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venerdì 3 maggio 2024

INTERMEZZO ALLE FARFALLE, ovvero, I TRUFFATORI ALLA BERLINA

 









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Se è vero che Jesse James ha inventato la rapina in banca, è altrettanto vero che Jules Joseph Bonnot lo ha superato abbondantemente inventando la rapina con l’automobile. Certo, ai tempi di James queste ultime non esistevano e Bonnot è stato certamente più fortunato di lui ad averle a disposizione. Tuttavia l’idea geniale di Jules era destinata a cambiare le carte in tavola in fatto di rapine.

 

Tra il 1911 e il 1912, poco prima dello scoppio della Grande Guerra, in piena Belle Époque francese, quando il mondo sembrava stesse prendendo la via della modernità verso una società più civile, con più diritti e meno guerre, con più bellezza e meno miseria (almeno nelle intenzioni), la cosiddetta Banda delle automobili, o Banda Bonnot, imperversò terrorizzando i ricchi e i potenti. Per sfortuna, alle idee nobili ma romanticamente illegali si affiancarono violente uccisioni, che mandarono al diavolo ogni filosofia e ogni sogno di giustizia sociale che si annidava dietro le loro azioni.




Jules non nacque anarchico e nemmeno rapinatore. Come Alexandre Marius Jacob, Jules subì una lenta evoluzione e furono piuttosto le ingiustizie sociali, almeno all’inizio, a spingerlo a commettere i suoi crimini. Ma, mentre Jacob non uccise mai nessuno, Bonnot non usò mezze misure; lui e i suoi uomini commisero diversi omicidi senza troppe remore.

 

Jules Bonnot, unanimemente considerato il leader e ispiratore della banda, nacque a Pont-de-Roide, sul confine franco-svizzero, nel 1876. Fu sfortunato sin dall’inizio, perché sua madre morì quando aveva solo cinque anni e suo padre, un operaio violento e analfabeta, fu costretto a farsi carico dei figli e a tirarlo su tra mille difficoltà. Scrisse Bernard Thomas nel suo La Banda Bonnot:

 

Non che avesse sofferto molto per la disgrazia, troppo giovane per capire. Ma otto giorni dopo, quando il padre gli aveva dato il primo ceffone per averlo sorpreso a mangiare una lumaca, per la prima volta nessuna gonna lo aveva consolato.




Suo fratello Justin si era limitato a sghignazzare […]

 

Ed era andata avanti così.

 

Tutta un’infanzia priva di ogni tenerezza dà un bisogno di carezze che quarant’anni di vita non bastano a soddisfare. Era cresciuto tutto solo. Aveva dovuto fabbricarsi una corazza contro gli scapaccioni del vecchio Bonnot, che a dire il vero non era un cattivo tipo ma per il suo mestiere di operaio fonditore era poco portato a impietosirsi sui dolori del rampollo. Jules non era uno sciocco, questo era il guaio. Avrebbe potuto far bene, se solo l’avesse voluto. Ma dato che nessuno attorno a lui aveva la pazienza di stimolare la sua intelligenza, su buttò all’avventura.

 

All’epoca, per i figli delle famiglie povere le porte del cinico mondo del lavoro si aprivano molto presto. Così per sbarcare il lunario di famiglia, il quattordicenne Jules iniziò a fare l’operaio presso la fabbrica Peugeot. Ma se c’era una cosa che il ragazzino mal sopportava erano i soprusi e la prepotenza dei datori di lavoro. Spesso, infatti, il giovane Bonnot si trovava a battibeccare con loro e puntualmente quelli lo licenziavano in tronco.

 



In una situazione simile e con quel bel caratterino era inevitabile che finisse a trafficare illegalmente ed era altresì inevitabile che la legge lo castigasse. Tra le tante cose, subì una condanna per pesca di frodo. A diciassette anni, la mantellina azzurra era diventata per lui il simbolo di un ordine sociale ingiusto. A diciassette anni, nel 1893 […] il gendarme era diventato il Nemico Numero Uno di Bonnot.

