CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

martedì 22 ottobre 2024

LA TERZA PORTA, ovvero, L'ENIGMA DEL LABIRINTO (dedicato a Rinconete e Cortadillo) (7)

 


 







Precedenti capitoli 


degli inutili idioti (4/6) 




Prosegue con un 


diverso sé  (8)







Il labirinto, come la spirale, è anche uno tra i più antichi segni apotropaici: sono ambedue vie di salvezza e modelli di iniziazione e, più semplicemente, di ostacolo, posti a fermare e confondere chi vorrebbe intrudere, sempre che egli non sappia risolvere l’enigma o procedere verso il centro. È questo il motivo per cui il segno del labirinto appare su porte, su muri e urne funerarie, su finestre e soglie; nell’uso funebre, così come per l’immagine della Sfinge, esso adempie alla duplice funzione di tenere gli spiriti dei morti nel luogo in cui riposano e di impedire che esseri male intenzionati- umani o divini - possano entrare.   

 

A tutto ciò va ad aggiungersi ben presto il concetto del labirinto inteso a designare qualunque complicazione di ordine intellettuale. L’intera letteratura medioevale è piena di allegorie con apparizioni di labirinti, di strade seminate di inganni, di castelli fatati con lunghe successioni di sale entro le quali è facile perdere il cammino e dove abitano strani personaggi, figure emblematiche e allegoriche: a volte fauste, altre volte infauste, a volte dolcissime, a volte orribili. Il labirinto, frequentemente rappresentato nelle cattedrali (a partire da quella francese di Chartres) stava a simboleggiare gli intrichi, i dubbi, i triboli e gli inganni di cui è seminato il cammino dell’uomo.




Per l’uomo del ’500 e del ’600 il mondo appariva come un labirinto: ne discendeva immediatamente l’impulso di trovare un filo per uscirne, un elemento che consentisse di portare l’ordine laddove regna il caos. Per l’uomo raziocinante uno degli strumenti per vincere il disordine è evidentemente il calcolo, la matematica e il segno. Da ciò l’infinita varietà dci sistemi combinatòri, alfabetici e numerici, dove non si sa davvero dove finisca il giuoco e dove cominci il discorso serio: ciò che attirava i manieristi verso l’arte combinatoria era probabilmente l’aspetto labirintico.

 

L’uomo di quei secoli rimane attratto dal percorso sinuoso del labirinto o soltanto della spirale, e alla luce della nuova matematica lo studia per un astratto diletto dello spirito o per progettare emblemi e aiuole di giardino. Ma naturalmente anche nella pittura questa tendenza si manifesta con la massima evidenza. Lo stesso Leonardo non ne rimase indenne, affascinato com’era dal groviglio dei nodi, affini ai labirinti sul piano della rappresentazione, su quello matematico e su quello psicologico.

 

 Entrare nel labirinto vuoi dire collocarsi in una solitudine volontaria; significa accettare i rigiri e i rigori ignoti della sorte e tentare la soluzione rifiutando ogni aiuto che non sia quello della propria mente, se mai con l’esile aiuto di un filo sottile di un’Arianna che è comunque parte di noi stessi; per Dedalo vuoi dire costruirsi un proprio labirinto per poi escogitare la maniera di uscirne.




Le enunciazioni enigmatiche, segrete ed oracolari portano scritto in faccia, per così dire, la inquietante doppiezza della parola, in quanto essa manifesta e al tempo stesso cela e differisce. Tale duplicità della parola nelle enunciazioni considerate provengono dalla bocca di un dio o di un signore o padrone della parola. La decifrabilità dell’enigma è un aspetto assolutamente irrilevante nell’enigma antico. Esso si presenta come minaccia, trappola e rischio mortale, ed è in questa funzione e con questa forza che esso si presenta nei testi.

 

Pensare l’enigma antico in analogia a questo labirinto significa concepirlo come un congegno che apre un discorso che palesa la frattura fra significante e significato e la deriva che ne segue. L’abisso e il labirinto sono figure analoghe in questo senso: la vertigine e l’oscillazione avanti e indietro sono due modi analoghi di perdersi.

 

Un ulteriore e particolare riferimento, quanto mai opportuno in questa sede, è quello vòlto alla letteratura potenziale: gli oulipiani, e gli oplepiani, costruiscono le loro invenzioni costringendole in un labirinto di regole d a loro stessi creato e dal quale si propongono di uscire.



