CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

sabato 25 maggio 2024

IL DIALOGO CONTINUA (con chi? chiede e domanda la Scimmia indovina...)

 









Da precedenti 


...Dialoghi 


Prosegue con: 


la Fattucchiera







SCIPIONE. Il cielo provvederà per il meglio. Seguita la tua storia e non divergere dalla strada carreggiabile con digressioni inopportune. Così per lunga che sia, ne sarai presto al termine…

 

‘Beato don Chisciotte, che è morto nella più assoluta ignoranza’, arrivò a dire don Pietro in merito a tutto quel disordine. Infatti senza saperlo e senza volerlo, era morto rovinato e pieno di debiti e con creditori non meno di strozzini voraci accompagnati da usurai disposti a dividere in tanti pezzetti i beni mobili e immobili che erano appartenuti ai suoi nonni e bisnonni.

 

Alla morte di don Chisciotte questa fu la vera Panza scudiero di ben diverso Viaggio… scalciare il proprio ed altrui malessere nell’ingorda avventura…




Quando partì a miglior vita, oppure se preferite, nella Panza di cotal compagnia…, morì nell’appetito e intestino d'altrui dubbia natura, di certo la sua in compagnia del lungimirante e stanchissimo Ronzinante comporre più degno quadro fedele alla dottrina di ogni Elemento celebrato…

 

Se non se ne fossero assieme andati dialogando come pazzi da quella casa masticata sarebbero morti di malinconia digeriti dalla Panza di un diverso destino…

 

Infatti a don Chisciotte non bastava sì miserevole tavola…

 

Quello che bastava al curato, al barbiere, al farsettaio, alla governante e alla nipote, insomma quello che sembrava andar bene a tutti, divenne per don Chisciotte un’inquietudine che gli divorava l’Anima non meno dello Spirito.




La malinconia non meno dell’antica melanconia lo fece impazzire, ed ancora la malinconia lo uccise, quando ormai rinsavito.

 

Lo seppe in un modo oscuro.

 

Non disse:

 

‘Sono pazzo perché non posso uscire’

 

o:

 

‘Se non me ne vado di casa, finirò per impazzire’

 

e neanche:

 

‘Siccome sono pazzo, diventerò un cavaliere errante’.




E non era neanche vero che avesse mangiato il coriandolo verde, come in un primo tempo ipotizzò uno dei medici.

 

No!

 

Semplicemente don Chisciotte aveva pensato:

 

‘La vita è fuori di qui, la realtà è lì che aspetta da qualche parte e con lei più certa e degna verità; e tutto ciò che sembra reale non lo è, è solo un brutto sogno, un sogno quotidiano, una cosa che sembra ma non è, e così la o il governante, non è né Tempo né governo, mia nipote non è mia nipote, mia figlia non è mia figlia, e io non sono io, finché non me ne andrò via di qui.

 

O adesso o mai più!

 

E che duri la vita’…




In verità e per il vero… la cavalleria errante e tutto l’armamentario di cui si è parlato tanto furono una scusa. Se non ci fosse stata la cavalleria errante, avrebbe pensato a qualcosa d’altro. Avrebbe potuto partire con una tribù di zingari o una compagnia di soldati, o magari mettersi a fare il pellegrino. Il caso volle che gli piacessero i romanzi e quella fu la piega che prese la sua pazzia, perché la pazzia e l’acqua puntano sempre al punto più debole.

 

E cosa poteva fare un hidalgo in quel misero paese se non leggere romanzi? E certo, quando li ebbe letti volle farsi cavaliere.

 

Cos’altro avrebbe potuto diventare, sennò?

