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un Naufragio nel Naufragio...&
Affari con i F.lli Compa' &
altre storie....
Prosegue in:
Ovvero l'incubo nell'incubo prosegue...(12)
….Da quel giorno la filosofia naturale, e soprattutto la chimica, nel
senso più lato del termine, divenne quasi la mia unica occupazione…
Lessi con ardore quei libri, così pieni di genio e di discernimento,
che i ricercatori moderni avevano scritto su questi argomenti. Frequentai le
lezioni, e feci conoscenza con gli uomini di scienza dell’università, e trovai
persino nel signor Krempe una gran quantità di buon senso e di vero sapere,
uniti, è la verità, a una fisionomia e a dei modi ripugnanti, ma non per questo
di minor valore. Nel signor Waldman trovai un vero amico. La sua gentilezza non
era mai tinta di dogmatismo, e le sue istruzioni erano date con un’aria di
franchezza e di benevolenza che bandivano qualsiasi idea di pedanteria. Mi
spianò la via alla conoscenza in un migliaio di modi e rese le ricerche più
astruse, chiare e facili alla mia comprensione. All’inizio la mia applicazione
fu altalenante ed incerta; guadagnò forza man mano che procedevo e presto
divenne così ardente e zelante che spesso le stelle scomparivano alla luce del
mattino mentre io ero ancora impegnato nel mio laboratorio.
Poiché mi applicai così tanto, è facile capire che i miei progressi
furono rapidi.
In effetti il mio ardore era la meraviglia degli studenti, e il
profitto quella dei maestri. Il professor Krempe spesso mi chiedeva, con
sorriso malizioso, come andava con Cornelio Agrippa, mentre il signor
Waldman esprimeva la più sincera esultanza per i miei progressi. Trascorsero in
questo modo due anni, durante i quali non tornai mai a Ginevra, impegnato
com’ero, anima e corpo, nella ricerca di alcune scoperte che speravo di fare.
Nessuno, eccetto quelli che l’hanno provato, può immaginare il fascino della
scienza. Negli altri studi tu vai avanti quanto quelli prima di te, non c’è più
niente da sapere, ma in una ricerca scientifica c’è sempre materia per la
scoperta e la meraviglia. Una mente di
modeste capacità che persegue attentamente una sola disciplina deve per forza
arrivare ad una grande competenza in quella disciplina; ed io, che cercavo
continuamente il raggiungimento di un solo oggetto di ricerca ed ero
esclusivamente preso da esso, migliorai così rapidamente che in capo a due anni
feci alcune scoperte che miglioravano alcuni strumenti chimici, che mi
procurarono la più grande stima e ammirazione all’università. Quando arrivai a
questo punto ed ebbi ben appreso la teoria e la pratica della filosofia naturale
che le lezioni dei professori di Ingolstadt potevano offrirmi, dato che la mia
residenza lì non era necessaria per i miei progressi, pensai di ritornare dai
miei amici e alla mia città natale, ma proprio allora capitò un incidente che
protrasse la mia permanenza. Uno dei fenomeni che aveva attratto
particolarmente la mia attenzione era la struttura del corpo umano e, a dire il
vero, di ogni animale dotato di vita.
Da dove deriva, mi chiedevo spesso, il principio della vita?
Era una domanda audace, una di quelle che era sempre stata considerata
un mistero; eppure quante cose potremmo conoscere se la viltà e la negligenza
non limitassero le nostre ricerche. Riflettei su queste circostanze e decisi
che da quel momento in poi mi sarei applicato in particolar modo ai rami della
filosofia naturale legati alla fisiologia. Se non fossi stato animato da un
entusiasmo quasi soprannaturale, la mia applicazione a questa disciplina
sarebbe stata fastidiosa e quasi insopportabile.
Per esaminare le cause della vita, dobbiamo prima ricorrere alla morte.
Studiai la scienza dell’anatomia, ma non era sufficiente; dovevo
osservare anche il decadimento naturale e la corruzione del corpo umano. Nella
mia educazione mio padre aveva preso le più grandi precauzioni affinché la mia
mente non venisse impressionata da orrori soprannaturali. Non ricordo di aver
mai tremato ad un racconto di superstizioni o di aver mai temuto l’apparizione
di uno spirito. Le tenebre non avevano alcun effetto sulla mia immaginazione, e
un cimitero non era per me che un semplice ricettacolo di corpi privati della
vita che, da sedi di bellezza e di forza, erano diventati cibo per i vermi. Ora
dovevo esaminare le cause e lo sviluppo di questo decadimento ed ero costretto
a passare giorni e notti in cripte e ossari. La mia attenzione si fissò sugli
oggetti più insopportabili alla delicatezza dei sentimenti umani.