LEGGERE NELLE VISCERE:

 

 


 

Quella che cercherò di raccontare è una delle storie più antiche del mondo, una storia che comincia e non finisce perché, in definitiva, è la nostra stessa storia, la storia di un viaggio, anzi del nostro ininterrotto viaggio di conoscenza. La mia storia comincia in Mesopotamia, la terra dci due fiumi, dove perla prima volta gli uomini costruiscono le città e dove per la prima volta entrano nella storia e si interrogano sulla propria identità, sulla loro origine e sul loro destino.

 

In questo modo, se non mi inganno, anche se non si pone ancora la condizione del Labirinto, se ne pongono in qualche modo, necessariamente, le premesse.

 

Il Labirinto, infatti, è un emblema intimo ed esasperato e, soprattutto, ‘rimosso’ di tutto ciò che è costruito in forme via via più complesse, è visceri e cervello, meandro e spirale, e, da ultimo, esaltazione di uno ‘sprofondamento’.




Il Re di Uruk Gilgamesh è atterrito da una scoperta: egli è il capo supremo del paese, ma vede che intorno a lui la morte, più potente di lui, si aggira e colpisce e un giorno potrà colpire anche lui. Stando sulle mura della città, vede galleggiare sull’acqua i cadaveri dei suoi cittadini colpiti da una pestilenza e si domanda:

 

‘Anch’io un giorno sarò così, anch’io un giorno sarò morto: come si fa a sfuggire alla morte?’.

 

La risposta che egli stesso si dà è questa:

 

‘Voglio andare a fare un viaggio, un viaggio in un paese lontano’,

 

…un paese talmente lontano che ha un nome per i Sumeri emblematico: è la ‘Montagna’ (sum. kur).Pensate ora a come è piatta la Mesopotamia sumerica, come è fatta tutta dalle sabbie alluvionali dei due grandi fiumi e come la Montagna, per un Sumero, diventa remota, alta, inattingibile e, soprattutto, ‘diversa’.




Ma Gilgamesh dice:

 

‘Mi voglio recare alla Montagna, lì voglio andare’

 

…ed aggiunge ancora un pensiero che rende ancora più chiaro il suo progetto cognitivo:

 

‘Lì voglio andare e lì voglio ‘poggiare’ il mio nome’.

 

E poi aggiunge anche questo, che riferisco parafrasando il poemetto sumerico cui farò più volte riferimento:

 

‘Nei luoghi dei nomi non dati lì voglio portare il nome degli dèi, nei luoghi dei nomi già dati lì voglio portare il mio nome’.




Questo significa, secondo la mentalità sumerica, che quando si fa un viaggio di conoscenza, si va nei luoghi dei nomi già dati e ci si confronta con il notum portando e proponendo il proprio nome; ma se si va ‘nei luoghi dei nomi non dati’, cioè in una terra assolutamente incognita, il novum, occorre fare insieme un atto di fede ed uno di umiltà, perché conoscere, in definitiva, è solo un riconoscersi ‘nei luoghi dei nomi già dati’, mentre tutto ciò che è assolutamente nuovo è veramente impresa da far tremare le vene ai polsi.

 

Gilgamesh, recandosi alla Montagna, va di fatto a tagliare alberi nel paese di Huwawa: Huwawa, a sua volta, è un’entità (non trovo termine migliore, dato che egli è in parte uomo in parte albero) piuttosto terrificante. Lo si vede subito nelle caratteristiche essenziali in certe raffigurazioni sumeriche, dove esso appare come un volto, anzi come un volto u mano, ma è facile riconoscere che tale volto è fatto di spire, di anse, di circonvoluzioni; è insomma un intestino che è diventato un volto o un volto che è diventato intestino. Qui stanno, come vedremo meglio tra breve, le radici remote del labirinto ‘prima del Labirinto’.




Nella Mesopotamia immediatamente successiva a quella di Uruk e di Gilgamesh, quella degli ‘aruspici’ Assiri e Babilonesi, l’intestino degli animali che viene usato per trarre presagi è significativamente chiamato ‘il palazzo delle visceri’ e più esattamente, con un termine che deriva dal sumerico, ‘la grande casa delle visceri’ (si noti l’istanza ideologica del ‘costruito’ nelle sue implicazioni labirintiche!), dove è facile perdersi, se non si possiede il giusto ‘filo’ cognitivo.

 

Ma, a questo punto, dobbiamo domandarci come tutto ciò sia nato e, più precisamente, come si sia generata questa storia antichissima di un personaggio che ha un volto fatto di anse intestinali di natura decisamente (pre)labirintica.