 

In quella sua prima uscita arrivò ad una locanda che scambiò per un castello, a tre o quattro leghe da casa sua. Si sarebbe potuto pensare che chiunque, vedendolo, l’avrebbe riconosciuto, ma don Chisciotte non lo conosceva nessuno, perché non aveva l’abitudine di viaggiare o di farsi vedere in giro…

 

Per cacciare per come la intendono loro, i suoi paesani, andava appena fuori dal paese, nei campi comunali, e se restava fuori una notte dormiva all’aperto. Lì c’erano cerbiatti, volpi, faggi, gheppi e tanto altro e lui parlava e dialogava con tutti della caccia a ben altri Spiriti ed Elementi destinava e cimentava il proprio ed altrui istinto in diversa connessione elevato, e Ronzinante compie un inchino giacché lui li scorge prima con il suo fiuto… nel Dialogo celebrato…




Ad esempio ai lupi aveva insegnato come fuggire ogni avverso cavaliere e come scannare ogni belante pecunia di un visibile e diverso reame colmo di catrame; alle volpi di cogliere i frutti ben maturi non meno dei polli, giacché il suo cruccio fu un tomo mal interpretato oltre che mal copiato…; ai gheppi di volare ben alti altrimenti il Pensiero e con lui il Genio braccati vigile sulle ali di elementi a cui comandava direzione e Tempo… disperdere il vero Principio e Dio… nella Parola cacciata…; ai cerbiatti di correre lesti giacché il bosco divorato dal medesimo rogo di chi brucia ogni Tomo e magnifica miniatura al fuoco della vita…, ed ornare più oscuro castello padrone dell’intera selva…; ai cinghiali di scavare le fosse in cui seppellire ogni ortodosso accadimento non meno della retta via…

 

E così via! 

 


 

Arripit ut lapidem catulus

 

morsuque fatigat,

 

Nec percussori mutua damna facit.

 

Sic plaerique sinunt veros elabier hosteis,

 

quos nulla gravat noxia, dente petunt.


 


 

Uno pecca, l’altro viene punito! Uno uccide e colpisce l’indifeso ingannando per il proprio tornaconto di Stato, e l’altro, l’innocente, viene punito per nessun inganno aver perpetrato e giammai consumato. In nome e per conto del più elevato o falso principio dell’altrettanta miserevole Ragion di Stato. Come il cagnolino afferra il sasso e lo tormenta a morsi senza restituire il danno a chi l’ha colpito, così i più lasciano sfuggire via i veri nemici e azzannano col dente chi non ha nessuna colpa. Platone, discutendo sul codice d’onore del saggio-guerriero, condanna come espediente infame quello di chi si mette a spogliare il cadavere di un nemico mentre dovrebbe combattere ancora gli altri avversari. Vigliacco e avido, dunque, chi perde tempo rimanendo chinato sopra un morto per depredarlo (compreso il suo segreto Diario) e lascia fuggire via l’effettivo nemico. Costui si comporta, sentenzia il Filosofo, come un cane che si sfoga contro i sassi che l’hanno colpito e non tocca chi li ha lanciati. Il concetto, che ricompare in Pacuvio, viene rivisitato negli Adagia di Erasmo nel motto ‘Canis seviens in lapidem’ , che cita proprio Platone e Pacuvio. 




Un araldo coniato nella falsa moneta di Stato ed incisa con nobile cura al fine della più degradata Ragion economica, in attesa di Monopodio e il suo eterno Governo sancirne il traffico. Ma sappiamo altrettanto bene che la votata Dama di questo e ogni futuro Stato per sua pregiudizievole genesi accompagnata da difettevole natura, proprio dal traffico d’una strana stiva fu posta in essere nel destino e principio (o fine) dell’insana dottrina. Fu battezzata fascista! Ovvero, quando neonata chiamava Rachele da uno strano padre trascurata, e Benito dalla stiva rispondea. Ché avendola messa al mondo per ogni sventurato viandante, trascurò bene di narrare qual oggetto di natura fosse il principio del traffico di cui oggetto Monopodio e il suo trascorso e futuro governo. Trascurò il morbo che censura dunque l’avarizia e la codardia che offuscano la coscienza dell’uomo di fronte al proprio dovere e onore, degradandolo all’insipienza di una bestia.




