CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

venerdì 10 maggio 2024

A PASSO DI LUPO (circa l'umana menzogna)

 









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con la Bestia







Un gran numero di espressioni idiomatiche quasi proverbiali mettono in scena il Lupo, ovvero ululare come lupi, per poi gridare al lupo, una fame da lupo, e sbranati dai lupi; queste locuzioni sono idiomatiche, non tutte sono traducibili da una lingua all’altra, o da una cultura all’altra, o addirittura da un territorio, ovvero da una geografia all’altra. Non dappertutto ci sono i lupi e non si ha la stessa esperienza del lupo in Alaska o sulle Alpi, nel Medioevo o oggi.

 

Queste espressioni idiomatiche e queste figure del lupo, queste interpretazioni, queste favole o questi fantasmi, variano da un luogo e da un momento storico all’altro; le figure del lupo incontrano dunque, e ci pongono spinosi problemi di confine. I lupi reali oltrepassano, senza chiedere l’autorizzazione, le frontiere nazionali e istituzionali degli uomini, e dei loro stati nazionali sovrani; i lupi in natura, come si dice, i lupi reali sono gli stessi al di qua e al di là dei Pirenei o delle Alpi; ma le figure del lupo appartengono a culture, nazioni, lingue, fantasmi, favole, storie.



Se ho scelto l’espressione che cita il ‘passo’ del lupo in à pas de loup o a passo di lupo, è certamente perché non v’è dubbio il lupo stesso vi è nominato in absentia, per così dire; il lupo è nominato dove ancora non lo si vede né lo sente arrivare; è ancora assente, salvo per il suo nome.

 

Accenniamo ad una sommaria descrizione, nella differenza posta fra ciò non visto e di cui l’indubbia fama, e ciò cui assiso nel trono della menzogna sovrana…




Posai i miei pensieri su questa terrazza con una incantevole vista.

 

Posai le mie mani sulla fioriera che la bella cameriera annaffia ogni mattina, mostrandomi le sue alte cime come due frutti succosi ed un nobile di dietro… come fosse la sella di un puledro. Lei lo sa, io sono uomo colto e potente… la politica è il mio mestiere.

 

Lei lo sa, ho molte conoscenze; lei, invece, solo la fame da saziare, quella ingorda, abbonda in ogni stagione ed in ogni mese nella sua verde e prospera natura.

 

Lei solo la fame deve saziare quella ingorda della nostra natura, conosce ogni astuzia nel bosco della vita assieme all’arte di ingannare la gente, conosce il frutto proibito di sedurre una contadina, illusa nel sogno di far un po’ di fortuna per una fame che spesso tortura.

 

Io sono l’astuto uomo di corte, politico di natura.




Qual natura io qui non dico perché in lei io prego l’antico crocefisso, ricordo di un lontano antenato quando a lui il chiodo fu dato per macellarla come un agnello nel nome di un popolo ‘eletto’.

 

Or non ci dilunghiamo su questo mito strano, perché io con la parola mi vesto e quando l’adopero ogni essere seduco e incanto; c’è chi rimane stupito della mia cultura e chi estasiato della statura, anche se non ha compreso un fico del mio discorso greco e latino… perché il popolo è eterno contadino, ma di fronte a me fanno tutti l’inchino ed ognuno rimane stupito dell’arguto e saccente nonché dotto… mio sapere.

 

Favello in latino greco… e aramaico antico…, e quando si presenta l’occasione nella sala dell’albergo che domina la vallata mi trattengo con l’inglese arguto e il tedesco risoluto.

 

Certo, non si vede, ma sono diplomatico di mestiere.

 

Ogni affare è diletto perché servo del mio ricco signore e per sempre mio padrone, certo finché un nuovo intrigo non costringono il suo o il mio castigo.

 

Dopo la pace sarà celebrata, un’alleanza stipulata, un nuovo matrimonio coronerà la speranza del popolo che partecipa alla comune mensa… nel ruolo che meglio alberga il suo destino, donato non certo da noi… ma dal nostro comune Dio.




Parteciperà al nostro umile banchetto, noi alla tavola, lui nella cantina a misurare la distanza cui bisogna tenere il volgo, e a condire ogni portata con il miglior vino perché il sangue del suo martirio è il nostro piatto preferito.

