CHI DELLA FOLLA, INVECE,

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LA LIBRERIA DELLA LIBERA IDEA

venerdì 10 maggio 2024

A PASSO DI LUPO (circa l'umana menzogna)

 









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con la Bestia







Un gran numero di espressioni idiomatiche quasi proverbiali mettono in scena il Lupo, ovvero ululare come lupi, per poi gridare al lupo, una fame da lupo, e sbranati dai lupi; queste locuzioni sono idiomatiche, non tutte sono traducibili da una lingua all’altra, o da una cultura all’altra, o addirittura da un territorio, ovvero da una geografia all’altra. Non dappertutto ci sono i lupi e non si ha la stessa esperienza del lupo in Alaska o sulle Alpi, nel Medioevo o oggi.

 

Queste espressioni idiomatiche e queste figure del lupo, queste interpretazioni, queste favole o questi fantasmi, variano da un luogo e da un momento storico all’altro; le figure del lupo incontrano dunque, e ci pongono spinosi problemi di confine. I lupi reali oltrepassano, senza chiedere l’autorizzazione, le frontiere nazionali e istituzionali degli uomini, e dei loro stati nazionali sovrani; i lupi in natura, come si dice, i lupi reali sono gli stessi al di qua e al di là dei Pirenei o delle Alpi; ma le figure del lupo appartengono a culture, nazioni, lingue, fantasmi, favole, storie.



Se ho scelto l’espressione che cita il ‘passo’ del lupo in à pas de loup o a passo di lupo, è certamente perché non v’è dubbio il lupo stesso vi è nominato in absentia, per così dire; il lupo è nominato dove ancora non lo si vede né lo sente arrivare; è ancora assente, salvo per il suo nome.

 

Accenniamo ad una sommaria descrizione, nella differenza posta fra ciò non visto e di cui l’indubbia fama, e ciò cui assiso nel trono della menzogna sovrana…




Posai i miei pensieri su questa terrazza con una incantevole vista.

 

Posai le mie mani sulla fioriera che la bella cameriera annaffia ogni mattina, mostrandomi le sue alte cime come due frutti succosi ed un nobile di dietro… come fosse la sella di un puledro. Lei lo sa, io sono uomo colto e potente… la politica è il mio mestiere.

 

Lei lo sa, ho molte conoscenze; lei, invece, solo la fame da saziare, quella ingorda, abbonda in ogni stagione ed in ogni mese nella sua verde e prospera natura.

 

Lei solo la fame deve saziare quella ingorda della nostra natura, conosce ogni astuzia nel bosco della vita assieme all’arte di ingannare la gente, conosce il frutto proibito di sedurre una contadina, illusa nel sogno di far un po’ di fortuna per una fame che spesso tortura.

 

Io sono l’astuto uomo di corte, politico di natura.




Qual natura io qui non dico perché in lei io prego l’antico crocefisso, ricordo di un lontano antenato quando a lui il chiodo fu dato per macellarla come un agnello nel nome di un popolo ‘eletto’.

 

Or non ci dilunghiamo su questo mito strano, perché io con la parola mi vesto e quando l’adopero ogni essere seduco e incanto; c’è chi rimane stupito della mia cultura e chi estasiato della statura, anche se non ha compreso un fico del mio discorso greco e latino… perché il popolo è eterno contadino, ma di fronte a me fanno tutti l’inchino ed ognuno rimane stupito dell’arguto e saccente nonché dotto… mio sapere.

 

Favello in latino greco… e aramaico antico…, e quando si presenta l’occasione nella sala dell’albergo che domina la vallata mi trattengo con l’inglese arguto e il tedesco risoluto.

 

Certo, non si vede, ma sono diplomatico di mestiere.

 

Ogni affare è diletto perché servo del mio ricco signore e per sempre mio padrone, certo finché un nuovo intrigo non costringono il suo o il mio castigo.

 

Dopo la pace sarà celebrata, un’alleanza stipulata, un nuovo matrimonio coronerà la speranza del popolo che partecipa alla comune mensa… nel ruolo che meglio alberga il suo destino, donato non certo da noi… ma dal nostro comune Dio.




Parteciperà al nostro umile banchetto, noi alla tavola, lui nella cantina a misurare la distanza cui bisogna tenere il volgo, e a condire ogni portata con il miglior vino perché il sangue del suo martirio è il nostro piatto preferito.

 

Siamo uomini di corte e di regno (nonché arguto ingegno) e di astuto tradimento, l’intrigo è l’arte antica del politico, la religione detta le umili ore, il tempo  governa il nostro paradiso…

 

Giochiamo con la parola, perché quando vien detta, nessuno, nemmeno il dotto interlocutore del ricco e ben condito discorso, la intende nella giusta sua natura, forse perché inganniamo proprio quella. Per noi è solo un inutile contorno, fra un piatto di cacciagione ed un buon dolce; è una piacevole vista talvolta annebbiata fin dal primo mattino, colpa del buon vino.




La incorniciamo in tanti ricchi quadri commissionati e pagati dagli stessi viandanti, compaiono a frotte o in umili vesti, mentre ornano la pecunia del nostro mondo antico foderato tutto nel lusso del nobile palazzo antico; numerato come vuole e comanda la sorte sopra ogni portone, abbiamo composto anche il motto segreto araldo di ogni fiero discorso; cosicché il gregge che prega e lavora abbia timore del nostro buon nome, vi abbiamo inciso anche un crocefisso per ricordare a tutti il martirio antico, nella cappella dove ogni mattino preghiamo il nostro buon Dio.




Quando stringo le mani accompagnate al mio sorriso rivolto agli ospiti esultanti, a loro può sembrare un invito: un sole caldo in un cielo limpido che promette ricchezza e fortuna, chi la mano stringe con ugual cortesia e stesso inchino, mai di certo potrà leggere il vero pensiero dell’uomo di Dio, pregato come dicevo… ogni mattino.

 

Mai potrà capire quale arguzia e inganno si cela nel bosco di tal natura, quale finezza accompagnano il saporito piatto della  politica nominata diplomazia.

 

Il diletto dell’arte mia mi vien mangiando ogni delizia che la serva mi porge mostrandomi il suo frutto proibito fra un inchino ed un buon bicchiere di vino, io disdegno e la spio con l’astuzia del mio fiuto: uccel di bosco alla vista di ogni commensale per questa fiera cavalcata… di ogni ricca e saporita portata.

 

Ad ognuna l’ho violentata e goduto, e aperto il suo nobile di dietro come al pollo che mi offre saporito cotto allo spiedo di un antico martirio, se prova qualche incertezza nominata trascuratezza nel non averlo ben condito, vi poso il burro del mio candido sorriso, e affondo il verbo del mio segreto piacere.




Finito il servizio provo pena per quella serva, l’ospite mio invece, intimorito dal dotto discorso, ha gradito la risoluta fermezza nel cacciare ogni servo al compito destinato da Dio, venerato e pregato ogni mattino assieme alla madre sua, nominata Madonna, nella cappella che orna la ricca dimora rifugio da ogni peccato… per questo immondo e lurido Creato….

 

Sono uomo di Dio, banchiere della sua Divina Parola, nonché custode del Sacro Regno.

 

Quando inganno la natura lo faccio con il sorriso, quando preparo una guerra lo faccio con un bicchiere di vino, lo divoro con l’agnello, sono io il lupo nel folto del bosco.




Lo perseguitiamo per insegnare al popolo chi è il Diavolo o il lupo suo amico in codesto reame, e con loro anche l’uomo che forse l’ha nutrito, Diavolo o Bandito, qui tutto l’esercito schiero per debellare il male. Tutto il popolo rassicuro quando osservo il panorama da questa grande loggia; la povera serva lo sa, per questo si aggrazia ogni mattina per non essere da meno della giumenta cui godo il latte della vita. Affinché ogni mia voglia desiderio e credo, si possano deliziare e soddisfare così come Dio intende  volere e piacere accompagnati all’istinto appagato, nel nome del peccato da me e per sempre perseguitato. 

(G. Lazzari, Lo Straniero)




Anticipiamo la maschera della menzogna, della falsità nell’inganno perenne della Storia…

 

La traduzione corrente del sottotitolo, ē peri tou pseudous, con Sulla menzogna non è certo né una menzogna né un errore, ma è già una scelta riduttiva e quindi falsificatrice.

 

Pseudos non vuole soltanto dire menzogna. Inoltre, questo straordinario dialogo complica abbastanza la questione dei rapporti tra la menzogna e i suoi doppi, i suoi analoghi, i traditori che essa potrebbe accogliere nelle sue pieghe, per lo meno virtualmente, ovvero tutto ciò di cui mi appresto a parlare in questa sede, incluso ciò che dirò in riferimento alla storia politica più recente.