 

Poi, un bel giorno, la sua rabbia esplose nei confronti della persona sbagliata e fu la classica goccia che fece traboccare il vaso. Si buscò una condanna a tre mesi di carcere per averle suonate di brutto a un poliziotto e al suo ritorno, il padre disperato gli fece trovare le valigie sulla soglia e lo invitò a togliersi dai piedi.

 

È facile immaginarlo sul bordo di una strada in preda alla disperazione, ma ben consapevole di esserselo meritato, meditò sulla successiva mossa da compiere, soprattutto perché gli urgeva trovarsi un tetto sulla testa e qualcosa da mettere sotto i denti. Ed ecco l’idea geniale di tutti i poveracci come lui: arruolarsi nell’esercito!




L’alternativa al vagabondaggio, in effetti, si rivelò azzeccata. Bonnot venne assegnato a un reparto che possedeva alcuni veicoli, i primi motorizzati, come manutentore. Jules non aveva mai fatto una cosa simile prima di allora, ma si appassionò alla sua mansione e divenne un esperto conducente e un ottimo meccanico, e poi prese anche la patente di guida. ‘E proprio l’auto, insieme alla violenza messa in campo dalla Banda Bonnot, diverrà una componente fondamentale della sua epopea’.

 

Tra una pausa e l’altra, Jules imparò a maneggiare le armi e a sparare con ottimi risultati. I suoi superiori non potevano certo immaginare di stare addestrando un futuro fuorilegge.

 

Finita la vita del soldato, se ne stette tranquillo per un po’, dedicandosi all’amore e sposando Sophie-Louise Burdet, con la quale generò due figli. Fu assunto come lavoratore presso il deposito ferroviario alla frontiera franco-svizzera e poi come operaio a Ginevra. Nel frattempo, però, Jules covava le sue passioni sotto la cenere. Si era, infatti, avvicinato ai circoli anarchici trasformandosi in un fervente attivista che rompeva le uova nel paniere ai datori di lavoro, organizzando uno sciopero qua e una manifestazione di là, sempre per protestare contro le ingiustizie e gli abusi che questi perpetravano sui poveri sottoposti. Per questi motivi fu iscritto nella lista nera che i capi si passavano e divenne sempre più difficile per lui riuscire a trovare lavoro.




La sfortuna ci mise ancora una volta lo zampino e la svolta criminale iniziò a fare capolino nella vita. Sua figlia Emilie, una meravigliosa bimbetta di pochi giorni, restituì la vita al Signore per svolazzare come un dolce angioletto nell’alto dei cieli e Jules, come chiunque altro al suo posto, si chiuse in sé stesso. Come se non bastasse, le sue attività “sovversive” per i diritti dei lavoratori furono prese di mira dalle autorità svizzere, che gli fecero capire quanto poco fosse gradito nel Paese. Messo su un treno, il nostro fu rispedito a casa sua in Francia senza troppi complimenti.

 

Una volta a Lione tutto sembrò prendere la piega giusta.

 

La sua passione per le macchine lo porterà a entrare anche nel mercato delle slot-machine, le prime che venivano importate dall’America, che distribuiva ai locali garantendone la manutenzione. Ma a trasmettergli la più intensa emozione è l’incontro con l’auto che ‘d’un colpo staccava le rivali di qualche decennio’. Fu il giorno in cui un eccentrico milionario ginevrino arrestò la sua Mercedes 60 HP di fronte all’officina, paralizzando Jules dallo stupore. Bianca, con lo chassis rosso fuoco e i due sedili in pelle nera, un cuore da ottantamilaseicento centimetri cubici, la Mercedes vibrava con un brontolio, che si trasformò in un ruggito poderoso quando Jules alzò la levetta sul carburatore, ritraendo di scatto la testa dal cofano spalancato.




