mi è parso opportuno adottare una classificazione delle loro forme che, pura basata su una precisione scientifica assoluta, era utile per successive ricerche e consentiva ampiezza di vedute, a maggior ragione nell’affrontare le prime leggi della Vita vegetale sarà necessario seguire un ordinamento facile da ricordare e veritiero….
Un bambino divide le piante in alberi e fiori. Se tuttavia in primavera, dopo che ha raccolto le margherite, lo portassimo dal prato nell’orto e gli chiedessimo come chiamerebbe quelle ghirlande di fiorellini i cui fragili petali gettano la loro spumosa promessa tra lui e il cielo, egli reputerebbe necessario trovare un nome intermedio, e forse li chiamerebbe alberi-fiori.




Se poi lo conducessimo in un bosco di betulle e gli facessimo notare che anche gli amenti e i fiori del ciliegio sono fiori egli potrebbe, con un po’ di aiuto, arrivare a dividere tutti i fiori in due classi: quelli che crescono nella terra e quelli che crescono sugli alberi.
Un botanico sorriderebbe di questa divisione, un artista no….. Per lui, come per il bambino, c’è qualcosa di specifico e caratteristico in quei tronchi ruvidi che sorreggono i fiori più alti. Per lui ciò che maggiormente differenzia una pianta dall’altra è il vederla come una luce sul terreno o come un’ombra nel cielo.

(Prosegue....)
















lunedì 21 aprile 2014

QUATTRO PERSONAGGI IN CERCA D'AUTORE (l'inchiesta dell'inquisitore) (48)













































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L'inchiesta dell'inquisitore (47/6)

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Quattro personaggi in cerca d'autore (49)














A Malaspina, naturalmente, non bastava il solo e semplice resoconto del viaggio dal punto di vista geografico e scientifico: egli voleva intervenire anche nella politica economica e militare del paese, e avrebbe voluto suggerire addirittura una radicale svolta, da attuare mediante il ‘cambiamento’ della corrotta compagine governativa, guidata dal furbo per quanto corrotto Godoy.
… Ma non si trattava solo di questo, perché il clima politico generale negli ultimi anni si era irrimediabilmente avvelenato, proprio a seguito dei fatti di Francia, e senza che Malaspina, pur informato, ma lontano dalla Spagna e dall’Europa, ne avesse potuto seguire e valutare tutti i risvolti. Sin dall’inizio dello scoppio della rivoluzione in Francia, la monarchia spagnola si era dichiarata contraria a qualsiasi tentativo di innovazione nel sistema di governo. La politica illuminata di Carlo III tramontò definitivamente con il successore Carlo IV.




L’ascesa di Godoy coincise con il Terrore in Francia e con l’uccisione di Luigi XVI. In questo quadro e nonostante il permanere di un clima sempre più turbolento, Malaspina ritenne di poter essere utile al paese, uscendo allo scoperto e inviando al ministro Valdés un primo plico, datato 19 gennaio 1795, da consegnare a Godoy. Ma la risposta del primo ministro, dopo appena qualche giorno, fu molto dura e quasi minacciosa: la missiva del capitano Malaspina era brutta, sia nella forma che nel contenuto e non era neppure il caso di segnalarla al re.
Era evidente che Godoy voleva interrompere subito, ancor prima che nascesse, il filo diretto tra Malaspina e la corte…. Il 17 febbraio 1795 Malaspina comunicò a Greppi di essere alle prese con il lavoro di raccolta dei dati del Viaggio, per la pubblicazione promessagli dal ministro Valdés nel giorno del ricevimento a corte. Nella medesima lettera, il comandante parlava della morte dell’amico William Carmichael, rappresentante degli Stati Uniti in Spagna sin dal 1780. Questo nome ci consente il riferimento a un altro episodio molto grave e sintomatico del clima e dell’ambiente in cui Malaspina si è venuto a trovare.