 

Siamo uomini di corte e di regno (nonché arguto ingegno) e di astuto tradimento, l’intrigo è l’arte antica del politico, la religione detta le umili ore, il tempo  governa il nostro paradiso…

 

Giochiamo con la parola, perché quando vien detta, nessuno, nemmeno il dotto interlocutore del ricco e ben condito discorso, la intende nella giusta sua natura, forse perché inganniamo proprio quella. Per noi è solo un inutile contorno, fra un piatto di cacciagione ed un buon dolce; è una piacevole vista talvolta annebbiata fin dal primo mattino, colpa del buon vino.




La incorniciamo in tanti ricchi quadri commissionati e pagati dagli stessi viandanti, compaiono a frotte o in umili vesti, mentre ornano la pecunia del nostro mondo antico foderato tutto nel lusso del nobile palazzo antico; numerato come vuole e comanda la sorte sopra ogni portone, abbiamo composto anche il motto segreto araldo di ogni fiero discorso; cosicché il gregge che prega e lavora abbia timore del nostro buon nome, vi abbiamo inciso anche un crocefisso per ricordare a tutti il martirio antico, nella cappella dove ogni mattino preghiamo il nostro buon Dio.




Quando stringo le mani accompagnate al mio sorriso rivolto agli ospiti esultanti, a loro può sembrare un invito: un sole caldo in un cielo limpido che promette ricchezza e fortuna, chi la mano stringe con ugual cortesia e stesso inchino, mai di certo potrà leggere il vero pensiero dell’uomo di Dio, pregato come dicevo… ogni mattino.

 

Mai potrà capire quale arguzia e inganno si cela nel bosco di tal natura, quale finezza accompagnano il saporito piatto della  politica nominata diplomazia.

 

Il diletto dell’arte mia mi vien mangiando ogni delizia che la serva mi porge mostrandomi il suo frutto proibito fra un inchino ed un buon bicchiere di vino, io disdegno e la spio con l’astuzia del mio fiuto: uccel di bosco alla vista di ogni commensale per questa fiera cavalcata… di ogni ricca e saporita portata.

 

Ad ognuna l’ho violentata e goduto, e aperto il suo nobile di dietro come al pollo che mi offre saporito cotto allo spiedo di un antico martirio, se prova qualche incertezza nominata trascuratezza nel non averlo ben condito, vi poso il burro del mio candido sorriso, e affondo il verbo del mio segreto piacere.




Finito il servizio provo pena per quella serva, l’ospite mio invece, intimorito dal dotto discorso, ha gradito la risoluta fermezza nel cacciare ogni servo al compito destinato da Dio, venerato e pregato ogni mattino assieme alla madre sua, nominata Madonna, nella cappella che orna la ricca dimora rifugio da ogni peccato… per questo immondo e lurido Creato….

 

Sono uomo di Dio, banchiere della sua Divina Parola, nonché custode del Sacro Regno.

 

Quando inganno la natura lo faccio con il sorriso, quando preparo una guerra lo faccio con un bicchiere di vino, lo divoro con l’agnello, sono io il lupo nel folto del bosco.




Lo perseguitiamo per insegnare al popolo chi è il Diavolo o il lupo suo amico in codesto reame, e con loro anche l’uomo che forse l’ha nutrito, Diavolo o Bandito, qui tutto l’esercito schiero per debellare il male. Tutto il popolo rassicuro quando osservo il panorama da questa grande loggia; la povera serva lo sa, per questo si aggrazia ogni mattina per non essere da meno della giumenta cui godo il latte della vita. Affinché ogni mia voglia desiderio e credo, si possano deliziare e soddisfare così come Dio intende  volere e piacere accompagnati all’istinto appagato, nel nome del peccato da me e per sempre perseguitato. 

(G. Lazzari, Lo Straniero)




Anticipiamo la maschera della menzogna, della falsità nell’inganno perenne della Storia…

 

La traduzione corrente del sottotitolo, ē peri tou pseudous, con Sulla menzogna non è certo né una menzogna né un errore, ma è già una scelta riduttiva e quindi falsificatrice.