Vidi come l’elegante forma dell’uomo viene degradata e distrutta;
osservai la corruzione della morte avere la meglio sulla guancia fiorente della
vita; vidi come il verme ereditava le meraviglie dell’occhio e del cervello. Mi
fermai, esaminando e analizzando tutti i dettagli del rapporto causa effetto
come si verifica nel cambiamento dalla vita alla morte, e dalla morte alla
vita, finché fra queste tenebre una luce improvvisa mi colpì, una luce così
brillante e meravigliosa, tuttavia così semplice, che mentre mi sentii
confuso per l’immensità delle prospettive che mi illustrava, fui sorpreso che
fra così tanti uomini di genio che avevano diretto le loro ricerche verso la
stessa scienza solo a me dovesse essere riservato di scoprire un segreto così
stupefacente. Ricordate che non sto riportando le visioni di un pazzo. Quanto è
certo che il sole brilla in cielo, così è vero ciò che affermo. Può averlo
suscitato qualche miracolo, tuttavia i passi della scoperta furono distinti e
verosimili.
Dopo giorni e notti di incredibile lavoro e fatica, riuscii a scoprire
la causa della generazione della vita; anzi, di più, divenni capace di animare
la materia inerte. Lo stupore che all’inizio provai per questa scoperta
lasciò presto spazio al piacere e all’estasi. Dopo così tanto tempo passato in
un lavoro penoso, arrivare all’improvviso all’apice dei miei desideri fu il più
gratificante coronamento alle mie fatiche. Ma questa scoperta era così
grandiosa e schiacciante che dimenticai tutti i passi che, gradualmente, mi
avevano condotto ad essa, e vidi solo il risultato. Ciò che dalla creazione del
mondo era stato lo studio e il desiderio degli uomini più sapienti era adesso
nelle mie mani. Non che tutto mi si rivelasse all’improvviso come in uno
spettacolo di magia, la conoscenza che avevo raggiunto era di un genere da
dirigere i miei sforzi non appena li avessi indirizzati verso l’obiettivo della
mia ricerca, piuttosto che esibire quell’obiettivo già realizzato.
Ero come l’Arabo che era stato
sepolto con i morti e aveva trovato un passaggio alla vita, aiutato solo da una
luce baluginante e apparentemente vana….
…..Fu in una lugubre notte di novembre che vidi la realizzazione delle
mie fatiche...
Con un’ansietà che rasentava quasi l’angoscia, raccolsi gli strumenti
della vita attorno a me, così da poter infondere una scintilla di esistenza
nella cosa inanimata che giaceva ai miei piedi.
Era già l’una di notte; la pioggia picchiettava lugubre contro i vetri,
e la mia candela era quasi consumata, quando, alla debole luce semi-estinta,
vidi l’occhio giallo, fermo, della creatura aprirsi; respirava a fatica, e un
moto convulso agitava le sue membra. Come posso descrivere le mie emozioni di
fronte a questa catastrofe e come descrivere lo sventurato che, con infinite
sofferenze e attenzione, ero riuscito a creare?
Le sue membra erano proporzionate, e io avevo selezionato i suoi
bellissimi lineamenti.
Bellissimi!
Buon Dio!
La sua pelle gialla copriva a malapena il lavoro dei muscoli e delle
arterie sottostanti; i suoi capelli erano fluenti, neri, lucenti; i denti erano
bianchi come perle; ma questa rigogliosità formava solo un contrasto ancora più
terribile con i suoi occhi timidi, che sembravano quasi dello stesso colore
smorto delle orbite bianche in cui erano inseriti, la sua pelle era raggrinzita
e le labbra erano nere e diritte. I vari incidenti della vita non sono così
mutevoli quanto i sentimenti della natura umana…
…Avevo lavorato duro per circa due anni, con il solo scopo di infondere
vita in un corpo inanimato. Per questo avevo sacrificato riposo e salute. Lo
avevo desiderato con un ardore che superava di molto la moderazione, ma
terminata l’opera, la bellezza del sogno svanì, e l’orrore e un disgusto tale
da togliere il fiato riempì il mio cuore. Incapace di sopportare la vista
dell’essere che avevo creato, mi precipitai fuori dalla stanza e, per un bel
po’, continuai a camminare avanti e indietro nella mia camera, incapace di
convincere la mia mente a dormire. Alla fine la stanchezza ebbe la meglio sul
tumulto che avevo provato prima, e mi gettai sul letto, vestito, cercando di
trovare qualche momento di oblio.