La storia del viaggio di Gilgamesh verso l’essere favoloso che custodisce una immensa foresta di alberi merita proprio di essere raccontata: è una storia di coraggioso desiderio di conoscenza, è anche una storia di smarrimenti e di paure, di desiderio di andare avanti e di tornare indietro.

 

Gilgameshè andato via dalla città di Uruk, cercando compagni alla sua impresa con questo proclama:

 

‘Chiunque abbia una madre stia con sua madre, chiunque abbia una casa stia a casa sua, ma chi non ha madre, chi non ha casa venga con me’.

 

Ripeto: questa è la condizione più autentica di chi si accinge ad un viaggio autentico di conoscenza, dove bisogna essere capaci di abbandonare le certezze più comode e più indiscutibili (e tra queste, almeno dalla ‘rivoluzione neolitica’ in poi, collocheremo, anche quattromila anni dopo Gilgamesh, senza esitazioni… la ‘mamma’ e la ‘casa’ ). Il viaggio è molto periglioso, perché oltremodo pericoloso è questo personaggio che attende Gilgamesh sulla ‘Montagna’ remota.




Ma quando egli arriva ed inizia la battaglia, è la lingua sumerica che ci fa capire cose sottili ed importanti (e qui faccio il linguista, perché questo è il mio mestiere), dal momento che questa entità che è Huwawa, e che nelle rappresentazioni successive prenderà l’immagine di un volto fatto di anse intestinali, è considerata nella lingua sumerica del poemetto di volta in volta una persona e un a cosa (questo si vede dall’uso di pronomi anaforici diversi, volutamente alternati nel tessuto testuale).

 

Quando Huwawa attacca Gilgamesh ci si riferisce a lui come ‘persona’, quando Huwawa viene attaccato da Gilgamesh ci si riferisce a lui come ‘cosa’: in altri termini egli è ‘persona’ ed è umano quando è ‘attivo’, è ‘cosa’ ed è albero quando è ‘passivo’.

 

In questa seconda circostanza si parla di ‘fianco’ di Huwawa, seguendo ancora un metro parzialmente antropomorfico, ma si parla soprattutto di ‘rami’ di Huwawa, che ‘vengono tagliati, legati e posti ai piedi del monte’.




Si capisce allora che Huwawa è di volta in volta il guardiano del bosco ed è il bosco stesso, anzi l’albero, il grande albero primordiale. Questo albero ha una forma antropomorfa, ma anche l’uomo - se pensiamo un attimo - ha una forma dendromorfa, con il busto che è un ‘tronco’, le braccia che sono dei ‘rami’, la ‘testa’ che è una ‘cima’ o una ‘chioma’ (umana o arborea).

 

Empedocle, in un bellissimo passo del suo ‘poema fisico e lustrale’ dice dello ‘sfero’, l’essere primordiale poi identificato con Apollo: ‘Egli non ha spalle da cui partono rami’, cioè descrive Apollo come non rappresentabile come qualcuno con ‘spalle da cui partono rami’, secondo un antropismo dendromorfico.

 

Possiamo concludere per un prototipo cognitivo in cui le braccia sono rami e i rami sono braccia?




Credo proprio di sì, almeno per quanto riguarda Greci e Sumeri, ma non loro soltanto, se è vero che i graffiti delle Alpi occidentali di epoca preistorica ci hanno restituito l’immagine remotissima dell’homme-sapin, dell’uomo-abete.

 

Quando Huwawa è definitivamente sconfitto, quando il suo tronco è tagliato, Gilgamesh si china a guardarlo da vicino. Nel testo sumerico del racconto c’è questo strano e direi ‘enigmatico’ verso:

 

‘Come un serpente del molo del vino era perfetta la sua figura’.

 

Contro questo verso si sono finora spuntate molte armi filologiche, perché il paragone è a prima vista incomprensibile, e altrettanto incomprensibile è l’asserto in esso contenuto, anche nel dettaglio delle singole parti della frase. Il problema sostanzialmente è questo: cos’è, in definitiva, ‘un serpente del molo del vino?’ Perché il vero volto di Huwawa, che corrisponde all’intima essenza del tronco tagliato, è ‘come un serpente?’.