Distinguendo egli stesso almeno tre fra i diversi sensi della parola pseudos (come cosa, ôs pragma pseudos, come enunciazione, logos, che dice ciò che non è, e come uomo, anthropos, che ama e sceglie simili enunciazioni – ed è sia il mentitore sia la menzogna), Aristotele aveva già contestato, nella Metafisica molte tesi dell’Ippia minore, fra cui quella secondo cui il mentitore (pseudés) è colui che ha la facoltà di mentire. Aristotele precisa, ed è essenziale per ciò che qui ci interessa, che il mentitore non è solo chi può mentire, ma chi preferisce mentire ed, essendone incline, lo fa per scelta, intenzionalmente (o eukheres kai proairetikos). Per questo, altra obiezione a Platone, è peggiore del mentitore involontario, sempre che quest’ultimo esista.




In un seminario tenuto a Marburgo nel 1923/24 e recentemente pubblicato, Heidegger consacra alcune pagine a questa sorta di pseudografia aristotelica sotto il titolo di La determinazione aristotelica del logos. Come spunto teorico, faccio notare che se il tema della menzogna in quanto tale non ha occupato in seguito un posto determinante, ad esempio nell’analitica del Dasein di Essere e tempo – e questo per delle ragioni che sarebbe interessante e necessario analizzare – nel 1923-24, senz’altro già al di là di una semplice antropologia, di una teoria dell’ego o della coscienza, di una psicologia o di una morale, Heidegger dice del Dasein che esso ‘porta in sé le possibilità dell’inganno e della menzogna’. E prima aveva già scritto: ‘Il Dasein della parola, del parlare (das Dasein des Sprechens) porta in sé la possibilità dell’inganno’.

 

È anche vero che Nietzsche sembra sospettare il platonismo o il Cristianesimo, il kantismo e il positivismo di avere mentito tentando di farci credere a un mondo vero. Resta il fatto che se ci atteniamo, come è giusto fare per cominciare, a ciò che il linguaggio corrente così come la filosofia vogliono dire, se ci fidiamo di questo voler-dire, mentire non vuole dire in generale ingannarsi né commettere errore.




Ci si può ingannare, si può essere in errore senza mentire. Si può comunicare agli altri un’informazione falsa senza mentire. Se credo a ciò che dico, anche se è falso, anche se mi sbaglio, e se non cerco di approfittare dell’altro comunicandogli tale errore, allora non mento. Non si mente dicendo semplicemente il falso, quantomeno fintanto che si crede in buona fede alla verità di ciò che si pensa o di cui si ha opinione. Perché è della questione della fede e della buona fede che ci dobbiamo occupare.

 

Sant’Agostino lo ricorda all’inizio del suo De mendacio. E propone anche una distinzione fra la credenza e l’opinione che per noi potrebbe essere ancora oggi (e oggi in maniera nuova) di grande portata.

 

Mentire, è voler ingannare l’altro, talvolta anche dicendo il vero. Si può dire il falso senza mentire, ma si può anche dire il vero in vista dell’inganno, vale a dire mentendo.

 

Ma non si mente se si crede a ciò che si dice, se vi si aggiunge fede, anche se è falso. Dichiarando che ‘chiunque enuncia un fatto che gli sembra degno di credenza o che la sua opinione ritiene vero, non mente, anche se il fatto è falso’, sant’Agostino sembra escludere il mentire a se stessi o, l’ingannarsi come mentire a se stessi.




È un quesito che non ci abbandonerà più e del quale, più avanti, dovremo misurare la portata politica: è possibile mentire a se stessi?

 

E ogni autoinganno, ogni astuzia verso se stessi merita il nome di menzogna?

 

Più semplicemente: come interpretare l’espressione se tromper, ingannarsi, il cui idioma è così ricco e così equivoco in francese?

 

Come un mentire a se stessi o come un errore?

 

Si fa fatica a credere che la menzogna abbia una storia.

 

Chi oserebbe raccontare la storia della menzogna?




E chi potrebbe promettere che sia una storia vera?

 

Anche supponendo, concesso non dato, che la menzogna abbia una storia, si dovrebbe pure poterla raccontare senza mentire. E senza cedere con eccessiva facilità a uno schema convenzionale e dialettico che faccia concorrere la storia dell’errore, come storia e lavoro del negativo, al processo della verità, alla verificazione della verità in vista del sapere assoluto.

 

Se c’è una storia della menzogna, vale a dire della falsa testimonianza e dello spergiuro (perché ogni menzogna è uno spergiuro), e se questa storia investe una qualche radicalità del male chiamato menzogna o spergiuro, essa non può lasciarsi inglobare in una storia dell’errore o della verità in senso extramorale.

 

D’altra parte, se la menzogna presuppone, come sembra, l’invenzione deliberata di una finzione, ogni finzione o ogni favola non rimanda per questo a una menzogna. Nemme no in letteratura.




Nella Quarta passeggiata delle Fantasticherie del passeggiatore solitario, altra grande pseudologia, altro abissale trattato della menzogna e della finzione su cui dovremmo meditare con infinita pazienza, Rousseau propone tutta una tassonomia delle menzogne (l’impostura, la frode, la calunnia, che resta la peggiore).

 

Rousseau ricorda che una menzogna che non nuoce né a sé né agli altri, una menzogna innocente non merita il nome di menzogna: è, dice Rousseau, una finzione. Una finzione di questo tipo non sarebbe tanto una menzogna, secondo lui, quanto la dissimulazione di una verità che non si è obbligati a dire.

 

Questa dissimulazione, che comporta una simulazione, pone altri problemi a Rousseau. Se al posto di contentarsi di non dire, di tacere una verità che non deve dire, qualcuno dice anche il contrario, in quel caso mente, o non mente?, si chiede Rousseau prima di rispondere:

 

‘Secondo la definizione non si potrebbe dire che mente; se infatti dà una moneta falsa a un uomo a cui non deve niente, indubbiamente inganna quell’uomo ma non lo deruba’.




Il che vuol dire che la definizione che lo esenterebbe dalla menzogna non è buona. Se inganna, anche se non ruba, direbbe Kant, egli mente perché la veracità è sempre dovuta, per lui, a partire dal momento in cui ci si rivolge agli altri.

 

Ci ritorneremo fra poco, ma adesso occorre dilungarci su questa associazione fiduciaria, per così dire, della menzogna e della moneta, addirittura della moneta falsa.

 

Non parlo soltanto di tutti i discorsi sulla moneta falsa che sono ipso facto dei discorsi sulla menzogna, ma della moneta falsa che appare spesso per definire la menzogna. Questa associazione è significativa e costante, da Montaigne a Rousseau e persino a Freud, che la erotizza in modo pregnante in un piccolo testo del 1913 intitolato Due menzogne infantili (Zwei Kinderlügen): non a caso una delle sue pazienti si identifica con la figura di Giuda, che tradisce per denaro.




Dopo aver moltiplicato delle distinzioni tanto sottili quanto necessarie, dopo aver insistito sul fatto che, nella sua professione di veridicità, di rettitudine e di equità, aveva seguìto le direttive morali della propria coscienza piuttosto che le nozioni astratte del vero e del falso, Rousseau tuttavia non si ritiene soddisfatto.

 

Confessa ancora, riconosce che queste distinzioni concettuali dispiegano la loro sottigliezza teorica per dispensarlo da una menzogna più inconfessabile, come se il discorso teorico sulla menzogna fosse a sua volta una strategia menzognera, un’inconfessabile tecnica di discolpa, un’astuzia imperdonabile della ragione teorica per ingannare la ragione pratica, e far tacere il cuore:

 

‘Non sento tuttavia il mio cuore abbastanza soddisfatto di queste distinzioni per credermi del tutto irreprensibile’.




Ma quest’ultimo, questo penultimo rimorso non riguarda soltanto l’inestinguibile dovere di sincerità nei confronti degli altri, ha a che vedere anche con un dovere verso se stessi. Rousseau sembra anch’egli sensibile a questa possibilità di una menzogna verso se stessi, quella menzogna che oggi definisce sia il campo magnetico sia la linea di confine della nostra problematica.

 

Esiste una menzogna verso se stessi?

 

È possibile mentire a se stessi, ovvero al tempo stesso dire intenzionalmente a se stessi altro da ciò che si sa di pensare in verità – cosa che appare assurda e impraticabile – e farlo per nuocere a se stessi, per danneggiarsi agendo in tal modo a proprio discapito, cosa che implica un dovere verso di sé in quanto altro?

