CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

lunedì 7 ottobre 2024

L'INUTILE IDIOTA (4)

 









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Ora, presupposta la catastrofe ermeneutica, cosa impedisce di immaginare una gallina, per esempio, tesserata di un partito, in visita ad un museo, matricola all’università o membro di una community?

 

Anche una chioccia vede e osserva gli oggetti che le sono intorno (con buona pace di Almeone di Crotone, che oltre duemilacinquecento anni fa distinse il “comprendere” proprio dell’uomo e il mero “percepire” degli animali).

 

E tuttavia, il solo pensiero di un gallinaceo decisore pubblico (o deambulante in un museo, spettatore a teatro o allievo di un corso accademico) potrebbe ai più apparire a tal punto perturbante da porre in discussione lo stesso processo di ominazione, ingenerando una pericolosa confusione tra il mondo della natura e il mondo della cultura e richiamando immediatamente (e tragicamente) alla mente dell’homo sapiens il genere di cui esso è specie.




La superiorità dell’homo sapiens sugli altri animali è infatti conseguenza dell’elaborazione di una capacità simbolica e di un desiderio di perseguimento dell’inutile che, consentendogli di superare le percezioni esclusivamente sensoriali, le facoltà puramente deduttive e la mera cupidigia utilitaristica, lo introduce in un universo culturale. Solo in tale dimensione l’uomo, oltre (e insieme a) il linguaggio logico, si avvale anche del lessico del sentimento, dell’immaginazione, della poiesis; oltre la percezione sensibile (esperita nell’hic et nunc), si proietta anche nel futuro, rendendosi responsabile del suo domani.

 

L’animal sentiens et rationale evolve, così, nell’animal symbolicum, capace di creare nuove realtà: inaudite, invisibili, immaginarie e immaginali.

 

Ma ciò presuppone il superamento della sfera del visibile, del mero vedere.

 

Ovviamente, non si vuole qui negare che la realtà si conosca (anche) vedendola: tuttavia, posto che nemmeno la natura può essere davvero conosciuta semplicemente guardandola, ciò vale a maggior ragione per il mondo della cultura e della realtà sociale, comprensibile ed esplorabile esclusivamente attraverso un conoscere per concetti astratti.




E se la nascita della storia e della civiltà si fa coincidere con il passaggio dalla comunicazione orale alla parola scritta, occorre riflettere sul fatto che i capisaldi culturali della civiltà mediterranea si facciano tradizionalmente risalire all’elaborazione poetica di Omero, il cieco poeta di Chio dell’Inno ad Apollo32, μ ρν, colui che non vede, e che, proprio per questo, è capace di creare, nella dimensione poetica, una realtà frutto di un’elaborazione interiore.

 

Ci può dunque essere un pensare (sublime) che prescinde dal vedere (ce lo testimonia Omero) e, all’inverso, un vedere (volgare) che prescinde dal pensare: la prima delle due facoltà è propria – a diversi livelli – dell’homo sapiens, cogitans e symbolicus; la seconda, invece, è caratteristica peculiare dell’homo videns, nel quale (vittima di una sorta di metamorfosi involutiva che lo riconduce alla feritas) il visibile prevale sull’intelligibile, il guardare si impone sul capire e la parola è assuefatta all’immagine.




La mutazione di cui ci limitiamo a constatare i sintomi, dunque, neo, trans o post che dir si voglia, investe la natura stessa dell’homo sapiens, generando un nuovo tipo di ànthropos. È, questi, il partus masculus della postmodernità che, avendo già abdicato ai poteri della memoria e dotato di una soglia di attenzione sottilissima, è avvezzo solo a una sovrapposizione sensoriale di suoni, immagini e azioni, e a un accavallamento di nozioni, pseudo-concetti e luoghi comuni. Tutto ciò riduce ulteriormente la sua capacità di elaborazione (per astrazione dalla realtà concreta e dalle esperienze vissute) con la conseguente rinuncia, per inattività, alla sfera del simbolico.

 

È la genesi del touch-man, che, ipermetrope e ipocogitante (sebbene superdigitante), nell’ordito elementare sotteso ai suoi pensieri e nel primitivismo cognitivo che lo contraddistingue, risulta incapace di confrontarsi con ciò che non è immediatamente visualizzabile (e, in molti casi, monetizzabile).