[PROSEGUE NEL LABIRINTO]







lunedì 7 ottobre 2024

L'INUTILE IDIOTA (4)

 









Precedenti capitoli:


(1)  (2)  (3) &


un Racconto 









Prosegue con 


l'inutile 


idiota offeso (5)  & 








L' utile reditus (6) 


& la terza porta (7)








Ora, presupposta la catastrofe ermeneutica, cosa impedisce di immaginare una gallina, per esempio, tesserata di un partito, in visita ad un museo, matricola all’università o membro di una community?

 

Anche una chioccia vede e osserva gli oggetti che le sono intorno (con buona pace di Almeone di Crotone, che oltre duemilacinquecento anni fa distinse il “comprendere” proprio dell’uomo e il mero “percepire” degli animali).

 

E tuttavia, il solo pensiero di un gallinaceo decisore pubblico (o deambulante in un museo, spettatore a teatro o allievo di un corso accademico) potrebbe ai più apparire a tal punto perturbante da porre in discussione lo stesso processo di ominazione, ingenerando una pericolosa confusione tra il mondo della natura e il mondo della cultura e richiamando immediatamente (e tragicamente) alla mente dell’homo sapiens il genere di cui esso è specie.




La superiorità dell’homo sapiens sugli altri animali è infatti conseguenza dell’elaborazione di una capacità simbolica e di un desiderio di perseguimento dell’inutile che, consentendogli di superare le percezioni esclusivamente sensoriali, le facoltà puramente deduttive e la mera cupidigia utilitaristica, lo introduce in un universo culturale. Solo in tale dimensione l’uomo, oltre (e insieme a) il linguaggio logico, si avvale anche del lessico del sentimento, dell’immaginazione, della poiesis; oltre la percezione sensibile (esperita nell’hic et nunc), si proietta anche nel futuro, rendendosi responsabile del suo domani.

 

L’animal sentiens et rationale evolve, così, nell’animal symbolicum, capace di creare nuove realtà: inaudite, invisibili, immaginarie e immaginali.

 

Ma ciò presuppone il superamento della sfera del visibile, del mero vedere.

 

Ovviamente, non si vuole qui negare che la realtà si conosca (anche) vedendola: tuttavia, posto che nemmeno la natura può essere davvero conosciuta semplicemente guardandola, ciò vale a maggior ragione per il mondo della cultura e della realtà sociale, comprensibile ed esplorabile esclusivamente attraverso un conoscere per concetti astratti.




E se la nascita della storia e della civiltà si fa coincidere con il passaggio dalla comunicazione orale alla parola scritta, occorre riflettere sul fatto che i capisaldi culturali della civiltà mediterranea si facciano tradizionalmente risalire all’elaborazione poetica di Omero, il cieco poeta di Chio dell’Inno ad Apollo32, μ ρν, colui che non vede, e che, proprio per questo, è capace di creare, nella dimensione poetica, una realtà frutto di un’elaborazione interiore.

 

Ci può dunque essere un pensare (sublime) che prescinde dal vedere (ce lo testimonia Omero) e, all’inverso, un vedere (volgare) che prescinde dal pensare: la prima delle due facoltà è propria – a diversi livelli – dell’homo sapiens, cogitans e symbolicus; la seconda, invece, è caratteristica peculiare dell’homo videns, nel quale (vittima di una sorta di metamorfosi involutiva che lo riconduce alla feritas) il visibile prevale sull’intelligibile, il guardare si impone sul capire e la parola è assuefatta all’immagine.




La mutazione di cui ci limitiamo a constatare i sintomi, dunque, neo, trans o post che dir si voglia, investe la natura stessa dell’homo sapiens, generando un nuovo tipo di ànthropos. È, questi, il partus masculus della postmodernità che, avendo già abdicato ai poteri della memoria e dotato di una soglia di attenzione sottilissima, è avvezzo solo a una sovrapposizione sensoriale di suoni, immagini e azioni, e a un accavallamento di nozioni, pseudo-concetti e luoghi comuni. Tutto ciò riduce ulteriormente la sua capacità di elaborazione (per astrazione dalla realtà concreta e dalle esperienze vissute) con la conseguente rinuncia, per inattività, alla sfera del simbolico.

 

È la genesi del touch-man, che, ipermetrope e ipocogitante (sebbene superdigitante), nell’ordito elementare sotteso ai suoi pensieri e nel primitivismo cognitivo che lo contraddistingue, risulta incapace di confrontarsi con ciò che non è immediatamente visualizzabile (e, in molti casi, monetizzabile).