 

Rousseau non esclude tale follia perché quando si dice insoddisfatto, in cuor suo, di queste distinzioni, aggiunge pure:

 

‘Soppesando con tanta cura quel che dovevo agli altri, ho esaminato a sufficienza quel che dovevo a me stesso? Se è necessario essere giusti con gli altri, occorre essere veri con noi stessi, è un omaggio che l’uomo onesto deve rendere alla propria dignità’.




Rousseau va ancora oltre nel confessare l’imperdonabile. Non solo arriva a confessare tale o tal’altra menzogna, ovvero questa o quest’altra finzione inventata, dice, per sopperire alla sterilità della sua conversazione, ma si giudica dapprima imperdonabile in virtù del principio che egli stesso aveva scelto in partenza, principio a tal punto impraticabile che avrebbe dovuto escludere non solamente la menzogna, ma anche la favola e la finzione.

 

E questo ad ogni costo, perché quest’etica della veracità è sempre un’etica sacrale del sacrificio. Rousseau ne parla infatti secondo un codice della consacrazione, e utilizza un lessico sacrificale.

 

Si possono già qui immaginare mille storie fittizie della menzogna, mille discorsi inventati, consacrati al simulacro, alla favola, al mito e alla produzione di forme nuove riguardo alla menzogna e che non siano tuttavia storie menzognere, vale a dire, attenendosi al concetto classico e dominante di menzogna, storie non vere ma innocenti, inoffensive, simulacri indenni dallo spergiuro e dalla falsa testimonianza.

 

Perché non raccontare storie della menzogna che, pur non essendo vere, non facciano del male?

 

Delle storie favolose della menzogna che, non nuocendo a nessuno, potrebbero qua o là far piacere, o addirittura fare del bene a qualcuno?




Potreste chiedermi perché proprio qui, e con tanta insistenza, faccio appello a un concetto classico e dominante della menzogna. E perché, così facendo, oriento la riflessione tanto su ciò che classico e dominante può voler dire, quanto sul concetto, e sulle sue implicazioni, in particolare sul l’implicazione politica che ha oggi ciò che si continua a chiamare con il vecchio nome di menzogna.

 

Esiste, allo stato pratico o teorico, un concetto dominante della menzogna nella nostra cultura?

 

Perché richiamarne fin da ora i tratti?

 

Sono tutti aspetti che formalizzerò a modo mio, con la speranza che sia un modo vero, giusto e adeguato, perché non è una cosa tanto semplice, e se mi sbaglio, l’errore potrebbe essere una menzogna soltanto in virtù della doppia condizione che io l’abbia fatto espressamente, ovvero che dica intenzionalmente altro da ciò che penso di pensare, e soprattutto che quel che dico danneggi qualcuno in qualche modo, me stesso o un altro.




So che sarà difficile, oserei dire impossibile provare che l’ho fatto espressamente. Lo sottolineo solo per annunciare fin da ora un’ipotesi, cioè che, per delle ragioni strutturali, sarà sempre impossibile provare, in senso stretto, che qualcuno ha mentito anche se si può provare che non ha detto la verità.

 

Non si potrà mai provare nulla contro qualcuno che affermi: ‘Quel che ho detto non è vero, mi sono sbagliato, certo, ma non volevo ingannare, sono in buona fede’. O ancora, adducendo la differenza sempre possibile fra il detto, il dire e il voler-dire, gli effetti della lingua, della retorica, del contesto: ‘Ho detto questo, ma non è ciò che volevo dire, in buona fede, nella mia coscienza, non era questa la mia intenzione, c’è stato un malinteso’. Non si potrà mai provare nulla per rifiutare una simile affermazione, e bisogna trarne le conseguenze, che sono temibili e senza limiti.

 

Ecco quindi, così come ritengo sia opportuno formularla qui, una definizione della definizione tradizionale di menzogna.




Nella sua figura prevalente e riconosciuta da tutti, la menzogna non è un fatto né uno stato, è un atto intenzionale, un mentire. Non c’è la menzogna, c’è questo dire o questo voler-dire che si chiama il mentire. Non ci si dovrebbe chiedere: che cos’è una menzogna?

 

Ma, più che altro: ‘Cosa fa e, prima ancora, cosa vuole l’atto del mentire?’.

 

Mentendo ci si rivolge ad altri (poiché non si mente che all’altro, non si può mentire a se stessi, tranne nel caso in cui se stesso venga considerato un altro), destinando all’altro un enunciato o più di un enunciato, una serie di enunciati (constativi o performativi) dei quali il mentitore sa, in piena coscienza, una coscienza esplicita, tematica e attuale, che essi costituiscono delle affermazioni totalmente o parzialmente false.




Questo sapere, questa scienza e questa coscienza sono indispensabili all’atto del mentire, e la consapevolezza di questo sapere non deve riguardare solamente il contenuto di ciò che è detto ma il contenuto di ciò che è dovuto all’altro, così che il mentire appaia pienamente al mentitore come un tradimento, un torto, l’inadempimento di un debito o di un dovere.

 

Il mentitore deve sapere ciò che fa e ciò che intende fare mentendo, altrimenti non mente.

 

Bisogna insistere fin da adesso su questa pluralità e su questa complessità, se non addirittura su questa eterogeneità.

 

Questi atti intenzionali sono destinati all’altro, a un altro o ad altri, con lo scopo di ingannarli, di nuocere loro, di approfittare di loro, in primo luogo, con il solo scopo di far credere loro ciò che il mentitore sa che è falso.




 Questa dimensione del far-credere, della credenza, del credito, della fede è qui irriducibile anche se rimane oscura. La cattiva fede del mentitore, il suo tradimento di una fede giurata per lo meno in modo implicito, consiste nel sorprendere la buona fede del suo destinatario, facendogli credere ciò che gli viene detto, laddove questo far-credere nuoce agli altri, li danneggia o opera a loro danno, quando invece il mentitore, da parte sua, è tenuto, da un impegno, da un giuramento o da una promessa almeno implicita, a dover dire tutta la verità e solo la verità.

 

Ciò che conta qui, in prima e ultima istanza, è l’intenzione. Anche sant’Agostino lo sottolineava: non c’è menzogna, checché se ne dica, senza l’intenzione, il desiderio o la volontà esplicita di ingannare (fallendi cupiditas, voluntas fallendi).




Questa intenzione, che definisce la veracità o la menzogna nel l’ordine del dire, dell’atto di dire, resta indipendente dalla verità o dalla falsità del contenuto, di ciò che è detto. La menzogna si riferisce al dire, e al voler-dire, non al detto: ‘[…] non si mente enunciando un’asserzione falsa che si crede vera e […] si mente piuttosto enunciando un’asserzione vera che si crede falsa. È dall’intenzione (ex animi sui) che si deve giudicare la moralità degli atti’.

 

Questa definizione appare al tempo stesso chiara e distinta, evidente, se non addirittura piatta – e tuttavia sovradeterminata all’infinito.

 

È un labirinto in cui è possibile sbagliare strada ad ogni passo.

 

Nella nostra analisi avremo bisogno di ognuno di questi elementi. Ci verrà richiesto, anche se non potremo soddisfare questa esigenza per delle ragioni evidenti, di occuparci direttamente dell’essenza della volontà, dell’intenzionalità, della coscienza intenzionale e della presenza a se stessi. La questione della menzogna dovrebbe fare da filo conduttore privilegiato per una riflessione sull’essenza e sulla storia dell’intenzionalità, della volontà, della coscienza, della presenza a se stessi, di ogni fenomenologia, ecc. Sia ben inteso: lasceremo questo argomento da parte. E questo non solo per via dei limiti di tempo di cui disponiamo.

 (Derridda)








mercoledì 8 maggio 2024

LA BESTIA

 








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nell'Est End  


& con l'umana 


menzogna







La storia della cosiddetta Bestia del Gèvaudan comincia nel 1764, ma forse questa belva iniziò a fare strage già due anni prima nel vicino Dauphiné, che allora era una provincia del sud-est di Francia, corrispondente oggi agli attuali dipartimenti di Isère, Drôme e Hautes-Alpes. Abbiamo tutta una serie di dati di attacchi e uccisioni che in ordine cronologico vanno verso il Gévaudan, a partire dell’8 settembre 1762 quando un bambino fu divorato in una zona della parrocchia di Laval, nel Dauphiné.

 

Le uccisioni si spostarono difatti nel Vivarais – che oggi è l’Ardèche – per stabilirsi definitivamente a nord-ovest nel Gévaudan e in particolare nella zona a cavallo fra Gévaudan e Auvergne (entrambi oggi nella Lozère). Gli spostamenti della belva in altre zone furono causati dalle massicce battute di caccia effettuate per abbatterla. Quando finalmente nel 1767 fu uccisa, i chirurghi stimarono che avesse circa 7-8 anni, e quindi durante le predazioni del 1762 era già un grande maschio di circa tre anni di età.