 

Nel contempo, il touch-man è inetto a comunicare le proprie esperienze. Fa uso, infatti, di un idioma che, pur infarcito di parole ridondanti ed eccessive (ma prive di profondità prospettica), risulta complessivamente sempre più vuoto, essenziale, descrittivo, stentato, ridotto a gergo tecnico e funzionale. Comincia, così, ad avvalersi (senza avvedersene) di un linguaggio integrale che, nell’incapacità di dispiegare il senso figurato implicito nell’espressione letterale (attraverso l’uso e l’abuso di experimenta linguae mutuati dalla comunicazione digitale), si riduce a significare solo ciò che significa.




Nell’impossibilità di distinguere tra lettera e spirito si afferma, perciò, un’ermeneutica negativa generale che, ritenendo inconcepibile un orizzonte di senso ulteriore, si pone come reductio ad absurdum. Si manifesta, così, una postura cerebrale diametralmente opposta a quella propria, ad esempio, del contesto culturale medievale dell’interpretazione delle Regulae francescane (e delle polemiche pauperistiche che ne seguirono) in cui l’interprete, proprio per la sovrabbondanza polisemica di significati reperibili, era talvolta richiamato ad attenersi alla semplicità e alla purezza dell’oggetto sottoposto alla sua attività interpretativa, sine glossa et commento.

 

L’homo videns postmoderno è, invece, più un animale senziente che un animale simbolico. La dimensione multimediale (primo strumento educativo che precede, talvolta di anni, l’approccio alla lettura e alla scrittura), assurgendo al rango di paideia (spesso in funzione di supplenza rispetto alla famiglia e alla scuola), ha infatti drasticamente ridotto la sua vivacità intellettuale e la sua capacità di un pensare astraente.




E ciò almeno in misura direttamente proporzionale al tasso di pigra passività con cui il touch-man si lascia imprigionare dal profluvio di immagini, parole e suoni effimeri di una video-comunicazione che, facendo leva sulla strumentalizzazione ideologica dei discorsi, è destinata a convincere e a persuadere più che a fornire spiegazioni o indurre alla riflessione. In questo modo, però, il senso stesso dell’esistenza è ridotto all’apparenza, alla vanità, con un irrefrenabile depauperamento simbolico di cui stentiamo a valutarne le conseguenze.

 

Si pensi – per limitarci ad un solo esempio – alla possibilità di riflettere sul valore della vita e della morte attraverso l’immagine simbolica di un “teschio”. Simbolo quattro-seicentesco dei temi del memento mori e della vanitas (dall’homo bulla al tristo mietitore, dalla danza macabra all’Et in Arcadia ego), esso ha subito una coercizione semantica che, prima, lo ha ridotto a cult object dell’alienista e dell’antropologo criminale (interpreti di una filosofia positiva riducente il corpo umano a modello meccanico di cui l’anatomé svela i segreti ingranaggi), poi, a logo e icona del contemporaneo.




Oggi, la “testa di morto”, scesa dal pulpito e privata delle sue potenzialità oracolari, non solo ha “smesso di insegnare”, ma ha perso anche la sua residuale funzione di sussidio didattico.

 

Compagno per secoli di santi e beati, dalla Maddalena penitente a Francesco d’Assisi, da santa Rosalia a san Girolamo (mi limito a ricordare il bellissimo dipinto a olio su tavola, siglato e datato Albrecht Dürer 1521, conservato nel Museo Nazionale d’arte antica di Lisbona), oggi, il teschio, privato del suo originario pathos ermeneutico e avendo – sua malgrado – smesso di informarci e ammonirci sui misteri della vita e della morte, si riduce ad essere un “motivo”, tra i tanti, della cultura in auge.

 

Non desti perciò meraviglia che, dopo Andy Warhol (con Skull and Crossbones, 1985-86 e Skeleton, 1976-86), Jean-Michel Basquiat (con Untitled – Skull, 1981 e View of Base of Skull, 1982) e James Rosenquist (con la serie Skull Snap, 1988-89), Damien Hirst abbia deciso – interprete del suo tempo – di realizzare, nel 2007, For the love of God, scultura di un teschio di platino ricavata dal calco di un cranio di un giovane uomo morto a trentasette anni, con i denti originali, ricoperto da 8.601 diamanti, per un totale di 1.106,18 carati.




L’opera, citazione allegorica degli “scheletri addobbati” barocchi, valutata cento milioni di dollari, è stata, ovviamente, accompagnata da un ricco merchandising che ha ingenerato un business colossale il cui turbinio può essere in fondo interpretato come esorcizzazione post-moderna della paura della morte e suo estremo tentativo di negazione e, anche, di mercificazione autosignificante.