 

Nel contempo, il touch-man è inetto a comunicare le proprie esperienze. Fa uso, infatti, di un idioma che, pur infarcito di parole ridondanti ed eccessive (ma prive di profondità prospettica), risulta complessivamente sempre più vuoto, essenziale, descrittivo, stentato, ridotto a gergo tecnico e funzionale. Comincia, così, ad avvalersi (senza avvedersene) di un linguaggio integrale che, nell’incapacità di dispiegare il senso figurato implicito nell’espressione letterale (attraverso l’uso e l’abuso di experimenta linguae mutuati dalla comunicazione digitale), si riduce a significare solo ciò che significa.




Nell’impossibilità di distinguere tra lettera e spirito si afferma, perciò, un’ermeneutica negativa generale che, ritenendo inconcepibile un orizzonte di senso ulteriore, si pone come reductio ad absurdum. Si manifesta, così, una postura cerebrale diametralmente opposta a quella propria, ad esempio, del contesto culturale medievale dell’interpretazione delle Regulae francescane (e delle polemiche pauperistiche che ne seguirono) in cui l’interprete, proprio per la sovrabbondanza polisemica di significati reperibili, era talvolta richiamato ad attenersi alla semplicità e alla purezza dell’oggetto sottoposto alla sua attività interpretativa, sine glossa et commento.

 

L’homo videns postmoderno è, invece, più un animale senziente che un animale simbolico. La dimensione multimediale (primo strumento educativo che precede, talvolta di anni, l’approccio alla lettura e alla scrittura), assurgendo al rango di paideia (spesso in funzione di supplenza rispetto alla famiglia e alla scuola), ha infatti drasticamente ridotto la sua vivacità intellettuale e la sua capacità di un pensare astraente.




E ciò almeno in misura direttamente proporzionale al tasso di pigra passività con cui il touch-man si lascia imprigionare dal profluvio di immagini, parole e suoni effimeri di una video-comunicazione che, facendo leva sulla strumentalizzazione ideologica dei discorsi, è destinata a convincere e a persuadere più che a fornire spiegazioni o indurre alla riflessione. In questo modo, però, il senso stesso dell’esistenza è ridotto all’apparenza, alla vanità, con un irrefrenabile depauperamento simbolico di cui stentiamo a valutarne le conseguenze.

 

Si pensi – per limitarci ad un solo esempio – alla possibilità di riflettere sul valore della vita e della morte attraverso l’immagine simbolica di un “teschio”. Simbolo quattro-seicentesco dei temi del memento mori e della vanitas (dall’homo bulla al tristo mietitore, dalla danza macabra all’Et in Arcadia ego), esso ha subito una coercizione semantica che, prima, lo ha ridotto a cult object dell’alienista e dell’antropologo criminale (interpreti di una filosofia positiva riducente il corpo umano a modello meccanico di cui l’anatomé svela i segreti ingranaggi), poi, a logo e icona del contemporaneo.




Oggi, la “testa di morto”, scesa dal pulpito e privata delle sue potenzialità oracolari, non solo ha “smesso di insegnare”, ma ha perso anche la sua residuale funzione di sussidio didattico.

 

Compagno per secoli di santi e beati, dalla Maddalena penitente a Francesco d’Assisi, da santa Rosalia a san Girolamo (mi limito a ricordare il bellissimo dipinto a olio su tavola, siglato e datato Albrecht Dürer 1521, conservato nel Museo Nazionale d’arte antica di Lisbona), oggi, il teschio, privato del suo originario pathos ermeneutico e avendo – sua malgrado – smesso di informarci e ammonirci sui misteri della vita e della morte, si riduce ad essere un “motivo”, tra i tanti, della cultura in auge.

 

Non desti perciò meraviglia che, dopo Andy Warhol (con Skull and Crossbones, 1985-86 e Skeleton, 1976-86), Jean-Michel Basquiat (con Untitled – Skull, 1981 e View of Base of Skull, 1982) e James Rosenquist (con la serie Skull Snap, 1988-89), Damien Hirst abbia deciso – interprete del suo tempo – di realizzare, nel 2007, For the love of God, scultura di un teschio di platino ricavata dal calco di un cranio di un giovane uomo morto a trentasette anni, con i denti originali, ricoperto da 8.601 diamanti, per un totale di 1.106,18 carati.




L’opera, citazione allegorica degli “scheletri addobbati” barocchi, valutata cento milioni di dollari, è stata, ovviamente, accompagnata da un ricco merchandising che ha ingenerato un business colossale il cui turbinio può essere in fondo interpretato come esorcizzazione post-moderna della paura della morte e suo estremo tentativo di negazione e, anche, di mercificazione autosignificante.