 

Il primo attacco avvenne i primissimi giorni di maggio del 1764 nei pressi di Langogne, nel Gévaudan. I cani erano immediatamente fuggiti, ma fortunatamente le mucche avevano contrattaccato salvando la pastorella di 8 anni che la descrisse come “un’enorme belva dal pelo molto folto e rossiccio e dalle zampe dotate di lunghi artigli”. La prima vittima ufficiale della Bestia fu invece Jeanne Boulet, una pastorella quattordicenne del villaggio di Hubacs, facente parte della parrocchia di Saint-Étienne-de-Lugdarès, nell’Ardèche, al confine col Gévaudan.

 

Era il 30 giugno 1764.




Fu parzialmente divorata. Il 6 agosto ci fu la seconda vittima accertata, Marianne Hébrard, del villaggio di Cellier, parrocchia di Saint-Jean-la-Fouillouse. Per la prima volta quindi, a quanto si sa, la Bestia uccideva nel Gévaudan. Tutti gli atti relativi alla Bestia – così sarà poi chiamata, analogamente ad altre prima e dopo – come da usuale prassi, erano redatti in triplice copia e inviati rispettivamente alla Gendarmeria Reale e al Governatore Militare della Languedoc, la terza copia rimaneva al Sottointendente che la inviava all’Intendente, il quale la inoltrava se il caso al Ministro competente.

 

Il conte Jean-Baptiste de Morin, Governatore Militare della Languedoc, però ordinò subito al capitano maggiore Jean Duhamel, comandante dei dragoni dei Volontari di Clermont, di intervenire, perlustrando il territorio a cavallo, se non erano costretti a smontare davanti alle tante e ripide salite di quelle montagne coperte di boschi e paludi, posizionavano trappole e si appostavano nei punti più idonei. Soprattutto nei pressi delle vittime della Bestia, appositamente lasciate dov’erano, sperando che tornasse alla preda.

 

Vanamente!

 

Il 20 settembre fu ucciso un lupo vicino al villaggio di Pradels, ma non fu opera dei dragoni. Lo fecero i cani da pastore di un gregge di passaggio. I pastori ricevettero il giorno successivo un premio di 18 franchi, pari a tre volte quello di un normale lupo. L’8 ottobre, a Souleyrols, nei pressi del castello di La Baume, fu attaccato e ferito un ragazzo di 12 anni, Jean Rieutort. Tuttavia i bovini misero in fuga la Bestia. Si organizzò una grande battuta e il terzo giorno i cani snidarono un lupo che aveva appena tentato di attaccare un altro ragazzo. Seppur ferito dalle fucilate, l’animale riuscì a dileguarsi nel bosco.




Il mattino dopo due contadine lo videro passare a distanza. Zoppicava un po’, ma tutto lì. Da quel momento i popolani cominciarono a credere che fosse immortale o che fosse aizzato da qualcuno e protetto da una corazza. In seguito si scoprì che non era affatto vero. Il 20 ottobre fu messa in campo pure una compagnia di esperti cacciatori di lupi, mentre i nobili locali presero a fare battute con i cani, anche perché i loro contadini cominciavano a rifiutarsi di lavorare nei pascoli e nei villaggi. Risultato, i cani da caccia dei nobili, dei villaggi e dei pastori cominciarono a morire per via dei bocconi avvelenati sparsi dai cacciatori e quindi questi ultimi furono bloccati dalle autorità. A quella data la Bestia aveva già ucciso 15 persone e ne aveva ferite molte altre e la taglia sull’animale era salita dai 3 franchi per un normale lupo a ben 200 (superiore alla paga di 18 mesi di un dragone).

 

Iniziarono delle grandi battute e quella del 28 ottobre coinvolse ben 10.000 uomini provenienti da molti villaggi.e diverse decine di cani Nonostante la neve e la nebbia al secondo giorno la Bestia fu avvistata, ma ruppe l’accerchiamento azzannando uno dei cacciatori e fuggendo con incredibile agilità. I cani non riuscirono a raggiungerla. Una serie di altre otto grandi battute dal 20 al 27 novembre non diedero risultati, se non quello di fare spostare la belva in una zona più lontana e ancora più selvaggia.

 

La taglia sulla belva venne portata a 400 franchi e il 17 dicembre a 1000. I cani a causa delle continue bufere di neve perdevano spesso la pista e quando lo vedevano non riuscivano a raggiungerlo poiché il lupo ha fiato e scioltezza eccezionali, specie in erte zone montane. Basti questo esempio, sempre in Francia e poco prima della nostra vicenda, un vecchio lupo stanato nella foresta di Fontainebleau e inseguito senza tregua fu raggiunto – con continue sostituzioni dei cavalli e dei cani spossati – solo quattro giorni dopo alle porte di Rennes, a oltre 300 chilometri di distanza.

 

La Bestia è ferita. Ma ha già ucciso 39 persone.




Il 18 dicembre fu attaccata una donna che però si difese colpendo la belva per tre volte con un’ascia. Dichiarò che “aveva la taglia di una mucca o di un toro di un anno”. Il 22 dello stesso mese, durante una grande battuta, i cani la stanarono nella zona di Beauregard, parrocchia di Fau-de-Peyre. La Bestia, fra le fucilate, fu pure inseguita nella neve alta da un dragone a cavallo, sciabola alla mano, ma riuscì a fuggire. Anche Duhamel la vide e riferì che “La Bestia del Gévaudan non è certamente un lupo, ma uno strano e sconosciuto ibrido”.

 

Il 6 gennaio 1765 la Bestia entrò nel villaggio di Faverolles, incurante degli atterriti paesani che uscivano dalla chiesa, poi arrivò al villaggio di Valiette e attaccò un bambino davanti a casa sua, riuscendo a trascinarlo però solo di pochi metri a causa dell’intervento del padre e di un cane subito accorso. Nella stessa giornata uccise Delphine Gervais nel villaggio di Saint-Juéry, parrocchia di Fournels, nel Gévaudan. Ma accorse un pastore con il suo cane e allora fuggì. Il 10 addirittura attaccò, girandogli attorno a balzi per disorientarli, alcuni uomini che stavano attraversando il ponte di Arifattes, nei pressi del villaggio di Laubies, che però si difesero a lungo ed efficacemente con le baionette (bastoni con un’acuminata punta metallica, allora molto comuni). Pareva non avere paura di nulla.

 

Il 27 gennaio la taglia sulla Bestia fu portata addirittura a 9.400 franchi, pari al costo di 94 cavalli di pregio oppure alle taglie pagate per l’uccisione di 1.500 lupi, o a quasi 33 anni di lavoro di un salariato agricolo (che percepiva circa 20 soldi al giorno). A quella data la Bestia aveva ucciso già 39 persone, e ferite molte di più.




La Bestia nuovamente ferita. Arriva il famoso cacciatore di lupi d’Enneval de Vaumesle di Alençon. I morti sono saliti a 46.

 

Il 31 gennaio a Javols, la Bestia si avvicinò a tre bambini che stavano giocando davanti all’uscio di casa, ne afferrò uno di 8 anni e lo trascinò per circa centocinquanta metri. Ma il cane di casa immediatamente rincorse la Bestia, la raggiunse e l’attaccò con grande coraggio, rovesciandola a terra più volte e costringendola a mollare la vittima che, seppure ferita alla gola, dopo una lunga convalescenza guarì.

 

Il 7 febbraio fu organizzata una battuta con cavalieri, soldati, guardiacaccia, cacciatori scelti e intere mute di cani, nonché ben 20.000 uomini come battitori mobilitati in 121 parrocchie. Il territorio da perlustrare era enorme, circa 60 chilometri da nord a sud e di 40 da est a ovest. Quella che forse era la Bestia fu infine individuata e pure colpita (i fucili dell’epoca avevano una gittata ridotta e spesso facevano cilecca o avevano tiri fiacchi per via della polvere umida) ma riuscì a fuggire perché i battitori che dovevano chiudere la trappola se n’erano bellamente andati in una trattoria a bere vino. L’11 venne ripetuta e fu ucciso un lupo. Tuttavia la Bestia attaccò lo stesso giorno un uomo adulto, venendo ferita a colpi di baionetta.




Vista la situazione, re Luigi XV affidò l’incarico a un grande cacciatore di lupi, il vecchio gentiluomo normanno Jean Charles-Marc-Antoine d’Enneval de Vaumesle di Alençon. Era accompagnato da suo figlio Jean-François, che era militare di professione ad Alençon e aveva ricevuto un’apposita licenza, da un valletto, alcuni addetti e da due grandi cani messi a disposizione dal conte di Montesson del Maine. Aveva pure segugi, di grandissimo valore a suo dire, solo che dovevano ancora arrivare, a bordo di un carro. D’Enneval vedendo quelle montagne coperte di neve e flagellate dalle tormente, costellate di caverne, ricoperte da fitti boschi e ampie radure d’alta quota attraversate da profondi burroni che costringevano a deviazioni di molti chilometri quando magari da una parte all’altra due persone avrebbero potuto persino parlarsi tanto erano stretti, esclamò:

 

‘Questa bestia non è affatto facile da prendere’.

