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Il labirinto, come la spirale, è anche
uno tra i più antichi segni apotropaici: sono ambedue vie di salvezza e modelli
di iniziazione e, più semplicemente, di ostacolo, posti a fermare e confondere
chi vorrebbe intrudere, sempre che egli non sappia risolvere l’enigma o
procedere verso il centro. È questo il motivo per cui il segno del labirinto
appare su porte, su muri e urne funerarie, su finestre e soglie; nell’uso
funebre, così come per l’immagine della Sfinge, esso adempie alla duplice
funzione di tenere gli spiriti dei morti nel luogo in cui riposano e di
impedire che esseri male intenzionati- umani o divini - possano entrare.
A tutto ciò
va ad aggiungersi ben presto il concetto del labirinto inteso a designare
qualunque complicazione di ordine intellettuale. L’intera letteratura medioevale
è piena di allegorie con apparizioni di labirinti, di strade seminate di
inganni, di castelli fatati con lunghe successioni di sale entro le quali è facile
perdere il cammino e dove abitano strani personaggi, figure emblematiche e
allegoriche: a volte fauste, altre volte infauste, a volte dolcissime, a volte
orribili. Il labirinto, frequentemente rappresentato nelle cattedrali (a
partire da quella francese di Chartres) stava a simboleggiare gli intrichi, i
dubbi, i triboli e gli inganni di cui è seminato il cammino dell’uomo.
Per l’uomo del ’500 e del ’600 il mondo appariva come un labirinto: ne discendeva immediatamente l’impulso di trovare un filo per uscirne, un elemento che consentisse di portare l’ordine laddove regna il caos. Per l’uomo raziocinante uno degli strumenti per vincere il disordine è evidentemente il calcolo, la matematica e il segno. Da ciò l’infinita varietà dci sistemi combinatòri, alfabetici e numerici, dove non si sa davvero dove finisca il giuoco e dove cominci il discorso serio: ciò che attirava i manieristi verso l’arte combinatoria era probabilmente l’aspetto labirintico.
L’uomo di
quei secoli rimane attratto dal percorso sinuoso del labirinto o soltanto della
spirale, e alla luce della nuova matematica lo studia per un astratto diletto
dello spirito o per progettare emblemi e aiuole di giardino. Ma naturalmente
anche nella pittura questa tendenza si manifesta con la massima evidenza. Lo
stesso Leonardo non ne rimase indenne, affascinato com’era dal groviglio dei
nodi, affini ai labirinti sul piano della rappresentazione, su quello
matematico e su quello psicologico.
Entrare nel labirinto vuoi dire collocarsi in
una solitudine volontaria; significa accettare i rigiri e i rigori ignoti della
sorte e tentare la soluzione rifiutando ogni aiuto che non sia quello della
propria mente, se mai con l’esile aiuto di un filo sottile di un’Arianna che è
comunque parte di noi stessi; per Dedalo vuoi dire costruirsi un proprio
labirinto per poi escogitare la maniera di uscirne.
Le enunciazioni enigmatiche, segrete ed oracolari portano scritto in faccia, per così dire, la inquietante doppiezza della parola, in quanto essa manifesta e al tempo stesso cela e differisce. Tale duplicità della parola nelle enunciazioni considerate provengono dalla bocca di un dio o di un signore o padrone della parola. La decifrabilità dell’enigma è un aspetto assolutamente irrilevante nell’enigma antico. Esso si presenta come minaccia, trappola e rischio mortale, ed è in questa funzione e con questa forza che esso si presenta nei testi.
Pensare
l’enigma
antico in analogia a questo labirinto significa concepirlo come un congegno che
apre un discorso che palesa la frattura fra significante e significato e la
deriva che ne segue. L’abisso e il labirinto sono figure analoghe in questo
senso: la vertigine e l’oscillazione avanti e indietro sono due modi analoghi
di perdersi.
Un
ulteriore e particolare riferimento, quanto mai opportuno in questa sede, è
quello vòlto alla letteratura potenziale: gli oulipiani,
e gli oplepiani, costruiscono le loro invenzioni costringendole in un
labirinto di regole d a loro stessi creato e dal quale si propongono di uscire.