 

In questo modo, però, il senso dell’esistenza è stato ridotto all’assoluta apparenza, alla vanità tout court, nel trionfo di una narcosi mediatica generativa del virus della stupidità.

 

Essa (la stupidità post-moderna) ha come sintomo una generica astenia mentale che induce chi ne è colpito, nonostante l’incapacità a capire ciò che vede e ad organizzare un discorso secondo le regole della necessità logica, a manifestare costantemente il suo consenso. E ciò sulla base di una comunicazione effimera o di una conversione ad una cultura di massa alla continua ricerca – per sua stessa natura – di neocatecumeni di una nova religio che, privilegiando modelli di vita hypo-, promette orizzonti di vita assai poco problematici.




Vige, in un tale contesto, quella dimensione esistenziale poco sopra definita di “indifferenza apprensiva”, caratterizzata dalla continua ricerca di una dimensione a-conflittuale dell’esistenza e dal disinteresse per un destino comune. Un’impassibilità che, tuttavia, è ossimoricamente turbata dall’ansia di essere presi in considerazione e resi partecipi degli “eventi collettivi” e delle “decisioni pubbliche”. Eventi e decisioni che, in realtà, non sono più veramente tali (come la pipa di Magritte): si tratta, piuttosto, di performance eterodirette, sceneggiate dalla segreta regìa che governa l’allegoria sociale.

 

Ed è proprio in questo stato eccitato di allegoria sociale che emerge – come una Venere, dalla fantasmagorica spuma che un tempo si sarebbe detta carnascialesca – la figura metaforica del “cittadino decidente”.




Questi, assai più vicino all’utile idiota di Lenin che al folle di Erasmo, incline alla ferinitas e privo di autogoverno, pur ai margini della vita pubblica (perché minimamente soggettivato, privo di autocoscienza e di metalinguaggio critico, incapace di comparare tra sé e gli altri e di sviluppare un’intelligenza sociale) è tuttavia massimamente socializzato, “poiché si appiattisce completamente sui comportamenti più comuni e diffusi, aderendo senza residui allo standard propostogli come ‘buono’ e ‘giusto’ da una qualche forma di autorità; […] e ciò gli consente di trovare senza sforzo la propria nicchia identitaria”. Integrandosi perfettamente in società e sostituendo, docile e di buon grado, il noi all’io, contribuisce all’idiozia della massa in cui ambisce ad essere cooptato, inserendosi a buon diritto nel “ceto medio basso dello spirito e dell’anima”.

 

Ritorna, così, drammaticamente vivida ai nostri occhi la caustica immagine dell’uomo e della gallina da noi evocata in capite argumenti.

 

Da un lato il bipede pennuto, da identificare con l’individuo-massa-insipiente, ipocomprensivo e iperestensivo, che, avendo rinunciato al lusso comparativo dell’intelligenza individuale, è dotato di un minimo di comprensione (di sé, degli altri, del mondo) e del massimo di estensione massiva. Un desiderio di partecipazione che, amplificato dalle potenzialità del web (si pensi alla realtà virtuale di facebook, instagram, twitter google), trasforma il suo mortificante solipsismo in ansia e desiderio di visibilità, di consumo e di successo (seppur effimero: il quarto d’ora di celebrità di cui parla Warhol).




Dall’altro, il bipede implume, l’individuo-singolo-cogitante, ipercomprensivo, che, in preda ad un’erasmiana follia, si interroga sul senso delle cose e si sforza di avere contezza di sé, degli altri e del mondo, scegliendo di non omologarsi a modelli di comportamento precari ed eterodiretti; proprio per questo, tuttavia, come l’διώτης greco di cui si è discusso nel primo capitolo, è condannato ad essere un isolato socialmente, di natura infraestensiva.

 

Reo di essere inadeguato alle logiche performative che cercano di determinarlo, “escluso da qualsiasi audience, sino al limite, estremo, dell’ostracismo da ogni ambito pubblico che non sia marginale o di nicchia”, è costretto non di rado a un dissenso tacito. Difficilmente sarà protagonista di processi decisionali all’interno di quel sistema che l’ha condannato, dal punto di vista intellettuale, ad uno stile di vita consapevolmente anacoretico.

 

Il bipede implume ne è consapevole e, in fondo, è felice che così sia. 

(A. Cesaro)







domenica 6 ottobre 2024

IL RACCONTO DELLA DOMENICA, ovvero, GOGOL L'INTELLETTUALE LETTO DA GOOGLE (l'id...)