 

I morti intanto erano arrivati a 46.

 

Il 22 febbraio la Bestia attaccò due bambini nel villaggio di Montel, parrocchia di Javols. Con loro c’era però uno di quei grandi cani da pastore usati anche nel Gévaudan – una razza famosa per l’efficacia contro i lupi – che subito balzò sulla belva, afferrandola per il collo. Ma dopo, inaspettatamente, la lasciò andare ritraendosi e non volle più tornare all’attacco. La Bestia si fermò e fissò il cane con uno sguardo – a detta dei soccorritori – colmo di disprezzo per il vile avversario. Poi fuggì. Il bambino, pur ferito gravemente, sopravvisse. Non si capisce il perché dello strano comportamento del cane.

 

Ebbe paura?




Forse.

 

Percepì sulla Bestia l’odore del sangue del bambino, del sangue umano, e questo istintivamente lo fece fermare? Chissà. O più probabilmente una volta raggiunto il suo scopo, e cioè quello di fare lasciare il bambino, considerò raggiunto il suo scopo. Comunque, non dimostrò di essere un cane all’altezza della fama della sua razza.

 

Stesso esito il 24 per l’attacco di una ragazza di La Molle, nei pressi di Termes. Atterrata dall’animale, fu soccorsa da una coraggiosa domestica, che finì azzannata al volto e a un braccio. L’arrivo di un uomo e dei suoi cani mise in fuga la fiera. In marzo fu segnalata a sud di Saint-Alban e i cani di un gruppo di cacciatori riuscirono a bloccarla. I cacciatori erano ormai vicini, quando la fiera contrattaccò e i cani fuggirono. Intanto D’Enneval non aveva ancora ricevuto i suoi famosi cani segugi ‘addestrati solo per il lupo, ardenti e della taglia da 26 a 27 pollici’ e il giornale Courrier d’Avignon con ironia scrisse che l’esperto cacciatore (subito dimostratosi spocchioso e venale) fino a quel momento non aveva avuto alcun contatto con la Bestia, che ‘pertanto doveva avere un’intelligenza pari alla straordinaria agilità dimostrata, perché doveva essere venuta a conoscenza del suo arrivo e quindi evitava accuratamente di confrontarsi con d’Enneval’.




Il 13 marzo la Bestia apparve nel villaggio di Vessière, parrocchia di Saint-Alban, dove Jeanne Chastang, donna minuta di 40 anni, si trovava con tre dei suoi figli davanti all’uscio di casa. La belva attaccò la figlia di 9 anni e allora Jeanne si gettò coraggiosamente sulla fiera e con la forza della disperazione riuscì a liberare la figlia, tenendo intanto lontana la belva a calci. La Bestia allora afferrò l’altro bambino di 6 anni ma mentre scappava con la preda la madre gli saltò sulla schiena afferrandolo con le braccia e le gambe. Gettata a terra più volte e ferita, riusciva sempre a trattenere l’animale, anche ai testicoli.

 

Jeanne riuscì ad afferrare una pietra, colpendo la belva più volte sulla testa. Finalmente fu udita da uno dei due figli più grandi, di 13 anni, che lavorava nella stalla e che accorse, seguito dal suo cane da pastore che, incredibilmente, non s’era accorto di nulla. Il mastino, descritto come un esemplare dei più grandi di quella razza, raggiunse per primo la belva, si scontrò con lei e la ribaltò a terra, azzannandola alla testa. Intanto giunse anche il ragazzo che la colpì con la sua baionetta, ma apparentemente la punta non penetrò, oppure la belva, lottando con il cane, non accusò visibilmente il colpo. A questo punto però aveva capito di essere a mal partito e, dopo essersi sbarazzata del cane buttandolo a gambe levate ad alcuni metri di distanza, fuggì verso il bosco.

 

Il bambino morì sei giorni dopo.




La Bestia pareva surclassare fisicamente qualsiasi cane, anche i più grandi, poiché nessuno di questi riuscì mai – anche in scontri in cui parvero avere la meglio, ma probabilmente solo perché il combattimento fu breve e la belva non aveva interesse a portare a fondo la lotta – a infliggerle ferite gravi.

 

Verso la fine di marzo arrivarono finalmente i cani di d’Enneval e il 31 il nobile fu avvertito che la Bestia aveva attaccato un bambino in un villaggio tra Fournels e Termes, ma che questi si era difeso, tanto che sulla punta della sua baionetta erano rimasti attaccati dei peli dell’animale. Immediatamente organizzò una battuta, ma si notò che mentre i cani del Gévaudan avevano subito individuato e seguito la pista con decisione, quelli dell’imbarazzato d’Enneval parevano disinteressati. Un’altra cosa, il nobile non liberava i cani, ma li faceva tenere al guinzaglio. Probabilmente temeva che se fossero corsi in avanti in luoghi in cui i cacciatori non avrebbero potuto seguirli – come zone troppo ripide e paludose – si sarebbero trovati davanti alla Bestia da soli. Insomma, temeva che la belva li ferisse o uccidesse, nonostante fossero sei contro uno. Alla fine si decise a far liberare i cani. Nonostante il vantaggio accumulato, la belva fu raggiunta e scoppiò una lotta furibonda.




Quando però la Bestia si accorse dell’arrivo dei cacciatori, ebbe un’esplosione di furia e si sbarazzò degli avversari. Gli uomini erano rimasti troppo indietro e d’Enneval era preoccupato per la sorte dei suoi cani. Fu solo quando anche l’ultimo tornò indietro che tirò un sospiro di sollievo. Non dimostrava preoccupazione per le vittime della belva, ma per i suoi cani sì. Ma certo alla prima vera opportunità di farsi valere non avevano fatto bella figura. In una lettera scritta al ministro Saint-Priest il Sottintendente Lafont scrisse: ‘Mi sembra un poco scoraggiato, cosa che non mi sorprende molto (…) Gli stranieri vengono con la migliore volontà, cacciano per quindici giorni o tre settimane, e dopo se ne tornano a casa, stanchi e demotivati’.

 

Il 4 aprile il nobile riuscì a vedere da lontano l’enorme belva mentre, inseguita dai cani, correva a velocità fantastica con balzi giganteschi che, nonostante fosse in salita, l’avevano presto portata fuori vista. D’Enneval dichiarò che a suo parere non era un lupo. Il 22 aprile a Malzieu furono trovate tracce fresche della Bestia e d’Enneval in breve giunse sul posto con i suoi cani che però non solo non mostrarono nessuna eccitazione, ma addirittura non percepirono neppure l’odore della Bestia. Uno degli addetti ai cani, irritato dalla situazione, giunse ad afferrare la testa di uno di questi e ad abbassarla più volte violentemente sul terreno e sulle orme della belva, ma ancora una volta con nessun risultato. Avevano paura.

 

Due lupi uccisi, ma non si tratta della Bestia. L’incarico a François Antoine. Le vittime sono arrivate a 80.




L’1 maggio, mentre d’Enneval faceva un’altra infruttuosa battuta con i cani, un lupo nei paraggi di La Chaumette fu visto avvicinarsi di soppiatto a un ragazzo di 15 anni che stava facendo pascolare il bestiame. Gli abitanti di una casa vicina gli spararono e l’animale, lasciando una grande striscia di sangue, fuggì andando a morire lontano. Ma non era la Bestia, anche se probabilmente pure lui antropofago. Lo cercarono in 200, ma la pioggia torrenziale evidentemente cancellò il sangue e il suo odore. Il 23 ci fu un’altra battuta e nella zona di Arzenc-de-Randon fu stanata una lupa, raggiunta e accerchiata non dai cani da caccia ma da tre cani da pastore. Subito si scatenò una selvaggia lotta, durante la quale due cani furono messi fuori combattimento. Ma anche la lupa non ne uscì indenne, e pur riuscendo a fuggire, era visibilmente stanca. I cani si ripresero e finalmente la bloccarono. Fu uccisa a colpi di baionetta. Era una giovane lupa e pesava poco più di venti chili. Non era certo la Bestia.