 

Pseudos non vuole soltanto dire menzogna. Inoltre, questo straordinario dialogo complica abbastanza la questione dei rapporti tra la menzogna e i suoi doppi, i suoi analoghi, i traditori che essa potrebbe accogliere nelle sue pieghe, per lo meno virtualmente, ovvero tutto ciò di cui mi appresto a parlare in questa sede, incluso ciò che dirò in riferimento alla storia politica più recente.




Distinguendo egli stesso almeno tre fra i diversi sensi della parola pseudos (come cosa, ôs pragma pseudos, come enunciazione, logos, che dice ciò che non è, e come uomo, anthropos, che ama e sceglie simili enunciazioni – ed è sia il mentitore sia la menzogna), Aristotele aveva già contestato, nella Metafisica molte tesi dell’Ippia minore, fra cui quella secondo cui il mentitore (pseudés) è colui che ha la facoltà di mentire. Aristotele precisa, ed è essenziale per ciò che qui ci interessa, che il mentitore non è solo chi può mentire, ma chi preferisce mentire ed, essendone incline, lo fa per scelta, intenzionalmente (o eukheres kai proairetikos). Per questo, altra obiezione a Platone, è peggiore del mentitore involontario, sempre che quest’ultimo esista.




In un seminario tenuto a Marburgo nel 1923/24 e recentemente pubblicato, Heidegger consacra alcune pagine a questa sorta di pseudografia aristotelica sotto il titolo di La determinazione aristotelica del logos. Come spunto teorico, faccio notare che se il tema della menzogna in quanto tale non ha occupato in seguito un posto determinante, ad esempio nell’analitica del Dasein di Essere e tempo – e questo per delle ragioni che sarebbe interessante e necessario analizzare – nel 1923-24, senz’altro già al di là di una semplice antropologia, di una teoria dell’ego o della coscienza, di una psicologia o di una morale, Heidegger dice del Dasein che esso ‘porta in sé le possibilità dell’inganno e della menzogna’. E prima aveva già scritto: ‘Il Dasein della parola, del parlare (das Dasein des Sprechens) porta in sé la possibilità dell’inganno’.

 

È anche vero che Nietzsche sembra sospettare il platonismo o il Cristianesimo, il kantismo e il positivismo di avere mentito tentando di farci credere a un mondo vero. Resta il fatto che se ci atteniamo, come è giusto fare per cominciare, a ciò che il linguaggio corrente così come la filosofia vogliono dire, se ci fidiamo di questo voler-dire, mentire non vuole dire in generale ingannarsi né commettere errore.




Ci si può ingannare, si può essere in errore senza mentire. Si può comunicare agli altri un’informazione falsa senza mentire. Se credo a ciò che dico, anche se è falso, anche se mi sbaglio, e se non cerco di approfittare dell’altro comunicandogli tale errore, allora non mento. Non si mente dicendo semplicemente il falso, quantomeno fintanto che si crede in buona fede alla verità di ciò che si pensa o di cui si ha opinione. Perché è della questione della fede e della buona fede che ci dobbiamo occupare.

 

Sant’Agostino lo ricorda all’inizio del suo De mendacio. E propone anche una distinzione fra la credenza e l’opinione che per noi potrebbe essere ancora oggi (e oggi in maniera nuova) di grande portata.

 

Mentire, è voler ingannare l’altro, talvolta anche dicendo il vero. Si può dire il falso senza mentire, ma si può anche dire il vero in vista dell’inganno, vale a dire mentendo.

 

Ma non si mente se si crede a ciò che si dice, se vi si aggiunge fede, anche se è falso. Dichiarando che ‘chiunque enuncia un fatto che gli sembra degno di credenza o che la sua opinione ritiene vero, non mente, anche se il fatto è falso’, sant’Agostino sembra escludere il mentire a se stessi o, l’ingannarsi come mentire a se stessi.




È un quesito che non ci abbandonerà più e del quale, più avanti, dovremo misurare la portata politica: è possibile mentire a se stessi?

 

E ogni autoinganno, ogni astuzia verso se stessi merita il nome di menzogna?

 

Più semplicemente: come interpretare l’espressione se tromper, ingannarsi, il cui idioma è così ricco e così equivoco in francese?

