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Curare il mondo (11)
…Ma poiché sapeva bene che i suoi… ‘ricordi’,
ovvero consigli e ammaestramenti, erano destinati a rimanere inascoltati,
teneva naturalmente di riserva una sua ‘filosofia medicinatoria’ nella quale le
‘evacuazioni’ dovevano essere seguite dalle ‘restaurazioni’ intese a dare
energia e vigore al corpo liberato dalle superfluità e dalla ‘redondanzia
d’umori maligni’, dopo che lo stomaco (organo chiave, centro di tutte le
disfunzioni) era stato mondato dal flegma, dalla collera e soprattutto
dall’umore nero, responsabile d’ogni sorta di morbi.
Fosse ‘melancholia’
naturale o ‘nigra’, oppure adusta derivata
dalla combustione della bile gialla, questo succo maligno filtrava nello
stomaco provocando squilibri terribili e devastanti: la ‘melancholia ex
stomacho’ era comunemente considerata dalla tradizione greco-bizantina, araba,
dalla scuola salernitana (ed anche da Fioravanti) responsabile non solo della
‘quartana doppia’ ma anche di molteplici forme di alienazione mentale, della ‘pazzia acuta’ oltre che del normale ‘morbo
ipocondriaco’ che, ritenuto un di stemperamento umorale e quindi dotato di una
causa fisiologica, oggettiva, veniva curato con i due classici rimedi: gli
emetici, che ripulivano dallo stomaco, e la dieta. ‘Tutte le sorti d’infermità
hanno origine e principio dallo stomaco’, sentenziava nei Capricci medicinali, perché ‘tutte le negritudini sogliono venire
per replezione’. Dopo il vomito e il secesso era assolutamente necessario che i
corpi venissero restaurati con ‘bonissimi cibi’ e, in tutti i casi, era ottima
regola non vietare ai pazienti ‘quelle cose che lor dilettano, perché quod sapit nutrit’.
Era di vitale necessità, dopo le drastiche
evacuazioni, dopo le ‘purgazioni alquanto gagliarde e longhe’, dopo massicce
dosi di ‘medicinali e pungenti, grandi e terribili’, evitare la dieta ‘tenue’
per ‘dar la sustanzia a gl’infermi’. A
questo canone rimase fedele (interpretando a modo suo il quarto aforisma
d’Ippocrate) e sempre ritenne che ‘chi vuol servirsi delle medicine, lasci la
dieta in tutto e per tutto, essendo che non possono stare insieme’. Perché la
‘dieta affligge i corpi e la infermità gli ammazza’, anzi era ‘la dieta troppo
grande’ a stroncarli. Andava dicendo che
delle ‘tre operazioni molto contrarie all’ordine di natura… cioè flobotomia,
dieta e medicina, cose tutte tre molto pericolose in uno infermo’, la più
perniciosa di tutte era ‘la vita tenue, cioè farli far dieta’. A lungo però,
almeno fino agli inizi degli anni Sessanta, rimase ancorato alla tradizione
patologica umoralistica, prima di liberarsene e di trafiggerla con derisoria
ironia. Non era audacia da nulla rigettare quella dottrina che ‘può essere
definita come una delle parti più tenaci, e, per certi aspetti, più
conservatrice della cultura moderna’. A
lungo però continuò a rispettare le ‘auctoritates’ e se lo Stagirita fu per lui
sempre ‘il gran maestro Aristotele’ il sapiente di Pergamo, ‘Galeano nostro’,
continuò a esser indicato come ‘il maestro di tutti’ almeno fino agli anni del Tesoro della vita humana (1570), quando
ancora la classica trinità greco-araba veniva elogiata come infallibile: ‘chi
intende ben Hippocrate, Galeano e Avicenna non potrà mai errare nelle cure
delle infermità’.
L’affrancazione, anzi la rivolta contro la tirannia
dei quattro umori, iniziata coi Capricci
medicinali, esploderà con estrema decisione, addirittura con violenza, nel
1564 nello Specchio di scientia
universale, quando polemizzerà duramente contro i medici fisici che
ritenevano impossibile curare bene senza una buona conoscenza dell’anatomia. In
una delle sue più infuriate riprensioni, esclamerà:
Ma tristi coloro che credono una così grossa
bugia. E siamo ancora tanto ignoranti e ostinati che vogliamo essequire le lor
false opinioni e con quelle amazzare il prossimo nostro: che per dire il vero
egli è cosa empia e crudele e non so come abbino fondato la scienzia di una
tanta gloriosa arte sopra cosa incerta, con distinguer le complessioni, divider
la colera dalla flemma e dalla malinconia, la pituita della flavabile, la
colera negra, lo umore adusto e una quantità grande di molte diavolerie delle
quali mai uomo del mondo non è stato capace di poterne avere cognizione, e
costoro di continuo disputano e leggono (dalle cattedre universitarie) queste
materie favolose e nessuno di loro è mai stato bastante di poter sapere come
opera questa de gli interiori con tutte le particolarità del fatto: ma
solamente alla ventura e per imaginazioni e chimere loro che si vanno
imaginando nel cervello.
Parole che dovevano cadere come scudisciate sopra gli
accademici, i ‘lettori’, gli anatomisti disprezzati fin dal tempo in cui Realdo
Colombo e altri membri del Collegio medico romano (fra cui anche un professore
della Sapienza, Giustino Finetto), lo deferirono all’organo che tutelava la
loro rispettabilità e i loro emolumenti. Non credo che la letteratura medica
italiana del Cinquecento abbia avuto un iconoclasta più deciso nel denunciare
un lungo sonno della mente, le ‘chimere’, le vane ‘immaginazioni’, le ‘materie
favolose’, tutta la poltroneria mentale depositata nei cervelli dei fisici,
anche in quelli più sottili e innovatori. Su questo indiscusso dogma della
medicina antica e moderna la sferza di Fioravanti s’abbatté più volte: in una
lettera del 1568, resa pubblica nel folto...