Durante il ricevimento all’ambasciata – infatti – un invitato, Antonio Coste, aveva applaudito alla notizia giunta da Parigi della morte sulla ghigliottina di Maria Antonietta; ma in seguito a un’inchiesta, alcune persone presenti al ricevimento vennero coinvolte in un breve fermo di polizia e sottoposte a processo. Anche in questa circostanza si può registrare la presenza dei ‘bravi’ di Godoy….
Uno dei problemi non risolti nella vicenda (più che complessa) Malaspina risulta essere, a questo punto, proprio quello relativo all’ ‘imprudenza’ con la quale egli insisté nella sua azione politica e nei suoi ‘utopistici’ progetti di riassetto del governo…. Probabilmente Malaspina fu spinto a perseverare in questa direzione proprio dal crollo militare del 3 marzo 1795, lasciandosi guidare dal clima di sfiducia che si era allora creato attorno a Godoy, ritenendo, altresì, che fosse più che giusto (come in effetti è) reagire adeguatamente a tale grave disfatta politica e morale…
In tal senso può essere valutato il suo esplicito desiderio di essere ancora una volta ‘utile a questo paese in momenti tanto tormentosi’, accompagnato dall’impegno – assunto col ministro Valdés – a pubblicare i risultati del Viaggio e a completare la stesura definitiva del progetto ‘in tutte le sue parti’, cioè anche nelle parti politiche. Da qui la sua grande cura nella raccolta di tutti i dati relativi ai cinque anni di navigazione, di ricerche, di scoperte, di riflessioni in materia economica (umana) e politica.




Poco idoneo in campo letterario, come egli stesso si definiva, Malaspina segnalò e accettò la collaborazione di padre Gil, ritenuto uomo di lettere, ma ahimé anch’egli legato agli intrighi di potere della corte. Ma questo ‘tandem’ non ebbe vita facile: subito si evidenziarono le differenze già nel predisporre le linee generali dell’opera. Padre Gil era per la fredda esposizione dei dati, mentre Malaspina era anche dell’idea di approfondire le questioni politiche e i commenti. Questa diversità di opinioni non solo rallentò il lavoro comune, ma scatenò attorno ad esso la ricerca di ‘cartas secretas’, la voglia di sequestri e di sigillazione dei ‘diarios’ e degli appunti, per finire con l’occultamento del materiale prodotto e dei verbali dello stesso processo, tutto nello stile  dell’Inquisizione.
Padre Gil informava continuamente gli amici di corte (sempre in contatto epistolare con lui…) e lo stesso Godoy delle difficoltà di proseguire il lavoro, e aveva accusato il Malaspina di ‘poca riflessione’ per essersi indotto, ‘senza ordine di nessuno’,  a scrivere in materia di Stato, cioè ‘in materia così grave, segreta e delicata, a cui solo alla casta è concessa .. corte…’. Il frate era praticamente scettico sul buon esito di quel lavoro, ma aveva accettato perché sostenuto da Godoy e Valdés; e, senza l’approvazine di Malaspina, aveva presentato al re, il 20 aprile del 1795, un ‘Piano particolare di Storia’, ricevendo dopo qualche giorno da Carlo IV l’autorizzazione a scrivere ‘Memorie Segrete’, nonché alla somma di 18.000 reales quale compenso – così si disse – per la redazione dell’opera (spiata.. in segreto…).

(Prosegue....)















sabato 19 aprile 2014

ENTRAR SEMPRE DEUE COMESAR... (44)












































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L'equazione del... Tempo (43)

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Vida noua Vida... (45)














L’inverno durava ancora….
Imponeva la sua volontà e si prendeva il suo Tempo, riferisce amaramente il cronista (l’umile cronista di questa breve vita…).
Conservava il suo pieno vigore, benché il sole brillasse ormai per gran parte della giornata. In quel giorno di Pentecoste, il 4 di giugno dell’anno 1620 dopo il Nostro Salvatore, i bianchi campi di neve si stendevano ancora immacolati verso l’orizzonte a nord…
Neppure una breccia di mare azzurro brillava nella luce. La Baia di Hudson era una pista da ballo piana e deserta dove il vento, qua e là, invitava un fantasma a danzare. Un po’ più a monte della foce del fiume, le navi erano bloccate nella banchisa…
La più piccola, lo sloop ‘Lamprenen’, era stata trascinata verso la costa mentre la fregata ‘Enhiorningen’ giaceva piegata su un fianco a circa 120 braccia dalla terra ferma…. La pressione dei ghiacci disegnava una gorgiera intorno ai suoi fianchi catramati, un battere continuo proveniente dal ponte di poppa risuonava lontano sulla terraferma….