 









Da precedenti anellati scritti...   


Prosegue con in racconto...: 


completo







Adesso io vedo tutto come se l’avessi sul palmo della mano. Ma prima – io non capisco – prima ogni cosa era come annebbiata. E ciò deriva, penso, dal fatto che la gente si immagina che il cervello umano risieda nella testa; no, niente affatto: esso viene trasportato, dal vento, dalle lande del Caspio. 

 


 

3 OTTOBRE Oggi è accaduto un fatto straordinario.

 

Stamani mi sono alzato piuttosto tardi, e quando Mavra mi ha portato le scarpe pulite le ho chiesto l’ora. Appena ho sentito che le dieci erano suonate ormai da un pezzo, sono corso a vestirmi. Io, lo confesso, non ci sarei andato proprio per nulla al ministero, sapendo già che grinta acida mi avrebbe fatto il nostro caposezione.

 

È ormai un bel pezzo che mi va dicendo:

 

– Ma cosa ti succede, carissimo, che hai sempre la testa a soqquadro?




Certe volte ti agiti come un ossesso, oppure ingarbugli talmente una pratica che, poi, nemmeno il demonio ci si raccapezza; incominci una intestazione con la minuscola, non metti né data né protocollo.

 

– Brutta cicogna! È certamente geloso perché sto nell’ufficio del direttore, e tempero le penne a sua eccellenza. Insomma non ci sarei andato proprio per nulla, al ministero, se non fosse stato per la speranza di trovarci il cassiere e, chissà, di riuscire a strappare a quel giudeo sia pure un piccolo anticipo sullo stipendio. È dei buoni, anche lui! Ti desse mai qualcosa sui denari del mese!

 

Accidenti, verrà prima il giudizio universale!

 

Prega, schianta magari, trovati magari con l’acqua fino alla gola – niente ti dà, quel satanasso brizzolato.




E, a casa, la cuoca lo piglia a ceffoni sul muso: lo sanno tutti.

 

Io non capisco che vantaggio ci sia a far l’impiegato in un ministero: non ci sono risorse di nessun genere. Ecco: nelle amministrazioni governatoriali, municipali, all’erario, è tutta un’altra cosa; là dai un’occhiata, e vedi magari un tale, rincantucciato in fondo a un cantone, che scribacchia; indosso ha un vestituccio da far schifo, un grugno che ti viene da sputare a vederlo, e guarda poi che villa si affitta per l’estate!

 

Mica c’è da arrischiarsi a portargli una tazzina di porcellana con gli orli dorati!

 

– Questo, – dice, – è un regalo che va bene per un medico; – a lui devi portare una pariglia di trottatori, o un calesse, o una pelliccia di castoro da trecento rubli. A vederlo ti sembra un agnellino, parla con tutta delicatezza:

 

– Usatemi la cortesia di prestarmi il temperino per appuntar la pennuccia,




– e poi ti ripulisce così che, a un postulante, lascia soltanto la camicia indosso. È vero che il nostro è, in compenso, un impiego più nobile; c’è dovunque una pulizia che, in una amministrazione governatoriale, non la vedrai finché campi; i tavoli sono di mogano, e i direttori danno il voi...

 

Sì, lo confesso, se non fosse per la nobiltà dell’impiego, io il ministero lo avrei abbandonato da un pezzo. Mi sono infilato il ferraiuolo vecchio, e ho preso l’ombrello perché veniva giù una pioggerella fitta fitta. Per le strade non c’era anima viva; mi è avvenuto di incontrare soltanto delle popolane, che si riparavano con le gonne arrovesciate, dei mercanti russi sotto gli ombrelli, e dei fattorini.




Di gente rispettabile non ho visto altri che un mio pari: un impiegato. È stato a un crocevia. Quando l’ho scorto mi sono detto subito:

 

‘Ehé! No, bello mio, tu non stai andando affatto al ministero: tu stai seguendo quella che ti trotta davanti, e le guardi le gambe e il bel di dietro’.

 

Che bestiacce questi miei pari, gli impiegati!

 

Perdio, non sono da meno di nessun ufficiale: basta che ne capiti una col cappellino, e ci si agganciano subito. Mentre pensavo a questo, ho veduto una carrozza che si avvicinava al negozio davanti al quale stavo passando. L’ho riconosciuta immediatamente: era la carrozza del nostro direttore.

 

‘Lui, però, non può aver nulla da fare in un negozio’,

 

…ho pensato:

 

‘Deve essere, certo, la figlia’.




