CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

mercoledì 3 agosto 2016

CURARE IL MONDO (10)








































Precedenti capitoli:

I viaggi dell'Anima (9/1)

Prosegue in:

Curare il mondo (11)














…Ma poiché sapeva bene che i suoi… ‘ricordi’, ovvero consigli e ammaestramenti, erano destinati a rimanere inascoltati, teneva naturalmente di riserva una sua ‘filosofia medicinatoria’ nella quale le ‘evacuazioni’ dovevano essere seguite dalle ‘restaurazioni’ intese a dare energia e vigore al corpo liberato dalle superfluità e dalla ‘redondanzia d’umori maligni’, dopo che lo stomaco (organo chiave, centro di tutte le disfunzioni) era stato mondato dal flegma, dalla collera e soprattutto dall’umore nero, responsabile d’ogni sorta di morbi.
Fosse ‘melancholia’ naturale o ‘nigra’, oppure adusta derivata dalla combustione della bile gialla, questo succo maligno filtrava nello stomaco provocando squilibri terribili e devastanti: la ‘melancholia ex stomacho’ era comunemente considerata dalla tradizione greco-bizantina, araba, dalla scuola salernitana (ed anche da Fioravanti) responsabile non solo della ‘quartana doppia’ ma anche di molteplici forme di alienazione mentale, della ‘pazzia acuta’ oltre che del normale ‘morbo ipocondriaco’ che, ritenuto un di stemperamento umorale e quindi dotato di una causa fisiologica, oggettiva, veniva curato con i due classici rimedi: gli emetici, che ripulivano dallo stomaco, e la dieta. ‘Tutte le sorti d’infermità hanno origine e principio dallo stomaco’, sentenziava nei Capricci medicinali, perché ‘tutte le negritudini sogliono venire per replezione’. Dopo il vomito e il secesso era assolutamente necessario che i corpi venissero restaurati con ‘bonissimi cibi’ e, in tutti i casi, era ottima regola non vietare ai pazienti ‘quelle cose che lor dilettano, perché quod sapit nutrit’.




Era di vitale necessità, dopo le drastiche evacuazioni, dopo le ‘purgazioni alquanto gagliarde e longhe’, dopo massicce dosi di ‘medicinali e pungenti, grandi e terribili’, evitare la dieta ‘tenue’ per ‘dar la sustanzia a gl’infermi’.  A questo canone rimase fedele (interpretando a modo suo il quarto aforisma d’Ippocrate) e sempre ritenne che ‘chi vuol servirsi delle medicine, lasci la dieta in tutto e per tutto, essendo che non possono stare insieme’. Perché la ‘dieta affligge i corpi e la infermità gli ammazza’, anzi era ‘la dieta troppo grande’ a stroncarli.  Andava dicendo che delle ‘tre operazioni molto contrarie all’ordine di natura… cioè flobotomia, dieta e medicina, cose tutte tre molto pericolose in uno infermo’, la più perniciosa di tutte era ‘la vita tenue, cioè farli far dieta’. A lungo però, almeno fino agli inizi degli anni Sessanta, rimase ancorato alla tradizione patologica umoralistica, prima di liberarsene e di trafiggerla con derisoria ironia. Non era audacia da nulla rigettare quella dottrina che ‘può essere definita come una delle parti più tenaci, e, per certi aspetti, più conservatrice della cultura moderna’.  A lungo però continuò a rispettare le ‘auctoritates’ e se lo Stagirita fu per lui sempre ‘il gran maestro Aristotele’ il sapiente di Pergamo, ‘Galeano nostro’, continuò a esser indicato come ‘il maestro di tutti’ almeno fino agli anni del Tesoro della vita humana (1570), quando ancora la classica trinità greco-araba veniva elogiata come infallibile: ‘chi intende ben Hippocrate, Galeano e Avicenna non potrà mai errare nelle cure delle infermità’.




L’affrancazione, anzi la rivolta contro la tirannia dei quattro umori, iniziata coi Capricci medicinali, esploderà con estrema decisione, addirittura con violenza, nel 1564 nello Specchio di scientia universale, quando polemizzerà duramente contro i medici fisici che ritenevano impossibile curare bene senza una buona conoscenza dell’anatomia. In una delle sue più infuriate riprensioni, esclamerà:

Ma tristi coloro che credono una così grossa bugia. E siamo ancora tanto ignoranti e ostinati che vogliamo essequire le lor false opinioni e con quelle amazzare il prossimo nostro: che per dire il vero egli è cosa empia e crudele e non so come abbino fondato la scienzia di una tanta gloriosa arte sopra cosa incerta, con distinguer le complessioni, divider la colera dalla flemma e dalla malinconia, la pituita della flavabile, la colera negra, lo umore adusto e una quantità grande di molte diavolerie delle quali mai uomo del mondo non è stato capace di poterne avere cognizione, e costoro di continuo disputano e leggono (dalle cattedre universitarie) queste materie favolose e nessuno di loro è mai stato bastante di poter sapere come opera questa de gli interiori con tutte le particolarità del fatto: ma solamente alla ventura e per imaginazioni e chimere loro che si vanno imaginando nel cervello. 

Parole che dovevano cadere come scudisciate sopra gli accademici, i ‘lettori’, gli anatomisti disprezzati fin dal tempo in cui Realdo Colombo e altri membri del Collegio medico romano (fra cui anche un professore della Sapienza, Giustino Finetto), lo deferirono all’organo che tutelava la loro rispettabilità e i loro emolumenti. Non credo che la letteratura medica italiana del Cinquecento abbia avuto un iconoclasta più deciso nel denunciare un lungo sonno della mente, le ‘chimere’, le vane ‘immaginazioni’, le ‘materie favolose’, tutta la poltroneria mentale depositata nei cervelli dei fisici, anche in quelli più sottili e innovatori. Su questo indiscusso dogma della medicina antica e moderna la sferza di Fioravanti s’abbatté più volte: in una lettera del 1568, resa pubblica nel folto...