Sulla costa, tra le capanne dei carpentieri, la neve era ancora alta. L’oca selvatica aveva incominciato a migrare verso nord, i grandi stormi di uccelli volavano imperturbabili sopra i campi, qui non c’era anima viva, qui abitavano solo i morti e i morti non alzano il moschetto contro la prelibata oca selvatica.
Nella neve si drizzava una cinquantina di croci di legno e sulla distesa di ghiaccio, tra la più grande delle navi e la costa, giacevano quegli uomini che non avevano neppure una croce. Alcuni erano per metà coperti di neve, come se, sorpresi dal gelo, in assenza di una vera tomba avessero cercato di proteggersi con uno di quei bianchi piumini.
Ma come già constatava sua eccellenza Movritz Stygge, rivolgendosi più che altro a se stesso in quella fredda giornata di aprile in cui, in piedi sul bastingaggio, le mani rovinate, osservava le croci: ‘I morti non hanno freddo, al contrario. Tra loro c’è di certo qualche povero diavolo che spera che faccia un po’ meno caldo là dove ora si trova’.




Queste profonde parole furono pronunciate il 7 aprile dell’anno 1620 dopo il Nostro Salvatore. Cinque giorni più tardi a bordo vennero fabbricate tre nuove croci. Tra queste, una per il signor Movritz. Ma ciò accadeva tanto Tempo fa’, oggi tutto è calmo nella Baia di Hudson…. Nel corso di questa lunga giornata di Pentecoste l’unico rumore che si sente è il battere regolare che proviene dalla nave più grande, dove una cima si è staccata dal sartiame e va a colpire a brevi intervalli con un paranco il fianco del castello di poppa.
Lì accanto sono coricate tre figure, ma nessuna di loro chiede che cosa sia che continua a picchiare in quel modo sopra le loro teste. Giacciono con il viso contro il ponte e le braccia tese, come se, anche nella morte, volessero aggrapparsi alla nave inclinata.
Navigano… non fanno domande….
Non l’hanno mai fatto…
Navigare è necessario… Fare domande… no…!




Nello scaldavivande di bronzo della cabina di poppa il fuoco era spento. Il sole di Pentecoste penetrò dall’arcuata finestra laterale, si posò su un rotolo di cavi, sfiorò un boccale e disegnò il profilo di alcune figure scure. Anche laggiù c’erano tre uomini coricati.
Il capitano riposava nella cuccetta vicina al tavolo, sembrava vecchio e provato, ingrigito anzitempo. Il gabbiere era sdraiato sul tavolaccio a sinistra e l’aiuto cuoco allungato sul pavimento davanti alla cabina del capitano, la testa sepolta tra le mani rovinate.
Il sole di Pentecoste si imporporò per qualche istante nella lampada che, appesa a una trave sopra il tavolo, rivelava l’inclinazione della nave nel ghiaccio. Man mano che il giorno calava, il raggio di luce abbandonava l’ottone lucente per scivolare sui tre uomini, attardandosi prima sull’uno e poi sull’altro. Due di loro rimasero immobili. Il terzo si mosse….
Era il capitano….
Era ancora vivo…