Ma fu inutile; dormii, è vero, ma fui turbato dai sogni più paurosi.
Mi sembrava di vedere Elisabeth,
nel fiore della salute, camminare per le strade di Ingolstadt. Felice e
sorpreso l’abbracciai, ma non appena le diedi un bacio sulle labbra, queste
divennero livide come il colore della morte; i suoi lineamenti sembravano
cambiare, e mi sembrò di tenere fra le braccia il corpo di mia madre morta; un
sudario avvolgeva la sua forma, e vidi i vermi brulicare fra le pieghe della
flanella.
Mi svegliai con orrore; un sudore freddo mi copriva la fronte, i miei
denti battevano, e le mie membra erano in preda a una convulsione; allora, alla
luce pallida e gialla della luna, che penetrava attraverso le imposte della
finestra, vidi lo sventurato, il miserabile mostro che avevo creato.
Alzò la cortina del letto; i suoi occhi, se occhi si possono chiamare,
erano fissi su di me. Aprì le mascelle, ed emise alcuni suoni disarticolati,
mentre una smorfia gli increspò le guance. Poteva aver parlato, ma io non udii;
una mano era tesa, come se volesse trattenermi, ma io scappai e mi precipitai
giù dalle scale. Mi rifugiai nel cortile che faceva parte della casa in cui
abitavo, vi rimasi per il resto della notte, camminando su e giù nella più
grande agitazione, ascoltando attentamente, cogliendo e temendo ogni suono come
se annunciasse l’avvicinarsi del demoniaco cadavere al quale io avevo così
miserabilmente dato vita.
Oh! Nessun mortale potrebbe sopportare l’orrore di quel volto. Una
mummia riportata in vita non potrebbe essere così spaventosa come quello sventurato.
Lo avevo osservato quando non era ancora finito; allora era ripugnante,
ma quando quei muscoli e quelle articolazioni furono resi capaci di movimento,
divenne una cosa che nemmeno Dante avrebbe potuto concepire. Passai una notte
orribile. A volte il mio polso batteva così rapido e forte che sentivo il
palpitare di ogni arteria; altre volte quasi cadevo a terra per il languore e
l’estrema debolezza. Unito a questo orrore, sentivo l’amarezza della delusione;
i sogni che per tanto tempo ciano stati il mio cibo e un piacevole rifugio,
adesso erano un inferno; e il cambiamento fu così rapido, la sconfitta così
totale! Il mattino, fosco e umido, infine si schiarì e scoprì ai miei occhi
insonni e dolenti la chiesa di Ingolstadt, il suo campanile bianco e l’orologio
che indicava le sei.
Il portiere aprì il cancello del cortile, che quella notte era stato il
mio rifugio, ed io uscii per le strade, percorrendole a passi rapidi, come se
cercassi di evitare lo sventurato che temevo di incontrare ad ogni angolo di
strada. Non osavo tornare all’appartamento in cui abitavo, ma sentivo che
dovevo affrettarmi, benché fossi fradicio per la pioggia che scendeva da un
cielo nero e sconfortante. Continuai a camminare in questo modo per un po’,
cercando di alleviare con l’esercizio fisico il peso che gravava sulla mia
mente. Attraversavo le strade senza una chiara percezione di dove fossi o cosa
stessi facendo.
Il mio cuore palpitava attanagliato dalla paura, e mi affrettai a passi
irregolari, non osando guardare attorno a me: Come colui, che lungo una
strada solitaria cammina nella paura e nel terrore, e dopo aver girato intorno,
riprende a camminare e non gira più la testa; perché sa, uno spaventoso demonio
si avvicina dietro i suoi passi.
Continuando così, giunsi infine di fronte alla locanda dove di solito
si fermavano le varie diligenze e i carri. Mi fermai lì, non so perché, ma
rimasi alcuni minuti a fissare una carrozza che, dall’altra parte della strada,
stava venendo verso di me. Appena si fece più vicina, notai che era una diligenza
svizzera; si fermò proprio dov’ero io, e quando lo sportello si aprì
scorsi Henry Clerval, che, vedendomi, saltò subito giù.
