L'amico di Jonas aveva fatto fortuna ai macelli, e dunque il gruppo....
si diresse verso Chicago.
Conoscevano solo quella parola, Chicago...e non avevano bisogno
di sapere altro, Chicago...Chicago, Chicago, Chicago....Chica....
go......
Almeno finché non fossero stati in quella città. E una volta a Chica-
go, scaricati dal treno senza tanti complimenti, non si trovarono cer-
to meglio di prima: rimasero lì, imbambolati, a fissare il panorama
intorno a Dearborn Street con i suoi neri edifici svettanti sullo sfon-
do, increduli, incapaci di rendersi conto ch'erano arrivati, di capire
perché la gente non li indirizzasse più da nessuna parte quando chie-
devano 'Chicago?', e anzi li guardasse con aria interrogativa, quando
addirittura non scoppiavano in una risata o tirava dritto senza pre-
stare attenzione.
...Facevano pena, nella loro lampante impotenza....
Più d'ogni altra cosa, avevano poi il sacro terrore di tutti coloro
che indossavano una divisa e ogni volta che scorgevano un poliz-
ziotto attraversavano di fretta la strada e se la svignavano.
Per tutto il primo giorno, si trascinarono di qua e di là, nel mezzo
d'una assordante confusione, totalmente sperduti; e finalmente ver-
so sera, un agente li trovò che se ne stavano rannicchiati sotto un
androne e riuscì a condurli alla più vicina stazione di polizia.
Il mattino seguente, si trovò un interprete e la famigliola fu pre-
sa e caricata su un tram elettrico, e le venne insegnata una nuo-
va parola: 'Macelli'.
La gioia che provarono nell'apprendere che sarebbero usciti da
questa nuova avventura senza separarsi da un altro po' del gruz-
zolo prezioso, è indescrivibile.
Si sedettero e guardarono fuori dal finestrino.
Viaggiavano lungo una strada che sembrava correre senza fine,
chilometro dopo chilometro - cinquantadue in tutto, ma non po-
tevano saperlo - fiancheggiata da due file ininterrotte di misere
e cadenti costruzioni in legno, a due piani.
Gli scorci che potevano intravedere giù per le viuzze laterali erano
sempre gli stessi: mai una collina, mai un declivio, sempre una di-
stesa di casupole di legno, brutte e sudicie.
Qua e là, un ponte su un fiumiciattolo limaccioso, dalle sponde di
fango indurito costellate di banchine e capannoni cadenti; qua e là,
un paesaggio a livello, con ragnatele di scambi e locomotive sbuf-
fanti e lunghe teorie di sferraglianti treni merci.
Poi qualche grossa fabbrica, squallidi edifici punteggiati di innume-
revoli finestre, con le ciminiere che vomitavano turgide spire di fu-
mo che annerivano il cielo in alto e si depositavano sudice sulla ter-
ra in basso.
Ma, dopo ciascuna di queste interruzioni, la desolata processione
di tetre casupole ricominciava da capo.
Un'ora buona prima di entrare in città, i lituani cominciarono ad av-
vertire singolari cambiamenti nell'atmosfera che li circondava: l'oscu-
rità sembrò farsi più fitta, più densa, e l'erba intorno sempre meno
verde, meno lucida.
Con il passar del tempo, mentre il tram elettrico procedeva a tutta
velocità, era come se i colori delle cose s'andassero offuscando: i
campi si facevano aridi e giallastri, il paesaggio cupo e spoglio. E,
insieme al fumo che diveniva più denso, cominciarono a percepire
un'altra caratteristica, un odore strano e pungente: non riuscivano a
dire se era sgradevole o meno, qualcuno forse l'avrebbe definito
rivoltante, ma i loro gusti in fatto di odori non erano raffinati e quel
che sapevano per certo era che si trattava d'un odore curioso.
Adesso seduti in quel tram elettrico, si resero conto d'esser sul punto
di giungere alla fonte di quell'odore....d'eser anzi venuti dalla lontana
Lituania per trovarlo.
Non era più un qualcosa di vago e distante, adesso che t'arriva a fo-
late; adesso potevi letteralmente assaggiarlo, oltre che annusarlo, qua-
si afferralo, esaminarlo a tuo piacere, voltandolo e rivoltandolo.
Le rispettive opinioni variavano al riguardo: c'era chi lo percepiva co-
me un odore elementare, nudo e crudo; per un altro era ricco, qua-
si rancido, o sensuale e acuto; altri ancora lo inalavano quasi fosse
una sostanza inebriante; e alcuni affondavano disgustati il volto nel
fazzoletto.
I nuovi arrivati erano ancora intenti ad assaggiarlo, perduti nel loro
stupore, quando di colpo la vettura s'arrestò, dal di fuori la porta
fu spalancata, e una voce gridò: 'Macelli!!'.
Scesero e si fermarono all'angolo, abbandonati a sé, lo sguardo fis-
so. Giù dalla via laterale potevano scorgere due lunghe teorie di co-
struzioni in mattoni e in fondo, racchiuse tra quelle due file d'edifici,
una mezza dozzina di ciminiere svettanti, alte come la costruzione
più alta, che sembravano trafiggere il cielo.
Da esse si levavano altrettante colonne di fumo spesso, oleoso, ne-
ro come le tenebre della notte, un fumo che sembrava emergere dal
cuore della terra dove divampavano senza posa i fuochi eterni.
Si rovesciava fuori dalla bocca delle ciminiere come premuto da
una forza interiore, spingendo innanzi ogni cosa, un'esplosione sen-
za fine, inarrestabile.
Sostavi ad osservarlo nella convinzione che ad un certo punto do-
vesse pur fermarsi, e invece quelle dense volute gigantesche non
cessavano di riversarsi nel cielo, stendendosi in vaste nubi di sopra
delle ciminiere, arricciandosi e turbando lente, e infine fondendosi
in un unico fiume smisurato che oscurava il cielo con un nero drap-
po funebre che si stendeva fin dove riusciva a spingersi lo sguardo.
(U. Sinclair, La giungla)