 

Come un mentire a se stessi o come un errore?

 

Si fa fatica a credere che la menzogna abbia una storia.

 

Chi oserebbe raccontare la storia della menzogna?




E chi potrebbe promettere che sia una storia vera?

 

Anche supponendo, concesso non dato, che la menzogna abbia una storia, si dovrebbe pure poterla raccontare senza mentire. E senza cedere con eccessiva facilità a uno schema convenzionale e dialettico che faccia concorrere la storia dell’errore, come storia e lavoro del negativo, al processo della verità, alla verificazione della verità in vista del sapere assoluto.

 

Se c’è una storia della menzogna, vale a dire della falsa testimonianza e dello spergiuro (perché ogni menzogna è uno spergiuro), e se questa storia investe una qualche radicalità del male chiamato menzogna o spergiuro, essa non può lasciarsi inglobare in una storia dell’errore o della verità in senso extramorale.

 

D’altra parte, se la menzogna presuppone, come sembra, l’invenzione deliberata di una finzione, ogni finzione o ogni favola non rimanda per questo a una menzogna. Nemme no in letteratura.




Nella Quarta passeggiata delle Fantasticherie del passeggiatore solitario, altra grande pseudologia, altro abissale trattato della menzogna e della finzione su cui dovremmo meditare con infinita pazienza, Rousseau propone tutta una tassonomia delle menzogne (l’impostura, la frode, la calunnia, che resta la peggiore).

 

Rousseau ricorda che una menzogna che non nuoce né a sé né agli altri, una menzogna innocente non merita il nome di menzogna: è, dice Rousseau, una finzione. Una finzione di questo tipo non sarebbe tanto una menzogna, secondo lui, quanto la dissimulazione di una verità che non si è obbligati a dire.

 

Questa dissimulazione, che comporta una simulazione, pone altri problemi a Rousseau. Se al posto di contentarsi di non dire, di tacere una verità che non deve dire, qualcuno dice anche il contrario, in quel caso mente, o non mente?, si chiede Rousseau prima di rispondere:

 

‘Secondo la definizione non si potrebbe dire che mente; se infatti dà una moneta falsa a un uomo a cui non deve niente, indubbiamente inganna quell’uomo ma non lo deruba’.




Il che vuol dire che la definizione che lo esenterebbe dalla menzogna non è buona. Se inganna, anche se non ruba, direbbe Kant, egli mente perché la veracità è sempre dovuta, per lui, a partire dal momento in cui ci si rivolge agli altri.

 

Ci ritorneremo fra poco, ma adesso occorre dilungarci su questa associazione fiduciaria, per così dire, della menzogna e della moneta, addirittura della moneta falsa.

 

Non parlo soltanto di tutti i discorsi sulla moneta falsa che sono ipso facto dei discorsi sulla menzogna, ma della moneta falsa che appare spesso per definire la menzogna. Questa associazione è significativa e costante, da Montaigne a Rousseau e persino a Freud, che la erotizza in modo pregnante in un piccolo testo del 1913 intitolato Due menzogne infantili (Zwei Kinderlügen): non a caso una delle sue pazienti si identifica con la figura di Giuda, che tradisce per denaro.




Dopo aver moltiplicato delle distinzioni tanto sottili quanto necessarie, dopo aver insistito sul fatto che, nella sua professione di veridicità, di rettitudine e di equità, aveva seguìto le direttive morali della propria coscienza piuttosto che le nozioni astratte del vero e del falso, Rousseau tuttavia non si ritiene soddisfatto.

 

Confessa ancora, riconosce che queste distinzioni concettuali dispiegano la loro sottigliezza teorica per dispensarlo da una menzogna più inconfessabile, come se il discorso teorico sulla menzogna fosse a sua volta una strategia menzognera, un’inconfessabile tecnica di discolpa, un’astuzia imperdonabile della ragione teorica per ingannare la ragione pratica, e far tacere il cuore:

 

‘Non sento tuttavia il mio cuore abbastanza soddisfatto di queste distinzioni per credermi del tutto irreprensibile’.