‘Mio caro Frankenstein!’…
- esclamò.
‘ Come sono felice di vederti!’…
‘Che fortuna trovarti qui, proprio
al momento del mio arrivo!’…
…Ed ora solo ora
quando rileggo quella lettera con molta troppa attenzione e nello scorrere
delle pieghe del Tempo il terrore mi giunge agli occhi ed ora! Ora capisco….
E di nuovo comprendo!
Alla
Signora Saville, Inghilterra 5 agosto, 17
Ci è capitato un
incidente così strano che non posso fare a meno di annotarlo, benché sia molto
probabile che tu mi veda prima che questi fogli giungano in tuo possesso.
Lunedì scorso (31
luglio) eravamo quasi circondati dal ghiaccio, la nave era chiusa da tutti i
lati e a fatica avanzava lungo uno specchio di mare. La situazione era
piuttosto pericolosa, soprattutto perché eravamo avvolti da una nebbia molto
fìtta. Perciò gettammo l’ancora, con la speranza che si verificasse qualche
cambiamento meteorologico.
Verso le due la
nebbia si alzò, e noi vedemmo una vasta e irregolare distesa di ghiaccio, che
si estendeva in ogni direzione e sembrava non aver fine. Alcuni dei miei
compagni si lamentarono, e la mia stessa mente si fece allarmata per pensieri
inquietanti, quando una strana visione attirò improvvisamente la nostra
attenzione, attenuando la nostra preoccupazione. Vedemmo un carro basso,
attaccato a una slitta e trainato da cani, dirigersi verso nord a una distanza
di circa mezzo miglio: un essere, dall’aspetto umano, ma che doveva avere una
statura gigantesca, sedeva nella slitta e guidava i cani. Seguimmo il lapido
avanzare del viaggiatore con i nostri cannocchiali finché scomparve fra le
irregolarità dei ghiacci. Questa apparizione suscitò in noi un’incredibile
meraviglia. Pensavamo di trovarci a centinaia di miglia da terra; ma questa
visione ci rivelava che, in realtà, non eravamo così lontani come avevamo
supposto. Comunque, circondati dal ghiaccio, era impossibile seguire la sua
pista, che avevamo osservato con la massima attenzione.
Circa due ore dopo
udimmo il mare gemere, e prima di notte il ghiaccio si ruppe e liberò la nave.
Tuttavia, navigammo alla cappa sino al mattino, per timore di incontrare
nell’oscurità quei grossi ammassi vaganti, che dopo la rottura del ghiaccio
vanno alla deriva. Io approfittai di questo momento per riposare qualche ora.
Il mattino, non
appena fu chiaro, salii in coperta e trovai tutti i marinai indaffarati su un
lato del vascello, come se stessero parlando con qualcuno in mare. In effetti,
si trattava di una slitta, come quella vista in precedenza, che, durante la
notte, era scivolata verso di noi sopra un grande frammento di ghiaccio. Era
sopravvissuto solo un cane; ma c’era un essere umano sulla slitta e gli uomini
lo stavano convincendo a salire a bordo. Non era un abitante selvaggio di
qualche isola inesplorata, come invece sembrava l’altro viaggiatore, ma un
europeo. Quando arrivai in coperta il nostromo disse ‘Ecco il capitano, egli non
vi permetterà di morire in mare aperto’.
Vedendomi, lo
straniero mi si rivolse in inglese, benché con un accento straniero. ‘Prima che
salga a bordo del vostro vascello - disse - avreste la gentilezza di dirmi dove
siete diretto?’.
Puoi immaginare il mio
stupore al sentire una tale domanda, fattami da un uomo sull’orlo della
distruzione e per il quale, credevo, la mia nave rappresentasse un bene che non
avrebbe scambiato per tutte le ricchezze del mondo. Comunque, risposi che
eravamo in viaggio di esplorazione verso il Polo Nord. Udito ciò sembrò soddisfatto e acconsentì a
salire a bordo. Buon Dio! Margaret, se avessi visto l’uomo che aveva
patteggiato per la sua salvezza, la tua sorpresa sarebbe stata enorme. Le sue
membra erano quasi congelate, e il suo corpo terribilmente emaciato per la
fatica e la sofferenza.