Come si evince dalle parole di Andrea Accorsi sopra citate, Bonnot lavorava in un’autofficina, sua moglie si dava da fare per tirar su il secondo figlio appena nato, Justin-Louis, e tutto girava come doveva girare, fin quando non accadde una nuova tragedia a sconvolgere la quiete familiare. Nel 1903, il fratello di Jules prese la decisione drastica di impiccarsi per il due di picche ricevuto da una donna. Questo lutto sconvolse profondamente il nostro causandogli un dispiacere immenso e una pena inconsolabile in fondo al cuore. Per un uomo ci sono poche cose insopportabili nella vita, la perdita di un figlio, quella di un congiunto (guardate che fine fece Theo Van Gogh dopo la morte del fratello Vincent) e il tradimento della propria consorte. Due su tre Bonnot le aveva già subite ed era sul punto di cedere.

 

Jules però non volle farsi mancare proprio nulla in quanto a sfiga. Un bel giorno iniziò a prendersi a male parole col capo di turno, si fece prendere la mano dalla concitazione della lite, acchiappò una spranga di metallo e la fece roteare sul cranio di quel disgraziato. Così disse addio a Lione.

 

Per evitare di dover rendere conto della sua azione sciagurata, Jules fuggì con moglie e figlio a Saint-Étienne grazie anche alla benevolenza di un sindacalista che se li tenne dentro casa. E non solo, quell’uomo di buon cuore si spese persino per far assumere Sophie come segretaria che per ripagarlo gli concesse le sue grazie.




In realtà:

 

Sophie non ne poteva più. Le idee di Jules erano molto belle: la solidarietà, la libertà individuale, la rivoluzione. Ma l’affitto da pagare, il credito rifiutato dal droghiere, la mancanza di latte per il bambino, l’ospedale quando Jules si ammalò di polmoni, erano una realtà. Non la riguardava che la Società funzionasse male: Jules doveva solo comportarsi da capo famiglia cosciente e organizzato e conquistarsi un posticino da qualche parte invece di costringerli, come ora, ad andare a mendicare l’ospitalità di Besson, il segretario del sindacato.

 

Dal momento che Jules era un buono a nulla, Sophie decise di sottrargli il figlio e di volatilizzarsi per sempre assieme al sindacalista di professione, che aveva uno stipendio sicuro, tornandosene quatta quatta in Svizzera.

 

In un attimo il povero Bonnot aveva perso tutto. Sua moglie se l’era filata con l’amante e si era portata via anche il figlio. Inutili furono le struggenti lettere inviatele per farla rinsavire. Basta, lei aveva chiuso per sempre con lui. Provato fin nel midollo, all’ennesimo licenziamento, Jules diede di matto.

 

Depresso, stanco e amareggiato, il giovane anarchico diresse tutte le sue energie rimanenti a raccattare uomini per la sua crociata personale. Liberté, illégalité, fraternité sarebbe stato un ottimo slogan, peccato che Jules non ci abbia pensato perché il concetto della sua impresa è tutto lì dentro. Vivere in modo illegale per protestare politicamente e combattere contro i potenti avidi e arroganti per liberare dalla loro schiavitù tutti i fratelli sofferenti.




La prima tappa nel fantastico mondo del crimine organizzato, Jules la raggiunse assieme, nemmeno a dirlo, a un italiano, un tipo di nome Giuseppe Platano, col quale stampava falsa carta moneta. Ma la cosa non lo soddisfaceva granché. Perché allora non imparare ad aprire le casseforti e far sparire il denaro vero anziché farsi il mazzo per far apparire quello fasullo?

 

Come in tutto ciò che andava ad aggiungersi al suo curriculum di abilità criminali, Bonnot eccelse anche nell’arte dello scassinamento. Ma nemmeno questo gli procurò i clamori e i guadagni necessari per tenere in piedi la sua idea di rivoluzione anarchica.

 

Nonostante non si trattasse ancora di imprese memorabili, le sue mosse non rimasero a lungo nascoste nell’ombra, la polizia iniziò a subodorare il suo coinvolgimento nei furti che avvenivano sovente, soprattutto quando a essere sottratte erano le rarissime auto che gironzolavano tra Francia e Svizzera.