 

Il 24 maggio fu attaccata la diciottenne pastorella Marguerite Bony, che si trovava nel pascolo detto Coste-Rouge, nei pressi del villaggio di Marcillac, vicino a Lorcières, in Auvergne. Fu soccorsa da un quindicenne che colpì più volte con la baionetta la belva, che alla fine, sanguinante, si ritirò. Tuttavia le vittime aumentavano e re Luigi XV capì che d’Enneval non era in grado di portare a termine il compito affidatogli. Fra l’altro la stampa inglese aveva preso a fare articoli sulla vicenda, ridicolizzando lui e la Francia.




Conferì quindi l’incarico al settantenne François Antoine, che aveva la carica di Porta Archibugio del Re ed era Grande Louvetier del Regno. In pratica, il maggiore rappresentante della Louvetier, l’organizzazione creata secoli prima proprio per sterminare i lupi. Insomma, qualche capacità l’aveva senza dubbio, visto che nel 1746 aveva condotto la caccia alla Bestia di Versailles – un grande lupo antropofago che fece vere e proprie stragi – riuscendo infine ad abbatterlo. Il re, che si fidava molto di lui, gli ordinò di scegliere i migliori cacciatori di Francia e di andare nel Gévaudan a eliminare quella maledetta belva una volta per tutte. Luigi XV era talmente irritato, anche se caratterialmente era una persona pacata, che il duca di Orléans, quello di Pontièvre e il principe di Condé, appassionati di caccia, si affrettarono a mettere a disposizione il meglio di ciò che possedevano quanto a cacciatori, cavalli e cani.

 

Il 16 giugno François Antoine arrivò nel Gévaudan. Con lui c’era il figlio Robert-François Antoine de Beauterne, un valletto, otto capitani della guardia reale di Versailles e Saint-Germain e sei guardiacaccia messi a sua disposizione dal principe di Condé, dal duca di Orléans e dal duca di Penthièvre, tutti eccellenti tiratori. Avevano con loro quattro grandi cani segugi della Louveterie Royale, ognuno dei quali aveva partecipato all’uccisione di parecchi lupi. A completare la muta, un forte e grande levriero. Finché d’Enneval non partì i due collaborarono diverse volte, perché Antoine aveva bisogno dei suoi cani. Fra l’altro in quei giorni uno dei quattro segugi si era ammalato e quindi ne rimanevano solo tre più il levriero. Aveva bisogno di alcuni grandi e forti cani, abbastanza coraggiosi e nel caso feroci da poter affrontare la Bestia. Pertanto chiese alle autorità locali se potevano procurargli cinque o sei mastini, ossia cani da pastore, della zona, visto che ne aveva sentito parlare bene.




Il 4 luglio fu uccisa l’anziana Marguerite Oustallier, del villaggio di Broussoles, parrocchia di Lorcières, mentre stava custodendo le sue vacche al pascolo. Antoine visionando ciò che restava del cadavere e le impronte sparse intorno, capì che quello era veramente un grande lupo poiché le impronte erano enormi. Ovvio cosa pensò Antoine, e che poi scrisse. ‘E se la cosiddetta Bestia non fosse altro che un grande lupo, magari insieme alla compagna e a qualcuno dei suoi figli?’. Del resto, più volte era stato descritto un animale, probabilmente la Bestia o la sua femmina, che camminava con uno o più cuccioli a fianco o che quando si allontanava veniva raggiunto da loro. Se era così, la Bestia stava allevando i suoi cuccioli anche con carne umana, insegnando loro che l’uomo era una preda da cacciare.

 

E se era così, prossimamente ci sarebbero state in giro parecchie Bestie antropofaghe. Anzi, forse ce n’erano già. Ma uno dei peggiori nemici era il tempo, dal suo arrivo praticamente aveva piovuto tutti i giorni, oppure c’era stata una pesante nebbia che non permetteva di vedere neppure a pochi metri di distanza. Ecco cosa scrisse Antoine in una lettera del 27 luglio 1765:

 

‘Le piogge, le spesse nebbie che regnano tutte le mattine e che durano spesso fino a sera, il fieno, il grano che non possono essere raccolti se non alla fine di agosto, gli abitanti che sono occupati in ciò che fornisce tutte le loro risorse, tutto questo ritarda molto tutte le nostre operazioni. (E ripeté:) Abbiamo riconosciuto sia dalle ferite che queste bestie hanno fatto sui cadaveri e sia dalle orme, che non c’è nessuna differenza dal piede di un grande lupo. Se c’è una bestia di un’altra specie diversa dai lupi e che causa queste devastazioni, né le guardie né io abbiamo potuto ancora scoprirla, né c’è nessuna impronta differente da quella dei lupi, e questo malgrado le continue ricerche che abbiamo fatto’.


Arrivano i rinforzi. I morti intanto sono 88. Abbattuto un grande lupo, ma non è la Bestia, che comunque è ferita gravemente.




Il 2 agosto Antoine sentì latrare molti cani e non erano certo i suoi, che riconosceva immediatamente a orecchio. Inoltre questi erano ben diciannove, condotti da due valletti e al seguito del conte Antoine Tournon il quale, dall’Haut-Vivarès, sentite le difficoltà di Antoine, si era messo spontaneamente in viaggio per aiutarlo. Antoine, suo figlio e i guardiacaccia erano esultanti, e lo furono ancor più quando il conte disse loro che erano in arrivo altri sei cani. Il conte di Tournon fece presto amicizia con tutti e rimase lì finché Antoine non partì. Insomma, erano arrivati prima gli aiuti privati invece di quelli richiesti alle autorità.

 

Il 6 agosto due ragazzi stavano facendo pascolare il bestiame vicino al ruscello di Gorguière, villaggio di Marcillac, nella parrocchia di Lorcières. All’improvviso, da lontano, videro arrivare di corsa la belva e, avendo incautamente poggiato lontano le loro baionette, non poterono fare altro che rifugiarsi all’interno del gregge. Ma certo gli ovini non potevano fornire protezione come invece era avvenuto in altri casi con le vacche o i maiali. Fortunatamente avevano anche dei cani, che si posero davanti a loro abbaiando verso la Bestia e così questa si fermò e infine trovò in una bisaccia del pane che – dimostrando di essere veramente affamata – mangiò. Poi se ne andò. La belva infatti non poteva alimentarsi solo di carne umana, perché altrimenti negli intervalli fra una vittima e l’altra sarebbe morta di fame. Difatti Antoine scoprì più volte carcasse di capre e pecore divorate.




L’11 Antoine organizzò attentamente una battuta durante la quale i suoi uomini e i battitori si sarebbero divisi in tre gruppi ed effettivamente la belva fu scovata. Udendo arrivare i cani, aveva giocato d’astuzia e aveva attraversato più volte un fiume per fare perdere le sue tracce, ma i segugi non si erano fatti ingannare. La belva in fuga però sbucò all’improvviso in una radura e qui si trovò davanti a un gregge e ai cani da pastore, che immediatamente si gettarono contro di lei costringendola a cambiare direzione, e poi contro i cani da caccia.

 

Tuttavia quella era una giornata particolare, perché la Bestia – dimostrando di essere onnipresente (poi capirete il perché…) – aveva attaccato pure la pastorella Marie-Jeanne Valet in un bosco vicino a Paulhac, ricevendo un devastante colpo di baionetta al petto mentre le si buttava addosso con un salto. Il sangue sparso sull’intera punta in ferro della baionetta e lunga 8 cm, nonché sul terreno, testimoniava che la ferita era forse mortale, anche se l’animale era fuggito. Le enormi impronte erano le stesse, come grandezza, già esaminate da Antoine. Ma la belva, si scoprì in seguito, sopravvisse perché la punta penetrò non nel petto ma nell’ascella.




Il 28 Rinchard, uno dei guardiacaccia di Antoine, era appostato vicino alla foresta del Tenezere quando notò un lupo nero che stava osservando dei pastorelli. L’attimo prima non c’era, poi era apparso. La distanza era di 109 passi, poco più di 50 metri, e quindi non vicino ma neppure troppo lontano. Rinchard prese accuratamente la mira e sparò, centrandolo e per di più in un punto mortale visto il molto sangue trovato sul terreno. Tuttavia il lupo fuggì. Si fecero allora arrivare i cani, che ne seguirono le tracce fino a Vedrines-Saint-Loup. Poi lo persero. Ma Rinchard, che era un tipo abile e sveglio, era sicuro di alcune cose, per esattezza cinque: il lupo si stava avvicinando ai pastorelli; era enorme; era nero o molto scuro; era stato colpito in pieno; sarebbe senza dubbio morto. E difatti il 31 agosto alcuni contadini ne trovarono il cadavere e così alcuni giorni dopo il conte di Tournon partì con i suoi cani. L’istinto però diceva ad Antoine che “là fuori” c’era ancora qualcosa e difatti la strage riprese.

 

La caccia continua.