LEGGERE NELLE VISCERE:
Quella che cercherò di raccontare è una delle
storie più antiche del mondo, una storia che comincia e non finisce perché, in
definitiva, è la nostra stessa storia, la storia di un viaggio, anzi del nostro
ininterrotto viaggio di conoscenza. La mia storia comincia in Mesopotamia, la
terra dci due fiumi, dove perla prima volta gli uomini costruiscono le città e
dove per la prima volta entrano nella storia e si interrogano sulla propria
identità, sulla loro origine e sul loro destino.
In questo modo, se non mi inganno, anche se non si
pone ancora la condizione del Labirinto, se ne pongono in qualche modo,
necessariamente, le premesse.
Il Labirinto, infatti, è un emblema intimo ed
esasperato e, soprattutto, ‘rimosso’ di tutto ciò che è costruito in forme via via
più complesse, è visceri e cervello, meandro e spirale, e, da ultimo,
esaltazione di uno ‘sprofondamento’.
Il Re di Uruk Gilgamesh è atterrito da una scoperta: egli è il capo supremo del paese, ma vede che intorno a lui la morte, più potente di lui, si aggira e colpisce e un giorno potrà colpire anche lui. Stando sulle mura della città, vede galleggiare sull’acqua i cadaveri dei suoi cittadini colpiti da una pestilenza e si domanda:
‘Anch’io un giorno sarò così, anch’io un giorno sarò morto: come
si fa a sfuggire alla morte?’.
La risposta che egli stesso si dà è questa:
‘Voglio andare a fare un viaggio, un viaggio in un paese lontano’,
…un paese talmente lontano che ha un nome per i
Sumeri emblematico: è la ‘Montagna’ (sum. kur).Pensate ora a come è piatta la
Mesopotamia sumerica, come è fatta tutta dalle sabbie alluvionali dei due
grandi fiumi e come la Montagna, per un Sumero, diventa remota, alta,
inattingibile e, soprattutto, ‘diversa’.
Ma Gilgamesh dice:
‘Mi voglio recare alla Montagna, lì voglio andare’
…ed aggiunge ancora un pensiero che rende ancora
più chiaro il suo progetto cognitivo:
‘Lì voglio andare e lì voglio ‘poggiare’ il mio nome’.
E poi aggiunge anche questo, che riferisco
parafrasando il poemetto sumerico cui farò più volte riferimento:
‘Nei luoghi dei nomi non dati lì voglio portare il nome degli dèi,
nei luoghi dei nomi già dati lì voglio portare il mio nome’.
Questo significa, secondo la mentalità sumerica, che quando si fa un viaggio di conoscenza, si va nei luoghi dei nomi già dati e ci si confronta con il notum portando e proponendo il proprio nome; ma se si va ‘nei luoghi dei nomi non dati’, cioè in una terra assolutamente incognita, il novum, occorre fare insieme un atto di fede ed uno di umiltà, perché conoscere, in definitiva, è solo un riconoscersi ‘nei luoghi dei nomi già dati’, mentre tutto ciò che è assolutamente nuovo è veramente impresa da far tremare le vene ai polsi.
Gilgamesh, recandosi alla Montagna, va di fatto a
tagliare alberi nel paese di Huwawa: Huwawa, a sua volta, è un’entità (non
trovo termine migliore, dato che egli è in parte uomo in parte albero)
piuttosto terrificante. Lo si vede subito nelle caratteristiche essenziali in
certe raffigurazioni sumeriche, dove esso appare come un volto, anzi come un
volto u mano, ma è facile riconoscere che tale volto è fatto di spire, di anse,
di circonvoluzioni; è insomma un intestino che è diventato un volto o un volto
che è diventato intestino. Qui stanno, come vedremo meglio tra breve, le radici
remote del labirinto ‘prima del Labirinto’.
Nella Mesopotamia immediatamente successiva a quella di Uruk e di Gilgamesh, quella degli ‘aruspici’ Assiri e Babilonesi, l’intestino degli animali che viene usato per trarre presagi è significativamente chiamato ‘il palazzo delle visceri’ e più esattamente, con un termine che deriva dal sumerico, ‘la grande casa delle visceri’ (si noti l’istanza ideologica del ‘costruito’ nelle sue implicazioni labirintiche!), dove è facile perdersi, se non si possiede il giusto ‘filo’ cognitivo.