E fu per evitare di essere arrestato che il nostro mise piede nella fumosa Londra di inizio secolo dove si riciclò come chauffeur, ovvero come conducente di professione, uno dei primi. Si divertiva a portare la macchina, vestito di tutto punto come gli autisti dei ricchi che si vedono nei film in costume tipo Downton Abbey. Per diverso tempo si è creduto che Jules avesse scarrozzato anche il mitico scrittore scozzese Arthur Conan Doyle, il genio che diede i natali a Sherlock Holmes, il detective più famoso della storia della letteratura, ma in realtà Bonnot lavorò per l’assistente di Doyle, Ashton Wolfe, a Lione e non a Londra.

 

Comunque sia, dopo l’esperienza inglese e il solito licenziamento, Jules se ne tornò in Francia con il rammarico di non essersi potuto portare dietro anche la bella auto che guidava, una Lanchester Landaulette, un’auto bellissima ancora molto simile a una carrozza ma di un’eleganza sconcertante e per l’epoca potentissima. Una vera chicca per ricchi.

 

Si stabilì a Parigi, più grande, caotica e sicura per lui, e mise subito in piedi i suoi intrallazzi. Un giorno l’italiano Giuseppe Platano, che gli faceva da luogotenente, con cui Bonnot aveva messo a segno alcune rapine “britanniche”, riuscì a uccidersi inspiegabilmente con un colpo di pistola mentre effettuava la manutenzione di un’arma dentro un’auto in corsa. Una routine che il tipo conosceva bene e che fece sorgere più di qualche sospetto su Bonnot.

 

Forse, si ipotizzò, era stato Jules a uccidere l’uomo per non avere compagni che potessero mettere in dubbio la sua leadership. Come scrive Bernard Thomas: ‘Jules era sempre più irritato dal suo secondo, divenuto il capro espiatorio di tutti i suoi fastidi: la pioggia, il freddo, la fatica’.




Si tratta tuttavia di supposizioni e nulla di più anche se, in effetti, negli ultimi tempi il loro rapporto era piuttosto teso a causa delle notevoli divergenze scaturite dalla visione politica, ormai disillusa, di Platano. A ogni modo, come e perché Platano sia morto resta un enigma ancora oggi.

 

Sistemato l’amico dentro una cassa di mogano, Jules si dedicò a far proseliti in giro per i circoli anarchici della bella Parigi e diversi ragazzi esasperati da una società ingiusta e crudele decisero di unirsi alla sua personale crociata.

 

Il 21 dicembre 1911 è una di quelle date che la storia dovrebbe sempre ricordare, perché quelle feste natalizie, per qualche ricco signore, furono paradossalmente più povere. Inoltre, è proprio quello il giorno in cui i futuri gangster americani impararono una lezione importantissima: non basta saper rubare, ci vogliono anche i mezzi giusti. E questo Jules Bonnot e i suoi accoliti lo sapevano così bene che decisero di inventarsi la rapina in automobile. Del resto: ‘L’automobile, in particolare, rappresenta una novità recente e ancora poco diffusa. I futuristi ne fanno, insieme con l’aereo, il simbolo dei progressi delle scienze che spalancano all’uomo orizzonti fino ad allora impensabili’.




Tanto per cominciare, muoversi su uno di quei mezzi era certamente più comodo, permetteva loro di andare e venire con una certa rapidità, seminando i poliziotti a cavallo e in bicicletta e dava ai giornali proprio quello che gli anarchici volevano: un motivo per sbattere il loro disprezzo per i padroni in prima pagina. E davvero quel giorno cambiò la storia per sempre, perché fu una svolta, criminosa certo, che avrebbe caratterizzato il futuro della rapina a mano armata. Da quel momento ogni malvivente che si rispettasse doveva avere un’auto col motore acceso parcheggiata fuori dalla banca per darsela a gambe in tutta fretta.