Non avevo mai visto
un uomo in condizioni così pessime. Cercammo di portarlo in cabina, ma non
appena lasciò l’aria aperta svenne. Allora lo riportammo in coperta e lo
rianimammo frizionandolo con del brandy e forzandolo a inghiottirne una piccola
quantità. Appena diede segni di vita lo coprimmo di coperte e lo facemmo sedere
accanto al camino della stufa della cucina. Pian piano si riprese e mangiò un
po’ di minestra, che lo ristorò in modo eccezionale.
Passarono così due
giorni prima che riuscisse a parlare e io, spesso, temetti che le sofferenze
l’avessero privato dell’intelletto. Quando si fu un poco ripreso, lo portai
nella mia cabina per assisterlo quel tanto che il mio dovere mi consentiva. Non
avevo mai visto una creatura più interessante: i suoi occhi hanno, in generale,
un’espressione selvaggia, persino folle, ma ci sono momenti in cui, se qualcuno
compie un gesto di gentilezza nei suoi confronti o gli presta un minimo
servizio, il suo volto si illumina di un raggio di benevolenza e di dolcezza di
cui non ho mai visto l’uguale. Però è solitamente malinconico e disperato, a
volte digrigna i denti, come se non reggesse il peso del dolore che l’opprime.
Quando il mio ospite
si fu abbastanza ristabilito, non mi fu facile tener lontano gli uomini, che
volevano fargli migliaia di domande; ma non avrei permesso che lo tormentassero
con la loro futile curiosità, visto che la sua ripresa fisica e mentale
dipendeva chiaramente dal riposo assoluto. Tuttavia una volta il mio vice gli
chiese come mai si fosse spinto così lontano sul ghiaccio su un veicolo così
strano. Il suo volto si fece subito triste, e rispose…
‘Per cercare uno che fuggiva da me’…
‘E l’uomo che inseguite viaggia nello stesso modo?’…
‘Sì’…
‘Credo allora di averlo visto, perché il giorno che vi
abbiamo raccolto, abbiamo notato dei cani tirare una slitta sul ghiaccio, con a
bordo un uomo’….
Questo attirò
l’attenzione dello sconosciuto, che fece una moltitudine di domande circa la
strada che il demone, così lo chiamò, stava seguendo. Subito dopo, quando
rimase solo con me, disse
‘Senza dubbio ho sollevato la vostra curiosità, così come
quella di questa brava gente; ma voi siete troppo rispettoso per fare domande’...
‘Certamente; in effetti sarebbe stato davvero molto
impertinente e disumano da parte mia turbarvi con la mia curiosità’….
‘Eppure voi mi avete salvato da una strana e pericolosa
situazione; mi avete benevolmente riportato alla vita’….
Subito dopo mi
chiese se pensavo che la rottura del ghiaccio avesse distrutto l’altra slitta.
Risposi che non potevo rispondere con certezza, perché il ghiaccio non si era
rotto che verso mezzanotte, e forse per quell’ora il viaggiatore aveva già
raggiunto un luogo sicuro; ma di questo non potevo essere certo.
Da questo momento
una nuova vitalità ha animato il corpo deperito dello sconosciuto. Ha
manifestato il più gran desiderio di salire in coperta per vedere la slitta
apparsa in precedenza, ma l’ho persuaso a rimanere in cabina, perché è troppo
debole per sopportare la rigidità della temperatura. Gli ho promesso che
qualcuno osserverà per lui e che se dovesse avvistare qualcosa lo informerà
immediatamente. Tale è il mio diario per ciò che riguarda lo strano episodio
sino ad oggi. Lo sconosciuto è gradualmente migliorato in salute, ma è molto
silenzioso e sembra a disagio quando qualcuno, oltre a me, entra nella sua
cabina. Comunque i suoi modi sono così concilianti e gentili che tutti i
marinai si interessano a lui, anche se non gli parlano quasi mai. Da parte mia
comincio a volergli bene come a un fratello, e il suo costante e profondo
dolore mi riempiono di tenerezza e di compassione. Deve essere stata una nobile
creatura nei suoi giorni migliori, visto che persino ora, nella sventura, è
così affascinante e amabile. In una delle mie lettere ti avevo detto, mia cara
Margaret, che non avrei trovato un amico sul vasto oceano; e invece ho trovalo
un uomo che, prima che il suo spirito venisse abbattuto dalla sofferenza, sarei
stato felice di avere come amico del cuore.
Continuerò il mio
diario a intervalli, con notizie sullo sconosciuto quando avrò altri episodi da
annotare….