Ma quest’ultimo, questo penultimo rimorso non riguarda soltanto l’inestinguibile dovere di sincerità nei confronti degli altri, ha a che vedere anche con un dovere verso se stessi. Rousseau sembra anch’egli sensibile a questa possibilità di una menzogna verso se stessi, quella menzogna che oggi definisce sia il campo magnetico sia la linea di confine della nostra problematica.

 

Esiste una menzogna verso se stessi?

 

È possibile mentire a se stessi, ovvero al tempo stesso dire intenzionalmente a se stessi altro da ciò che si sa di pensare in verità – cosa che appare assurda e impraticabile – e farlo per nuocere a se stessi, per danneggiarsi agendo in tal modo a proprio discapito, cosa che implica un dovere verso di sé in quanto altro?

 

Rousseau non esclude tale follia perché quando si dice insoddisfatto, in cuor suo, di queste distinzioni, aggiunge pure:

 

‘Soppesando con tanta cura quel che dovevo agli altri, ho esaminato a sufficienza quel che dovevo a me stesso? Se è necessario essere giusti con gli altri, occorre essere veri con noi stessi, è un omaggio che l’uomo onesto deve rendere alla propria dignità’.




Rousseau va ancora oltre nel confessare l’imperdonabile. Non solo arriva a confessare tale o tal’altra menzogna, ovvero questa o quest’altra finzione inventata, dice, per sopperire alla sterilità della sua conversazione, ma si giudica dapprima imperdonabile in virtù del principio che egli stesso aveva scelto in partenza, principio a tal punto impraticabile che avrebbe dovuto escludere non solamente la menzogna, ma anche la favola e la finzione.

 

E questo ad ogni costo, perché quest’etica della veracità è sempre un’etica sacrale del sacrificio. Rousseau ne parla infatti secondo un codice della consacrazione, e utilizza un lessico sacrificale.

 

Si possono già qui immaginare mille storie fittizie della menzogna, mille discorsi inventati, consacrati al simulacro, alla favola, al mito e alla produzione di forme nuove riguardo alla menzogna e che non siano tuttavia storie menzognere, vale a dire, attenendosi al concetto classico e dominante di menzogna, storie non vere ma innocenti, inoffensive, simulacri indenni dallo spergiuro e dalla falsa testimonianza.

 

Perché non raccontare storie della menzogna che, pur non essendo vere, non facciano del male?

 

Delle storie favolose della menzogna che, non nuocendo a nessuno, potrebbero qua o là far piacere, o addirittura fare del bene a qualcuno?




Potreste chiedermi perché proprio qui, e con tanta insistenza, faccio appello a un concetto classico e dominante della menzogna. E perché, così facendo, oriento la riflessione tanto su ciò che classico e dominante può voler dire, quanto sul concetto, e sulle sue implicazioni, in particolare sul l’implicazione politica che ha oggi ciò che si continua a chiamare con il vecchio nome di menzogna.

 

Esiste, allo stato pratico o teorico, un concetto dominante della menzogna nella nostra cultura?

 

Perché richiamarne fin da ora i tratti?

 

Sono tutti aspetti che formalizzerò a modo mio, con la speranza che sia un modo vero, giusto e adeguato, perché non è una cosa tanto semplice, e se mi sbaglio, l’errore potrebbe essere una menzogna soltanto in virtù della doppia condizione che io l’abbia fatto espressamente, ovvero che dica intenzionalmente altro da ciò che penso di pensare, e soprattutto che quel che dico danneggi qualcuno in qualche modo, me stesso o un altro.




So che sarà difficile, oserei dire impossibile provare che l’ho fatto espressamente. Lo sottolineo solo per annunciare fin da ora un’ipotesi, cioè che, per delle ragioni strutturali, sarà sempre impossibile provare, in senso stretto, che qualcuno ha mentito anche se si può provare che non ha detto la verità.

 

Non si potrà mai provare nulla contro qualcuno che affermi: ‘Quel che ho detto non è vero, mi sono sbagliato, certo, ma non volevo ingannare, sono in buona fede’. O ancora, adducendo la differenza sempre possibile fra il detto, il dire e il voler-dire, gli effetti della lingua, della retorica, del contesto: ‘Ho detto questo, ma non è ciò che volevo dire, in buona fede, nella mia coscienza, non era questa la mia intenzione, c’è stato un malinteso’. Non si potrà mai provare nulla per rifiutare una simile affermazione, e bisogna trarne le conseguenze, che sono temibili e senza limiti.