 

Vi era a Parigi una succursale della Société Générale de Banque che fu tenuta d’occhio dalla banda per il tempo necessario a comprendere che ogni mattina, puntuale come un orologio, un cassiere ritirava i soldi dalla sede centrale poco lontano, saliva su un tram per scendere a una fermata prestabilita dove lo attendeva una guardia. Poi entrava nella banca, infilava il denaro nella cassaforte e, come un maestro d’orchestra, dava il segnale per l’apertura degli sportelli. Era un meccanismo ben oliato ma sempre identico, tanto che Bonnot aveva rassicurato i suoi che alleggerire il povero impiegato e mettere fuori gioco la guardia sarebbe stato semplice come bere un bicchier d’acqua.




Quel 21 dicembre, verso le otto e trenta, nevischiava e un’auto rubata qualche giorno prima, forse una Delaunay-Belleville oppure una Rolls (a seconda delle fonti che raccontano questa storia), si fermò nei pressi della banca. In realtà, nel punto scelto dai rapinatori come parcheggio provvisorio, un macellaio si era fermato ad ammirare l’autovettura e questo aveva costretto Jules a spostarsi più avanti. Raymond Callemin scese dall’auto per fare da vedetta, mentre gli altri si riscaldavano al suo interno.

 

A un certo punto Raymond diede il segnale alla banda: il portavalori stava arrivando ed era giunto il momento di agire. Scese anche un tizio di nome Octave Garnier mentre guardia e impiegato procedevano sul marciapiede senza sospettare nulla. Il cassiere, Ernest Caby, era vestito di tutto punto con le insegne della banca e il tipico berretto, mentre la sua guardia del corpo, Peemans, era certamente più anonima. A un certo momento i banditi passarono all’azione ostruendo loro il passaggio. Caby ebbe poco tempo per comprendere la situazione perché Octave aveva già sfilato dalla tasca la sua browning e aveva esploso due colpi, uno al collo e uno al torace del poveraccio, quasi preparandolo per il camposanto. Peemans era invece riuscito a fuggire strillando come un ossesso.




Il resto di questa grande impresa storica fu piuttosto banale. Per recuperare le borse con i soldi, i due eroici rapinatori furono costretti a prendere a calci il povero cassiere, gravemente ferito mentre cercava di difendere il malloppo; poi, come i pistoleri del Far West, avevano esploso dei colpi per allontanare i passanti. Una volta fatti salire a bordo dell’auto Raymond e Octave, Jules diede gas e sfrecciò verso il loro nascondiglio, svicolando tra la folla di curiosi che si era radunata in strada.

 

Di quel giorno Thomas, nel suo libro La Banda Bonnot, annota: ‘La polizia aveva brillato per la sua assenza’. Un rapporto del commissariato del XVIII distretto preciserà più tardi: ‘Huguet, piantone all’incrocio delle rues Dandrémont, Montcalme e Vauvenargues, sostiene di non aver visto né udito niente. Ha lasciato il suo puto di sorveglianza verso le 8:55 per andare al gabinetto…’.

 

Da un punto di vista odierno, la rapina fu orchestrata orribilmente, ne scaturì un inutile spargimento di sangue e un misero bottino di 5.000 franchi (di cui una parte in titoli poi venduti a un usuraio); eppure i banditi avevano ottenuto esattamente quel che desideravano: denaro contante per finanziare il circolo anarchico e le proprie attività criminali e l’attenzione della stampa. Avevano dato poi il segnale forte di essere gente pronta a tutto. Fu proprio grazie ai giornali che si cominciò a parlare della Banda Bonnot, quando Jules, preso dall’eccitazione, concesse un’intervista al Petit Parisien.




In poco tempo la banda si specializzò sempre più, persino le armi utilizzate durante le varie rapine erano di ultima generazione. E fu questa superiorità tecnologica a rendere i banditi praticamente imprendibili. I loro fucili a ripetizione surclassarono le rivoltelle in dotazione alla polizia e anche le loro armi di maggior calibro.