Fuori aveva inizio lo spettacolo consueto della sera. La banchisa si divideva in chiazze dorate e viola scuro. La neve si colorava d’azzurro. L’inverno durava ancora. Sembrava che a poco a poco si fosse impadronito dell’intera stagione successiva, ma a queste latitudini la primavera giunge sempre all’improvviso…. Nella cabina di poppa il capitano, spinta via la pelle d’orso, cercava di alzarsi, e il fiato che gli usciva dalle labbra formava piccole nubi di vapore nel locale stantio.
Finalmente riuscì a mettere le gambe fuori dalla cuccetta, ma rimase a lungo seduto, le mani appoggiate al tavolo, lottando contro le vertigini. La cabina oscillava da un lato all’altro. Era come se la nave si fosse improvvisamente liberata dal ghiaccio; poi, però, tornata in acque calme, ritrovò a poco a poco l’inclinazione di prima.
Si guardò intorno, il gabbiere dormiva, l’aiuto cuoco era morto. Volgendo poi gli occhi ai propri avambracci appoggiati al tavolo, si sfilò i guanti con precauzione e fissò le sue mani rovinate, come se stentasse a credere che erano proprio le sue. La luce penetrava quasi orizzontale nella stanza, tra poco sarebbe stato buio. Dopo aver frugato un po’, pose sul tavolo davanti a sé un quaderno, la delicata copertina di pergamena è macchiata di sangue, sulla prima pagina sono scarabocchiate alcune parole:

Emtrar sempre deue comesar Vida Noua Vida


(Prosegue....)















GLI ULTIMI VELIERI (dal mare venimmo...) (41)


















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Il teatro del loro agire... (40)

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Gli ultimi velieri (42)













L'appellativo 'windjammer' suonava come un insulto, e tale
infatti era nelle intenzioni degli equipaggi dei piroscafi, che
lo usavano per descrivere gli enormi scafi a vela che sfida-
vano bravamente l'avvento... del vapore....
Quei mostri, dicevano, erano troppo goffi e ingombranti
per muoversi con eleganza nel vento. Con questo elemen-
to il loro rapporto era necessariamente brutale, vele tese
allo spasimo, pennonieri intrecciati al sartiame.




Ma il sarcasmo si trasformò in plauso allorché cinquant'an-
ni della loro operosa esistenza quei maestosi velieri rivela-
rono per intero la loro effettiva supremazia toccando, dopo
secoli di gloriosa evoluzione, il punto più alto nell'arte del-
la vela.
In fuga sotto i sibili delle raffiche di capo Horn o volando
veloci al soffio degli alisei, questi imponenti vascelli dalle
bianche ali erano senza pari per dimensioni, forza e bellez-
za. Pur con scafi di lunghezza doppia, raggiungevano qua-
si la stessa velocià degli eleganti clipper di legno che li a-
vevano preceduti.




Grazie alle immense velature sospese ai loro alberi gigan-
teschi, trasportavano nelle capaci stive migliaia di tonnella-
te di... "preziose verità"....
Fin dall'inizio, quando doppiavano il tempestoso capo Horn
e fendevano i mari del Sud, il fascino dei windjammer attras-
se gente di mare e di terra.
Uno di questi è.....




... Il capitano del piroscafo chiamò la sala macchine e or-
dinò di aumentare la potenza. Avrebbe offerto ai suoi pas-
seggeri un ricordo indimenticabile: avvicinatosi velocemen-
te al vecchio veliero lo avrebbe superato con una mossa emo-
zionante, tagliandogli la rotta, e sarebbe quindi proseguito
sulla rotta per.....
Ma quel mattino di una data imprecisata, al comando del suo
enorme veliero d'acciaio nell'Atlantico meridionale, il capita-
no Sven Eriksson aveva ben altre idee....




Per lui lo 'Herzogin Cecile', nonostante contasse già 32 anni
di vita, non era affatto un rudere anacronistico, ma soprat-
tutto non era figlio di quel Secondo Vapore che regnava come
una strana e nuova burla del progresso......
Lo Herzogin Cecile era di costruzione tedesca (l'armatore e-
ra un certo Otto Karnak...), ma dalla fine della Guerra batte-
va bandiera finlandese. I componenti dell'equipaggio erano
di nazionalità diverse.
Eriksson ordinò all'equipaggio di salire e sbrogliare le vele,
mentre il piroscafo si avvicinava furono spiegati i controve-
lacci, le vele più alte: ora il Grande Veliero presentava tutte
le sue 33 vele....