 

Ecco quindi, così come ritengo sia opportuno formularla qui, una definizione della definizione tradizionale di menzogna.




Nella sua figura prevalente e riconosciuta da tutti, la menzogna non è un fatto né uno stato, è un atto intenzionale, un mentire. Non c’è la menzogna, c’è questo dire o questo voler-dire che si chiama il mentire. Non ci si dovrebbe chiedere: che cos’è una menzogna?

 

Ma, più che altro: ‘Cosa fa e, prima ancora, cosa vuole l’atto del mentire?’.

 

Mentendo ci si rivolge ad altri (poiché non si mente che all’altro, non si può mentire a se stessi, tranne nel caso in cui se stesso venga considerato un altro), destinando all’altro un enunciato o più di un enunciato, una serie di enunciati (constativi o performativi) dei quali il mentitore sa, in piena coscienza, una coscienza esplicita, tematica e attuale, che essi costituiscono delle affermazioni totalmente o parzialmente false.




Questo sapere, questa scienza e questa coscienza sono indispensabili all’atto del mentire, e la consapevolezza di questo sapere non deve riguardare solamente il contenuto di ciò che è detto ma il contenuto di ciò che è dovuto all’altro, così che il mentire appaia pienamente al mentitore come un tradimento, un torto, l’inadempimento di un debito o di un dovere.

 

Il mentitore deve sapere ciò che fa e ciò che intende fare mentendo, altrimenti non mente.

 

Bisogna insistere fin da adesso su questa pluralità e su questa complessità, se non addirittura su questa eterogeneità.

 

Questi atti intenzionali sono destinati all’altro, a un altro o ad altri, con lo scopo di ingannarli, di nuocere loro, di approfittare di loro, in primo luogo, con il solo scopo di far credere loro ciò che il mentitore sa che è falso.




 Questa dimensione del far-credere, della credenza, del credito, della fede è qui irriducibile anche se rimane oscura. La cattiva fede del mentitore, il suo tradimento di una fede giurata per lo meno in modo implicito, consiste nel sorprendere la buona fede del suo destinatario, facendogli credere ciò che gli viene detto, laddove questo far-credere nuoce agli altri, li danneggia o opera a loro danno, quando invece il mentitore, da parte sua, è tenuto, da un impegno, da un giuramento o da una promessa almeno implicita, a dover dire tutta la verità e solo la verità.

 

Ciò che conta qui, in prima e ultima istanza, è l’intenzione. Anche sant’Agostino lo sottolineava: non c’è menzogna, checché se ne dica, senza l’intenzione, il desiderio o la volontà esplicita di ingannare (fallendi cupiditas, voluntas fallendi).




Questa intenzione, che definisce la veracità o la menzogna nel l’ordine del dire, dell’atto di dire, resta indipendente dalla verità o dalla falsità del contenuto, di ciò che è detto. La menzogna si riferisce al dire, e al voler-dire, non al detto: ‘[…] non si mente enunciando un’asserzione falsa che si crede vera e […] si mente piuttosto enunciando un’asserzione vera che si crede falsa. È dall’intenzione (ex animi sui) che si deve giudicare la moralità degli atti’.

 

Questa definizione appare al tempo stesso chiara e distinta, evidente, se non addirittura piatta – e tuttavia sovradeterminata all’infinito.

 

È un labirinto in cui è possibile sbagliare strada ad ogni passo.

 

Nella nostra analisi avremo bisogno di ognuno di questi elementi. Ci verrà richiesto, anche se non potremo soddisfare questa esigenza per delle ragioni evidenti, di occuparci direttamente dell’essenza della volontà, dell’intenzionalità, della coscienza intenzionale e della presenza a se stessi. La questione della menzogna dovrebbe fare da filo conduttore privilegiato per una riflessione sull’essenza e sulla storia dell’intenzionalità, della volontà, della coscienza, della presenza a se stessi, di ogni fenomenologia, ecc. Sia ben inteso: lasceremo questo argomento da parte. E questo non solo per via dei limiti di tempo di cui disponiamo.

 (Derridda)








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