 

In questo modo, però, il senso dell’esistenza è stato ridotto all’assoluta apparenza, alla vanità tout court, nel trionfo di una narcosi mediatica generativa del virus della stupidità.

 

Essa (la stupidità post-moderna) ha come sintomo una generica astenia mentale che induce chi ne è colpito, nonostante l’incapacità a capire ciò che vede e ad organizzare un discorso secondo le regole della necessità logica, a manifestare costantemente il suo consenso. E ciò sulla base di una comunicazione effimera o di una conversione ad una cultura di massa alla continua ricerca – per sua stessa natura – di neocatecumeni di una nova religio che, privilegiando modelli di vita hypo-, promette orizzonti di vita assai poco problematici.




Vige, in un tale contesto, quella dimensione esistenziale poco sopra definita di “indifferenza apprensiva”, caratterizzata dalla continua ricerca di una dimensione a-conflittuale dell’esistenza e dal disinteresse per un destino comune. Un’impassibilità che, tuttavia, è ossimoricamente turbata dall’ansia di essere presi in considerazione e resi partecipi degli “eventi collettivi” e delle “decisioni pubbliche”. Eventi e decisioni che, in realtà, non sono più veramente tali (come la pipa di Magritte): si tratta, piuttosto, di performance eterodirette, sceneggiate dalla segreta regìa che governa l’allegoria sociale.

 

Ed è proprio in questo stato eccitato di allegoria sociale che emerge – come una Venere, dalla fantasmagorica spuma che un tempo si sarebbe detta carnascialesca – la figura metaforica del “cittadino decidente”.




Questi, assai più vicino all’utile idiota di Lenin che al folle di Erasmo, incline alla ferinitas e privo di autogoverno, pur ai margini della vita pubblica (perché minimamente soggettivato, privo di autocoscienza e di metalinguaggio critico, incapace di comparare tra sé e gli altri e di sviluppare un’intelligenza sociale) è tuttavia massimamente socializzato, “poiché si appiattisce completamente sui comportamenti più comuni e diffusi, aderendo senza residui allo standard propostogli come ‘buono’ e ‘giusto’ da una qualche forma di autorità; […] e ciò gli consente di trovare senza sforzo la propria nicchia identitaria”. Integrandosi perfettamente in società e sostituendo, docile e di buon grado, il noi all’io, contribuisce all’idiozia della massa in cui ambisce ad essere cooptato, inserendosi a buon diritto nel “ceto medio basso dello spirito e dell’anima”.

 

Ritorna, così, drammaticamente vivida ai nostri occhi la caustica immagine dell’uomo e della gallina da noi evocata in capite argumenti.

 

Da un lato il bipede pennuto, da identificare con l’individuo-massa-insipiente, ipocomprensivo e iperestensivo, che, avendo rinunciato al lusso comparativo dell’intelligenza individuale, è dotato di un minimo di comprensione (di sé, degli altri, del mondo) e del massimo di estensione massiva. Un desiderio di partecipazione che, amplificato dalle potenzialità del web (si pensi alla realtà virtuale di facebook, instagram, twitter google), trasforma il suo mortificante solipsismo in ansia e desiderio di visibilità, di consumo e di successo (seppur effimero: il quarto d’ora di celebrità di cui parla Warhol).




Dall’altro, il bipede implume, l’individuo-singolo-cogitante, ipercomprensivo, che, in preda ad un’erasmiana follia, si interroga sul senso delle cose e si sforza di avere contezza di sé, degli altri e del mondo, scegliendo di non omologarsi a modelli di comportamento precari ed eterodiretti; proprio per questo, tuttavia, come l’διώτης greco di cui si è discusso nel primo capitolo, è condannato ad essere un isolato socialmente, di natura infraestensiva.

 

Reo di essere inadeguato alle logiche performative che cercano di determinarlo, “escluso da qualsiasi audience, sino al limite, estremo, dell’ostracismo da ogni ambito pubblico che non sia marginale o di nicchia”, è costretto non di rado a un dissenso tacito. Difficilmente sarà protagonista di processi decisionali all’interno di quel sistema che l’ha condannato, dal punto di vista intellettuale, ad uno stile di vita consapevolmente anacoretico.

 

Il bipede implume ne è consapevole e, in fondo, è felice che così sia. 

(A. Cesaro)







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