Mi sono addossato al muro. Il lacchè ha aperto lo sportello e lei, come un uccellino, è frullata giù dalla carrozza. Che sguardi lanciava a destra e a sinistra, come le brillavano gli occhi e le sopracciglia...

 

Dio, Dio mio, sono perduto, sono completamente perduto!

 

Ma perché doveva uscirsene proprio con un tempo così piovoso! Va’ a dire, poi, che le donne non vanno matte per tutti quei cencini! Lei non mi ha riconosciuto; del resto, io cercavo di rimbacuccarmi più che potevo, perché il mio ferraiuolo era tutto sporco, eppoi di taglio antiquato. Adesso i ferraiuoli si portano con i baveri lunghi, e i miei sono corti, uno sovrapposto all’altro; e il panno non è affatto decatizzato.




La cagnetta di lei, che non aveva fatto a tempo a infilarsi nel negozio, era rimasta in strada. Io la conosco questa cagnetta. Si chiama Madgie. Non era neppure un minuto che stavo lì, quando a un tratto sento una vocina sottile:

 

‘Buongiorno, Madgie!’

 

‘O questa! Chi parla?’

 

Giro attorno lo sguardo, e vedo due signore che camminano sotto l’ombrello: una è anzianotta, l’altra è giovane; ma erano ormai passate; e io sento di nuovo, lì vicino:

 

‘Vergogna, Madgie!’

 

‘Che diavoleria è questa!’

 

Vedo Madgie che si sta annusando con un altro cagnolo che seguiva le dame.




‘Ehé!’, mi sono detto: ‘Basta: sarei per caso ubriaco? Però questa, a dir vero, è una cosa che mi capita molto di rado’.

 

‘No, Fidèle, hai torto a pensarlo’,

 

…diceva Madgie, e lo vidi io stesso che lo diceva Madgie.

 

‘Sono stata, àu, àu! sono stata, àu, àu, àu! molto malata!’

 

‘Ah, tu, cagnaccia! Vedi un po’!’




Confesso che rimasi molto sorpreso nel sentirla parlare come una persona; ma dopo, a conti fatti, ho smesso di stupirmene.

 

Effettivamente a questo mondo è già accaduta una infinità di casi del genere.




Si dice che in Inghilterra sia uscito fuori dall’acqua un pesce che ha pronunciato due parole in una lingua così bizzarra, che da tre anni gli scienziati si stanno rompendo il capo per scoprire quale sia, e a tutt’oggi non hanno ancora scoperto un bel nulla.

 

Ho letto pure, sulle gazzette, di due vacche che sono entrate in una bottega e hanno chiesto una libbra di tè. Ma, lo confesso, mi sono stupito molto più quando ho sentito dire da Madgie:

 

‘Io ti ho scritto, Fidèle; si vede che Polkan non ti ha portato la lettera!’

 

‘Accidenti! In vita mia non ho mai sentito che i cani potessero scrivere. Scrivere correttamente è cosa che può fare soltanto un nobile. Sì, è vero, si trova della gente che scribacchia qualcosuccia, anche fra i contabili di negozio, e perfino fra i contadini; ma il loro modo di scrivere è per lo più meccanico: non ci sono né virgole né punti; non c’è stile’.




La cosa mi ha stupito!

 

Confesso che, da un po’ di tempo a questa parte, ho preso a sentire e vedere, certe volte, cose mai viste né udite da nessuno.

 

‘Ecco, ora vado’, ho detto dentro di me, ‘dietro questo cagnolo, e saprò chi è, e cosa pensa’.

 

Ho aperto l’ombrello, e mi sono incamminato dietro le due dame. Esse sono entrate in via dei Piselli, hanno voltato in via dei Borghesi, di lì in via Stipettai, infine sul ponte Kokuskin, e si sono fermate dinanzi a un grande edificio.




‘Lo conosco questo palazzo’,

 

…mi sono detto.

 

‘È il palazzo Zverkov’.

 

…Che torre di Babele!

 

Quanta gente vi abita; quante cuoche, quanti forestieri! E quanta gente par nostra…

 

Gli impiegati!

 

Come i cani: uno a ridosso dell’altro. Anch’io ci ho un amico lì, che suona bene la tromba. Le dame sono entrate in un appartamento del quinto piano.

 

‘Bene’, ho pensato:

 

‘Ora non ci vado, ma prendo nota, e non mancherò di approfittarne alla prima occasione’.


(& il racconto completo)