BERGANZA. Abbiamo detto già che non dobbiamo sparlare.

 

SCIPIONE. È vero, ma io non sparlo di nessuno.

 

BERGANZA. Ecco qui confermata la verità di quello che ho sentito dire tante volte. Un maldicente avrà, col suo mormorare, esposto alla rovina dieci famiglie e calunniato vecchi galantuomini; e intanto se qualcuno lo riprende di ciò che ha detto, risponde che lui non ha detto nulla; che se ha detto qualcosa non lo ha detto per male, e che se avesse pensato che qualcuno se ne dovesse offendere non l’avrebbe detto. In fede mia, Scipione, molta saggezza deve avere e molto bene deve reggersi sulle staffe chi volesse durare a conversare due ore senza confinare colla maldicenza. Io vedo infatti in me stesso che, pur essendo animale come sono, in questi discorsi che faccio, mi corrono sulla lingua come moscherini al vino parole, e tutte malevoli e sprezzanti. Per il che, torno a dire quel che ho detto già, che il mal fare e il dir male lo ereditiamo dai nostri progenitori e lo succhiamo col latte. Lo vediamo chiaramente nel fatto che appena il bambino ha messo fuori dalle fasce il braccio, alza la mano come se volesse vendicarsi di chi, secondo lui, lo molesta, e quasi la prima parola formata che dice è dar di bagascia alla balia o alla madre.




SCIPIONE. Così è, io confesso il mio errore e te ne domando perdono, avendone perdonati tanti a te. Rappattumiamoci, come si dice, e non mormoriamo più d’ora in avanti. Seguita il racconto che hai lasciato al fasto con cui i figli del mercante tuo padrone se ne andavano alla scuola della Compagnia di Gesù.

 

BERGANZA. E a Gesù mi raccomando ad ogni occorrenza. E sebbene lo ritenga difficile smettere di mormorare, penso di usare un espediente che ho sentito dire usava un gran bestemmiatore, il quale, pentito della sua cattiva abitudine, ogni volta che dopo questo pentimento gli accadeva di bestemmiare, si dava un pizzicotto nel braccio o baciava in terra a sconto del peccato. Ma, nonostante, seguitava a bestemmiare. Così ogni volta che abbia a fare contro il comando che mi hai dato, di non sparlare, e contro la buona intenzione che ho di non sparlare, mi morderò la punta della lingua sì da sentirne dolore e mi richiami a mente la colpa per non ricaderci.




SCIPIONE. È un espediente cotesto che, se l’userai, mi aspetto che tante volte ti debba mordere che avrai a rimaner senza lingua: così, ecco, non ti sarà più possibile mormorare.

 

BERGANZA. Ma almeno io ci avrò messo da parte mia ogni impegno: il cielo supplisca poi dove manco. Dico dunque che i figli del mio padrone un giorno lasciarono una borsa della scuola nel cortile dove io in quel mentre mi trovavo. E come avevo imparato a portare la sportina del beccaio così feci del vademecum e tenni loro dietro con l’intenzione di non lasciarlo andare finché non fossi nella scuola. Tutto andò secondo il mio desiderio: i miei padroni, cioè, che mi videro venire col vademecum tenuto stretto in bocca accortamente per le cinghie ordinarono ad un paggio di levarmelo, ma io non lo permisi e non lo lasciai andare finché non entrai nell’aula: cosa che fece ridere tutti gli scolari. Allora mi accostai all’aio dei miei padroni, molto garbatamente, io credo, glielo posi in mano e mi accoccolai alla porta dell’aula guardando fisso il maestro che leggeva sulla cattedra. Non so che cosa abbia in sé il valore, perché, quantunque me ne sia toccato poco o punto, subito sentii piacere a vedere l’amorevolezza, il contegno, la premura e l’impegno con cui quei padri e maestri benedetti insegnavano a quei fanciulli, dirizzando il tenero arbusto della loro giovinezza, perché non piegasse né s’avesse a viziare per la via della virtù, che indicano loro insieme col sapere. Notavo come li riprendevano dolcemente, li punivano con indulgenza, li animavano con esempi, li stimolavano con premi, e li sopportassero con discrezione; come, infine, dipingevano loro la bruttezza e l’orridezza dei vizi e descrivevano la bellezza della virtù perché, con l’abborrire quelli e con l’amare queste, raggiungessero il fine per cui erano stati creati.