 

Il tempo peggiorava, le nebbie si facevano sempre più frequenti e c’erano già state delle gelate. Ma il 16 settembre, ecco finalmente arrivare gli uomini e i cani richiesti! Si trattava di due addetti con la muta, composta da un levriero, due segugi, otto robusti cani da lupo della Louvetérie e di un buon segugio di Fontainebleau. Quindi, dodici cani ai quali si aggiungevano i cinque già portati da Antoine. Certo, non erano i venticinque della muta del conte di Tournon, ma si poteva farne buon uso. A proposito dei cani inviati ad Antoine, si dice che fra questi vi fossero alcuni mastini abruzzesi (ossia cani da pastore maremmani-abruzzesi), offerti per questa particolare caccia dal Regno di Napoli.




In realtà nella grande mole di documenti sulla vicenda presenti negli archivi e musei, non c’è nessuna traccia in merito. Probabilmente l’equivoco nasce da un quadro del pittore Jean-Baptiste Oudry nel quale è raffigurato un lupo che combatte contro alcuni cani, due dei quali paiono essere dei bianchi mastini abruzzesi, quindi di razza italiana. Ma anche il francese cane da montagna dei Pirenei è grande – anzi più grande, solitamente – e bianco. Fra l’altro il pittore di fiducia del re francese, appunto Oudry, all’epoca della Bestia del Gévaudan era già morto e quindi è chiaro che il quadro raffigura un’altra caccia al lupo, e precisamente quella alla Bestia di Versailles, condotta proprio da Antoine nel 1746.

 

Il 17, i guardiacaccia di Antoine gli riferirono che vicino al cadavere dell’ultima vittima, una bambina di Pépinet, era stato visto un grosso cane da pastore che aveva trovato i resti e li stava mangiando. Antoine diede subito ordine di sparare a vista all’animale, che fosse domestico o inselvatichito, e in una lettera inviata subito dopo a Saint-Priest, gli comunicò la decisione di abbattere il cane, come del resto avevano chiesto gli stessi abitanti della zona. Scrisse: ‘Preveda le conseguenze, se i mastini che lei può vedere dappertutto in questo paese dovessero cominciare a mangiare le persone!’. Il cane fu avvistato, ancora intorno a Pépinet, quattro giorni dopo e ucciso.




Sempre il 17 ci fu un attaccò nel villaggio di Pommier, parrocchia di Chazes, in Auvergne. Una donna, Jeanne Valette, stava accudendo il suo bambino, quando lo abbandonò per un attimo per una breve incombenza. Voltandosi però notò la Bestia che si stava avvicinando di soppiatto, e allora prese un coltello e intervenne di corsa. La belva partì all’attacco ma la donna coraggiosamente la ferì alla spalla e la mise in fuga. Conseguentemente, appena ricevuta la notizia, Antoine organizzò una battuta con i cani e fu così che scoprirono grandi impronte di lupo. A loro parere c’era la possibilità che la belva fosse ancora in zona e difatti il giorno dopo comunicarono di aver visto, nel cosiddetto Bosco della Signora, un lupo gigantesco. Non era solo, perché con lui c’era la femmina e tre cuccioloni. Antoine organizzò per la mattina dopo una battuta con tutti i cani e i suoi uomini e con l’aggiunta di quaranta cacciatori provenienti da Langeac e molti battitori.

 

La Bestia uccisa!

 

Era il 20 settembre 1765 e Antoine, insieme a Rinchard, si appostò in un punto sulla riva destra del fiume Allier, a nord-est di Auvers. A un certo punto sentirono i latrati dei cani, prima monotoni poi più acuti e frenetici, segno che avevano trovato la pista e che erano dietro alle belve. Antoine, che ammetteva di sovraccaricare il suo fucile al punto che rischiava di esplodergli fra le mani, questa volta per sicurezza si era munito di un’arma ancora più potente e cioè una spingarda. Era una sorta di archibugio enorme, lungo più di due metri e tanto pesante che per mirare lo si poggiava su un apposito cavalletto o alla bisogna su un robusto ramo. L’aveva caricato non con una, ma con ben cinque cariche da lupo, versandovi poi trentacinque pallettoni più una grossa palla unica. Tale pericolosa scelta era dettata dall’esperienza di varie persone con la Bestia, che pareva sopportare le normali fucilate senza rimanere ferita gravemente o almeno senza morirne.




E all’improvviso Antoine vide uscire dal bosco – sono parole sue – quello che inizialmente nella foschia gli parve un asino o un mulo che però, quando giunse a una cinquantina di passi di distanza, si rivelò essere un lupo colossale. Con la spingarda così caricata, non fu uno sparo, ma una cannonata. L’animale cadde rovinosamente a terra, colpito al collo, alla testa e alla spalla. Ma un attimo dopo, incredibilmente, eccolo rialzarsi con un buco al posto di un occhio là dove la palla era penetrata e riprendere la corsa in direzione di Antoine, la cui arma era ormai scarica. Ma Rinchard lo centrò ancora e il lupo crollò.

 

Esaminarono il corpo insanguinato del gigantesco lupo grigio – da quel momento chiamato ‘il lupo di Chazes’ visto che era stato abbattuto nei pressi di quest’abbazia reale – e notarono la cicatrice del colpo di baionetta infertogli sotto l’ascella da Marie-Jeanne Valet. Esaminato poi con attenzione da un chirurgo (esiste ancora il verbale con descrizione e firme) risultò avere circa 8 anni, essere lungo 143,3 cm coda esclusa, alto al garrese 87 centimetri e pesante 63,6 kg. Sangue escluso, in quanto dalle ferite provocate da circa quaranta pallettoni il sangue dovette colare come da un rubinetto. Forse da vivo doveva pesare quasi 70 kg o persino di più perché quando fu nuovamente misurato da uno staff di quattro chirurghi, il peso risultò essere sbagliato per difetto. Il cadavere presentava molte cicatrici più o meno recenti e sotto la pelle furono trovate palle e pallini di fucile che erano rimaste lì, pur non essendo penetrate in profondità.





Antoine era convinto che quel gigantesco esemplare fosse la Bestia del Gévaudan, anche se non la sola. Lo scrisse anche all’Intendente:

 

‘Ciascuno di noi non ne ha mai visto uno di uguale per grandezza, forza, peso, grossezza e lunghezza delle quattro zanne, avendo anche il più grande piede di lupo che abbiamo mai visto, e che come avevamo notato dalle sue impronte piantava le sue unghie per più di un pollice nel terreno. Per una forza soprannaturale che le è sempre stata riconosciuta, la Bestia aveva trascinato dei corpi molto pesanti, tanto vivi che morti, ad una distanza troppo considerevole per non provare con ciò che tali atti potevano essere possibili solo a un animale gigantesco come questo. Non pretendo di provare che non ci fossero altri lupi che non si siano uniti a lui per divorare gli uomini, come già accadde in queste province nel 1630, quando ci vollero otto anni per distruggerli, ed io sono troppo modesto per potere ritenere che sia solo’.

 

Luigi XV, appena seppe la notizia esultò e la notizia dell’abbattimento della Bestia del Gévaudan finì su tutti i giornali francesi e anche esteri e divenne argomento di discussione ovunque nel regno. Del resto Luigi XV era anche un appassionato cacciatore e cinofilo che possedeva un vero esercito di cani, quasi mille, che egli conosceva uno a uno per nome. Solo la sua muta per la caccia al cervo contava ben 250 cani. Quello di Luigi XV fu un periodo in cui la venaria, ossia la grande attività venatoria e quindi di caccia, fu esaltata al massimo della sua gloria e durante il quale furono composte le fanfare di caccia ancora in uso ai giorni nostri. L’1 ottobre la belva impagliata fu portata direttamente al cospetto di Luigi XV e della corte lì riunita e tutti si stupirono delle sue dimensioni e dell’aura di minaccia che emanava pure da morta.

 

La bestia imbalsamata




Antoine invece, nonostante la stanchezza, voleva terminare il compito assegnatogli uccidendo anche la femmina e i cuccioloni della Bestia, temendo che avendo già assaggiato la carne umana proseguissero la strage. La femmina alta 70 cm al garrese e i cuccioloni, già più grandi della madre, furono abbattuti tutti entro il 17 ottobre. Antoine lasciò il Gévaudan il 3 novembre e il tempo ormai si era messo al brutto. Quello che si avvicinava però non era un temporale, ma un uragano chiamato Rivoluzione Francese. Morì sei anni dopo, nel 1771, all’età di 76 anni. La Bestia impagliata fu inviata al Museo di Storia Naturale di Parigi e conservata in uno dei tanti polverosi magazzini finché all’inizio del XX secolo, ormai attaccata dalle tarme e con il pelo che cadeva a ciuffi, si decise di distruggerla.

 

La Bestia non è morta. Le vittime umane salite a 109.