Ma, a questo punto, dobbiamo domandarci come tutto
ciò sia nato e, più precisamente, come si sia generata questa storia antichissima
di un personaggio che ha un volto fatto di anse intestinali di natura
decisamente (pre)labirintica.
La storia del viaggio di Gilgamesh verso l’essere favoloso che custodisce una immensa foresta di alberi merita proprio di essere raccontata: è una storia di coraggioso desiderio di conoscenza, è anche una storia di smarrimenti e di paure, di desiderio di andare avanti e di tornare indietro.
Gilgameshè andato via dalla città di Uruk,
cercando compagni alla sua impresa con questo proclama:
‘Chiunque abbia una madre stia con sua madre, chiunque abbia una
casa stia a casa sua, ma chi non ha madre, chi non ha casa venga con me’.
Ripeto: questa è la condizione più autentica di
chi si accinge ad un viaggio autentico di conoscenza, dove bisogna essere
capaci di abbandonare le certezze più comode e più indiscutibili (e tra queste,
almeno dalla ‘rivoluzione neolitica’ in poi, collocheremo, anche quattromila
anni dopo Gilgamesh, senza esitazioni… la ‘mamma’ e la ‘casa’ ). Il viaggio è
molto periglioso, perché oltremodo pericoloso è questo personaggio che attende
Gilgamesh sulla ‘Montagna’ remota.
Ma quando egli arriva ed inizia la battaglia, è la lingua sumerica che ci fa capire cose sottili ed importanti (e qui faccio il linguista, perché questo è il mio mestiere), dal momento che questa entità che è Huwawa, e che nelle rappresentazioni successive prenderà l’immagine di un volto fatto di anse intestinali, è considerata nella lingua sumerica del poemetto di volta in volta una persona e un a cosa (questo si vede dall’uso di pronomi anaforici diversi, volutamente alternati nel tessuto testuale).
Quando Huwawa attacca Gilgamesh ci si riferisce a
lui come ‘persona’, quando Huwawa viene attaccato da Gilgamesh ci si riferisce
a lui come ‘cosa’: in altri termini egli è ‘persona’ ed è umano quando è ‘attivo’,
è ‘cosa’ ed è albero quando è ‘passivo’.
In questa seconda circostanza si parla di ‘fianco’
di Huwawa, seguendo ancora un metro parzialmente antropomorfico, ma si parla
soprattutto di ‘rami’ di Huwawa, che ‘vengono tagliati, legati e posti ai piedi
del monte’.
Si capisce allora che Huwawa è di volta in volta il guardiano del bosco ed è il bosco stesso, anzi l’albero, il grande albero primordiale. Questo albero ha una forma antropomorfa, ma anche l’uomo - se pensiamo un attimo - ha una forma dendromorfa, con il busto che è un ‘tronco’, le braccia che sono dei ‘rami’, la ‘testa’ che è una ‘cima’ o una ‘chioma’ (umana o arborea).
Empedocle, in un bellissimo passo del suo ‘poema
fisico e lustrale’ dice dello ‘sfero’, l’essere primordiale poi identificato
con Apollo: ‘Egli non ha spalle da cui partono rami’, cioè descrive Apollo come
non rappresentabile come qualcuno con ‘spalle da cui partono rami’, secondo un
antropismo dendromorfico.
Possiamo concludere per un prototipo cognitivo in
cui le braccia sono rami e i rami sono braccia?
Credo proprio di sì, almeno per quanto riguarda Greci e Sumeri, ma non loro soltanto, se è vero che i graffiti delle Alpi occidentali di epoca preistorica ci hanno restituito l’immagine remotissima dell’homme-sapin, dell’uomo-abete.
Quando Huwawa è definitivamente sconfitto, quando
il suo tronco è tagliato, Gilgamesh si china a guardarlo da vicino. Nel testo sumerico
del racconto c’è questo strano e direi ‘enigmatico’ verso:
‘Come un serpente del molo del vino era perfetta la sua figura’.
Contro questo verso si sono finora spuntate molte
armi filologiche, perché il paragone è a prima vista incomprensibile, e
altrettanto incomprensibile è l’asserto in esso contenuto, anche nel dettaglio
delle singole parti della frase. Il problema sostanzialmente è questo: cos’è,
in definitiva, ‘un serpente del molo del vino?’ Perché il vero volto di Huwawa,
che corrisponde all’intima essenza del tronco tagliato, è ‘come un serpente?’.