SCIPIONE. Dici benissimo, Berganza, poiché di questi padri benedetti ho sentito dire che come uomini capaci per le mondane faccende della vita pubblica non ce n’è in tutto il mondo di così savi, e come guide e scorte nella via del cielo pochi se gli avvicinano. Sono specchi dove si vede riflessa l’onestà, la purezza della dottrina cattolica, la singolare prudenza e infine la profonda umiltà, base su cui si è elevato tutto l’edificio della felicità.

 

BERGANZA. Proprio così, tutto. Continuando ora il mio racconto, ti so dire che i miei padroni ebbero piacere che io portassi sempre il vademecum; il che io feci molto volentieri, dovendo a questo se io conducevo una vita da re e anche meglio; perché era una vita riposata, avendo preso gli scolari a scherzare con me ed essermi io familiarizzato con loro talmente che mi mettevano la mano in bocca e i più piccini mi montavano addosso: gettavano in aria berrettini o cappelli e io glieli riconsegnavo pulitamente e con segni di grande soddisfazione. Presero a darmi da mangiare quanto potevano darmi, e godevano a vedere che quando mi davano noci o nocciole io le spaccavo come fa la bertuccia, lasciando i gusci e mangiando il gheriglio. Ci fu uno che per mettere alla prova la mia capacità mi portò in un fazzoletto una buona quantità d’insalata, e io la mangiai come un uomo.




D’inverno quando in Siviglia consumano panini di fiore e schiacciatine col burro, me ne regalavano tanti che si impegnarono e vendettero ben più di due calepini per farmi far colazione. Insomma io vivevo da studente, ma senza la fame e senza la rogna, che è quanto più si possa dire per significare che era buona vita; perché, se la rogna e la fame non fossero tanto tutt’una cosa con gli scolari, fra le tante condizioni di vita non ce ne sarebbe un’altra di maggior godimento e spasso, ché in essa la virtù e il piacere vanno di pari passo, e la giovinezza trascorre nell’imparare e nel divertirsi.

 

Da questa beatitudine e da questa pace mi venne a sbalzare una gran dama chiamata, mi pare, da queste parti Ragion di stato, ragione che a contentarla bisogna scontentare molte altre ragioni. Vale a dire, a quei signori maestri sembrò che quella mezz’ora, fra una lezione e l’altra, gli scolari la occupassero non nel ripassare le lezioni, ma a divertirsi con me; perciò comandarono ai miei padroni di non portarmi più alla scuola. Ubbidienti, essi mi fecero tornare a casa, a far la guardia, come prima, alla porta; e senza più rammentarsi il mio vecchio signore della grazia concessami, di poter andare sciolto di giorno e di notte, ritornai a rimettere il collo alla catena e il corpo su una piccola stoia che mi stesero dietro la porta.

 

Ah! amico Scipione, com’è duro sopportare il passaggio da una condizione di felicità a una d’infelicità!




Vedi: quando le miserie e le disgrazie sono una gonfia fiumana ininterrotta, o finiscono presto con la morte, oppure, continuate, ci si fa l’abitudine e ci si avvezza a sopportarle, il che suol alleggerire la maggiore loro asprezza; ma quando uscito, all’impensata e d’un tratto, da una condizione disgraziata e sventurata per goderne un’altra prospera, fortunata e di gioia, poi di lì a poco ritorni a soffrire la sorte di prima e gli affanni e le disdette di prima, è un dolore così acerbo che se non fa morire è per dare maggior tormento facendoti vivere.