(Prosegue....)














mercoledì 16 aprile 2014

ORE 2 E 15: LA PARTENZA (con l'anima in spalla...) (39)






































Precedenti capitoli:

con Pietro Autier sulle orme del Payer  (1)  (2)  (3)

Passaggi senz'anima (38)

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Il teatro del loro agire (40)













Salire sull’Ortles era mio desiderio da molti anni. La notte fra il 29 e il 30 agosto (ma le date sono un inutile dettaglio entro i confini della prigione del Tempo…) la passai con Pinggera ai piedi della Tabaretta, ma al mattino il tempo si guastò e pertanto tornammo alla pieve senza aver concluso nulla.
Il 30 agosto, sotto una pioggia incessante, visitai Solda di Fuori. Il primo settembre giorno del mio 24° compleanno era di un sereno radioso. Per assicurarmi un percorso adeguato per il mattino successivo, assieme a Pinggera mi arrampicai per due ore sulle enormi pareti rocciose a sud di Cima Tabaretta.
Ad un’altitudine considerevole, fummo costretti al ritorno a causa di uno strapiombo, nel quale, senza il tempestivo intervento di Pinggera, sarei stato trascinato da un masso rotolato giù. Allora feci un grande disegno dell’Ortles. Dormimmo ancora in quota, come il 29 agosto.




Durante la notte cadde pioggia e grandine, al mattino eravamo avvolti nelle nubi e pertanto tornammo a Solda e salimmo subito sulla punta Beltovo. Il pastore della malga di Schonleit mi fece sperare per il 4 settembre: Dio doveva essere ancora in vacanza perché il tempo era così brutto, ma per allora sarebbe diventato bello. Ed ebbi davvero la fortuna di scegliere per l’ascensione sull’Ortles, come già per quella del Glockner, una giornata di rara limpidezza.
Per evitare lo scomodo pernottamento all’aperto, assieme a Pimggera mi misi in cammino già alle 2 e un quarto del mattino. Alla luce delle lanterne ci inoltrammo nella valle Marlet, passammo la vedretta coperta di detriti e la grande morena laterale di sinistra e dopo le 4 arrivammo alle pendici della Tabaretta. Le ombre della notte andavano gradatamente sfumando, le stelle impallidivano, un bagliore rosato rivestiva la cima innevata dell’Ortles, mentre le sue terribili pareti erano ancora avvolte nei toni ovattati dell’alba.
Venti minuti di sosta….




Poi con i ramponi salimmo velocemente e allegramente lungo le pendici tremendamente sgretolate della Tabaretta in una scogliera ripida e alle 6 eravamo sulla sommità innevata del Passo Tabaretta. Il panorama era già di una incantevole bellezza, l’Ortles che si ergeva in possenti ondulazioni di ghiaccio sembrava più alto che dalla valle.
Dopo una sosta di mezz’ora, procedendo lungo la cresta rocciosa girammo attorno alle guglie selvagge di Cima Tabaretta passando su una parete di ghiaccio e, arrivati sulla cresta di un contrafforte che si stacca verso ovest, vedemmo davanti a noi il precipizio diverse centinaia di piedi della gola della Tabaretta. Oltre la gola, la ripida parete inclinata a 45° e coperta di ghiaccio della vedretta Tabaretta, sospesa sulla Valle di Tabaretta.




Secondo Pinggera, il picco era completamente cambiato da giugno; allora era coperto di neve alta, che rendeva superflui i gradini, ora invece si vedevano ‘solo crepe’. Ma questo non ci scoraggiò per nulla, Pinggera era tutto ambizioso di poter ‘portare da solo un signore sull’Ortles’. Ci calammo lungo la ripida fascia di detriti nel canalone e poi ci legammo alla corda. Evitando la parte più ripida della parete, ci portammo più in alto possibile, ai piedi di quella fila di rocce che dalla Cima Tabaretta prosegue verso l’Ortles, poi dovemmo affrontare la gigantesca parete…
Risalendo in obliquo, per tre quarti d’ora Pinggera scavò incessantemente gradini di ghiaccio friabile, mentre io lo seguivo passo passo. L’ora successiva si proseguì senza sforzo, solo sul fondo di una terrazza glaciale sporgeva una parete di ghiaccio friabile e i numerosi blocchi di ghiaccio presenti richiamavano alla mente le scariche di ghiaccio. Ma l’ora mattutina ci risparmiò questo pericolo.

(Prosegue....)