 

Il 2 dicembre ci furono degli avvistamenti di un animale molto più grande di un lupo, seguiti da alcuni attacchi. Il 21 fu sbranata una pastorella nei pascoli sopra il villaggio di Marcillac e il giorno dopo un animale tornò a cercarne il cadavere, ma non trovandolo si avvicinò a un’altra pastorella. Fu però vista da tre pastori che subito aizzarono i loro cinque cani. La fiera fuggì, inseguita dai cani, giungendo fino a dentro il villaggio di Clavières, sfrecciando fra le case, balzando nelle strette strade fra il latrato dei cani e infine spuntò nella piazza della chiesetta locale. I paesani, che stavano uscendo proprio in quel momento dopo aver assistito alla messa domenicale, tornarono dentro e si barricarono, mentre le campane prendevano a suonare per dare l’allarme. Altri si rifugiarono ovunque potessero, nella taverna, nelle case. La belva li ignorò e fuggì.




La Bestia non era affatto morta, era tornata e lasciava impronte enormi, lunghe oltre sedici centimetri! (confermato dalla successiva autopsia). Ricominciarono le predazioni umane e l’11 marzo 1766 il Courrier d’Avignon annunciò che la Bestia del Gévaudan non era morta, oppure era resuscitata. Il 3 giugno la Bestia si avvicinò al villaggio di Lescoussouses, nella zona di Desges, e afferrò una bambina di 10 anni che stava sul retro della sua casa, trasportandola poi con incredibile facilità in un campo vicino. Tuttavia la belva non aveva evidentemente notato che, forse accucciato in un punto defilato, c’era anche un grosso cane da pastore che immediatamente la rincorse e si buttò sulla Bestia, costringendola a lasciare la ragazza. La bambina riportò l’amputazione di un orecchio e due gravi ferite al collo e alla testa, ma nonostante la perdita di sangue fu salvata da un chirurgo fatto venire d’urgenza da Langeac. Altri non furono così fortunati, tanto che alla fine del 1766 le vittime della Bestia erano arrivate a 109.




A quel punto Luigi XV, imbarazzato e irritato, non ne volle più sapere e ordinò la censura a tutte le autorità della Languedoc e delle zone vicine, inclusi i curati ai quali fu espressamente vietato di citare qualsiasi riferimento alla Bestia negli atti dei funerali. Le autorità cessarono formalmente di interessarsi alle successive vicende, e gli incartamenti giunti fino a noi pertanto si riducono moltissimo e si limitano agli scarni rapporti dei curati che non tennero conto della disposizione del re. Dobbiamo pertanto ritenere che all’appello manchino altri attacchi e vittime, semplicemente nascosti. Censura o no, diverse lettere conservate negli archivi dichiarano che la belva uccise altre dozzine di persone, tanto che la popolazione terrorizzata partecipò in massa a varie celebrazioni religiose in cui si chiedeva l’intervento dei santi, come quella del 14 giugno 1767 a Notre-Dame-de-Beaulieu, a tre chilometri a sud-est di Paulhac. L’affluenza era stata tale che la massa di fedeli aveva invaso i prati e le messe erano state celebrate all’aperto. Intanto però dei nobili locali avevano deciso autonomamente di cacciare la Bestia, come il marchese d’Apcher. Difatti la popolazione gli fu tanto grata che, quando fu catturato durante la Rivoluzione Francese, intervenne e lo fece liberare. A giugno 1767 le vittime della Bestia erano salite a 131 ma la censura ne aveva nascoste molte altre. Si calcola che le persone uccise in totale siano state in realtà fra le 150 e le 300.

 

Gli uccisi sono almeno 131, nonostante la censura. La Bestia finalmente uccisa.




L’ultima vittima della Bestia del Gévaudan fu un bambino di 8-9 anni a Desges, il 18 giugno. La notizia dell’attacco fu recapitata al marchese d’Apcher anche se erano già le 11 di notte, il quale precipitosamente avvertì alcuni cacciatori, esattamente dodici, fra gli uomini del castello e quelli delle sue terre, e subito partirono al galoppo verso la zona dell’erta foresta montagnosa della Teynazère, sui Monti della Margeride. La belva si trovava probabilmente in quei paraggi e agendo in velocità c’era la possibilità di capitarle addosso nelle ore del giorno successivo, 19 giugno. Intanto erano stati avvertiti gli abitanti del luogo affinché partecipassero come battitori alla caccia. Era l’alba quando, dopo aver appostato i tiratori, i cacciatori a cavallo, i circa 300 battitori e i cani perlustrarono il bosco a nord della Margeride, entrando poi in quello di proprietà del marchese di Pons. Il cacciatore Jean Chastel – un oste dalla vita avventurosa, nonché sospetto bracconiere – era appostato nel punto che gli era stato assegnato e aspettava in silenzio, guardandosi attorno e attento a udire il latrato dei cani all’inseguimento. E intorno alle 10, 30 in effetti arrivò la Bestia, insieme probabilmente alla femmina.




Mentre l’animale avanzava a passo leggero, sembrava infatti che non toccasse neppure terra, Chastel poté osservarlo. Pareva un lupo, ma mostruoso. Anche se era un poco più piccolo del colossale lupo ucciso da Antoine, era enorme. Dalle snelle zampe posteriori, il tronco andava facendosi sempre più largo e possente, fino alle forti spalle e al petto muscoloso da cui partiva un collo taurino di spropositata robustezza. Ma ciò che più colpiva era l’enorme testa. Il muso era lungo e aguzzo quasi come quello di un comune lupo, ma era la sua larghezza a essere anomala. Neanche i grandi molossi che custodivano le ville e i castelli dei nobili della zona presentavano guance così larghe e piene e una fronte così ampia, resa ancor più appariscente nella sua brutale conformazione dalle piccole orecchie ritte. E le zampe! Lunghe ma robustissime, spesse come il braccio di un uomo vigoroso, e che terminavano in piedi tanto grandi da essere sproporzionati. Eppure, notò Chastel, quei pur gelidi e inquietanti occhi emanavano mistero e fascino, e nessuna ferocia o bramosia di strage. Sembrava un tranquillo lupo di passaggio, tutto qui.




Tuttavia, neppure per un attimo Chastel dubitò che quella fosse la belva che tanti orrori aveva provocato in quegli anni. Sparò con cura e vide l’animale crollare a terra istantaneamente. Un solo colpo preciso aveva cancellato la leggenda dell’invulnerabilità della belva. I proiettili avevano centrato il collo, attraversandolo fino a perforare la trachea, tranciare l’arteria e fracassare la spalla sinistra. La Bestia era morta, ma se aveva conservato una scintilla di vita gliela spensero i cani che, giunti in piena velocità, le si buttarono tutti addosso.

 

Quando fu esaminata al castello di Besques, furono notate le cicatrici descritte dai tanti che l’avevano colpita e nello stomaco aveva ancora parte dell’omero dell’ultimo bambino divorato. Le campane iniziarono a suonare a festa e in breve a esse si unirono quelle delle chiese degli altri paesi, man mano che la notizia si diffondeva nel Gévaudan e in Auvergne. Il giorno dopo, 20 giugno, l’animale fu esaminato alla presenza del notaio Roch Étienne Marin, proveniente appositamente dalla sua sede di Langeac. Era indubbiamente un canide, un lupo o forse un ibrido. Era lungo 127,1 cm coda esclusa, pesava 53,4 kg, era alto al garrese 77 cm e i canini superiori misuravano 3,6 cm e 3,4 quelli inferiori. Proprio la lunghezza dei canini fa propendere alla tesi che fosse un lupo puro, perché i cani e così pure gli ibridi non li hanno di quelle dimensioni.. Dall’autopsia risultò che i muscoli masseteri e temporali, quelli che danno potenza al morso, in totale pesavano 3 kg (un Cane Corso dello stesso peso arriva in totale a circa 600 grammi). I piedi anteriori erano lunghi 16,2 cm per 12,2.




Il cadavere dell’animale fu fatto distruggere da Luigi XV, che non voleva ammettere di essersi sbagliato (ma anche il lupo ucciso da Antoine era la Bestia, o meglio, un’altra). A Chastel la gente di La Besseyre-Saint-Mary dedicò una stele, e la troverete lì anche oggi. Durante la caccia alla Bestia nel Gévaudan, tra il 10 maggio 1764 e il 21 aprile 1767, furono uccisi ben 346 lupi, considerando solo quelli abbattuti a fucilate e nelle trappole o le cui carcasse furono ritrovate. Ma non sappiamo quanti altri siano fuggiti mortalmente feriti, oppure agonizzanti per avere mangiato bocconi avvelenati, andando a morire in luoghi nascosti.

 

Probabilmente molti… troppi!