 

In una parola, tornai alla mia razione da cane e agli ossi che mi gettava una mora della casa e che due gatti romani mi riducevano, perché, sciolti e svelti come sono, era facile per essi portarmi via quel che non cadeva dentro il termine dove arrivava la mia catena. Caro Scipione, il cielo ti conceda il bene che desideri, ma, senza che tu t’inquieti, lasciami ora filosofare un po’, perché se tralasciassi di dire le cose che in questo momento mi son venute alla mente fra quelle che allora mi accaddero, mi parrebbe che il mio racconto non sarebbe completo né utile punto.




SCIPIONE. Bada, Berganza, che non sia tentazione del demonio questa voglia che dici esserti venuta di filosofare. La maldicenza infatti non ha miglior velo per palliare e ricoprire la sua sfrenata malignità che darsi a credere chi mormora che tutto quanto dice son sentenze di filosofi e che il dir male è un rimproverare, che lo scoprire i difetti degli altri è giusto zelo, mentre nessun maldicente, se ne consideri e ne scruti la vita, troverai che non sia pieno di vizi e presunzione. E ora, premesso questo, filosofa quanto ti pare.

 

BERGANZA. Puoi star sicuro, Scipione, che non mormoro più; ne ho fatto proponimento. Or bene, siccome me ne stavo tutto il giorno in ozio, e l’ozio genera le riflessioni, ecco ripassarmi per la mente certi detti latini che mi erano rimasti impressi fra i tanti che avevo sentito quando andavo con i miei padroni a scuola: detti latini con i quali, a mio credere, mi ritrovai un po’ meglio d’intelligenza, sì che decisi, quasi sapessi parlare, di giovarmene nelle occasioni che mi si dessero in modo però diverso da come certi ignoranti sogliono giovarsene. Ci son di quelli che, parlando in volgare spagnolo, buttan là nel discorso, di tanto in tanto, qualche motto latino breve e concettoso, dando ad intendere a chi non lo sa il latino, di essere solenni latinisti; e sì e no che sanno declinare un nome e coniugare un verbo.




SCIPIONE. Meno male, secondo me, questo che non quello di coloro i quali sanno veramente di latino, tra cui ce n’è alcuni di così malaccorti che, parlando con un calzolaio o con un sarto, fanno spreco di latino come se fosse acqua.

 

BERGANZA. Possiamo dedurre da questo che tanto sbaglia chi dice motti latini davanti a chi non li capisce, quanto chi li dice senza capirli.

 

SCIPIONE. E devi notare anche un’altra cosa; cioè, ci sono certuni che il saper di latino non toglie che siano asini.

 

BERGANZA. E chi ne dubita? È chiaro; quando infatti al tempo dei romani parlavano tutti latino, per essere il latino la propria lingua materna, ben ci sarà stato fra loro qualche tanghero che, con tutto il suo parlar latino, non lasciava di essere imbecille.

 

SCIPIONE. Per saper tacere in volgare e parlare in latino, ci vuol giudizio, caro Berganza.




BERGANZA. Così è: si può dire infatti una sciocchezza così in latino come in volgare. E io ho visto sapientoni babbei e grammatici pesanti e parlanti in volgare, lardellare il discorso di fette di latino da seccare con tutta facilità la gente, non una, ma cento volte.

 

SCIPIONE. Lasciamo questo e comincia a dire le tue osservazioni filosofiche.

 

BERGANZA. Le ho dette già; son quelle che ho finito ora di dire.

 

 

(Arripit ut lapidem catulus

 

morsuque fatigat,

 

Nec percussori mutua damna facit.

 

Sic plaerique sinunt veros elabier hosteis,

 

quos nulla gravat noxia, dente petunt)







 

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