 

Il ricavato delle imprese di quella che fu detta prima “Banda dell’automobile” e poi “Banda Bonnot” non era mai particolarmente sostanzioso, tuttavia bastava per tutti i componenti, compreso Jules. Egli prese a vestirsi in modo costoso e piuttosto ricercato tantoché i suoi compagni iniziarono a schernirlo chiamandolo il Borghese – in realtà una critica diretta al suo nuovo stile di vita. Eppure, Bonnot non faceva una piega, rimandando sempre al mittente tale polemica nei suoi confronti, giustificando il suo stile come una sorta di necessaria copertura, un costume col quale celava la sua reale identità e che gli era necessario per imbambolare i ricchi facendogli credere di essere uno di loro.

 

Il 31 gennaio del 1912 Édouard Carouy, Octave Garnier e Jules Bonnot si trovavano a Gand, in Belgio, per sfilare un’altra automobile al suo ricco proprietario. Più o meno nelle stesse ore, Victor Serge e Rirette Maîtrejean furono arrestati dalla polizia perché sospettati di avere qualcosa a che fare con la banda di Bonnot. Era la prima delle avvisaglie che avrebbero portato poco più avanti a un processo di massa.




All’incirca un mese dopo, Jules, Raymond e Octave erano intenti a rubare un’altra auto a Saint-Mandé, ma vennero interrotti da un poliziotto un po’ troppo zelante che aveva compreso le loro intenzioni e stava per arrestarli; neanche a dirlo, l’agente finì all’altro mondo. Portava lo stesso cognome di chi lo aveva freddato: era anche lui un Garnier.

 

Nonostante la facilità con cui i componenti della banda ammazzavano chiunque si frapponesse durante le rapine, alcuni degli omicidi a loro attribuiti furono in realtà compiuti da altri criminali; per esempio, l’uccisione di due anziani in una casa di Thias nel gennaio 1912. Come scrive Accorsi nel suo Bande Criminali: ‘Per la polizia il duplice omicidio è da attribuire a loro, gli anarchici, divenuti un capro espiatorio comodo per ogni delitto, ma anche lo spauracchio dei cittadini onesti dei benpensanti, istigati dalla stampa a additare quei sovversivi come la feccia della società, gentaglia da eliminare a ogni costo. E la polizia comincia a organizzarsi in questo senso’.




Il 25 marzo di quel 1912 il gruppo composto da René Valet, Étienne Monier, André Soudy, Jules Bonnot, Octave Garnier e Raymond Callemin sottrasse illegalmente un’altra auto, una De Dion-Bouton, sulla strada per Chantilly, un villaggio del Nord della Francia famoso per le sue porcellane e per aver dato il nome alla crema ideata dal cuoco François Vatel. Di dolce in questo furto non vi fu assolutamente nulla, perché si concluse con l’omicidio a sangue freddo di uno dei due passeggeri che aveva osato difendere ciò che era suo.

 

Con la stessa auto, poche ore più tardi, Bonnot e compagnia bella svaligiarono un’altra succursale della Société Générale a Parigi, portandosi a casa quasi 50.000 franchi, ma lasciando a terra morti stecchiti due dipendenti della banca. La sparatoria avvenne mentre Soudy se ne stava fuori dalla banca a puntare il suo fucile sugli sfortunati passanti.

 

Andò avanti così ancora per un po’, con un furto qui e una rapina di là, fin quando la polizia ne ebbe le scatole piene. Era arrivato il momento di reagire e chiudere quella faccenda imbarazzante.

 

La polizia iniziò a effettuare diversi arresti di anarchici, visti gli appelli del governo francese contro quella che ormai era vista come una tremenda piaga insurrezionalista e un’offesa a tutti gli onesti cittadini. I tempi stavano radicalmente cambiando, presto l’Europa sarebbe precipitata nell’incubo di una guerra mondiale con milioni di morti e certe questioni sociali non avevano più il consenso dell’opinione pubblica. Durante la campagna anti-anarchica, addirittura Marcel Proust che passeggiava per la campagna facendosi gli affari suoi fu fermato come un volgare criminale e guardato con malcelato sospetto.




I militanti dell’Idée Libre furono tutti arrestati, così Jules Bonnot, che ormai sentiva il fiato degli sbirri sul collo, si rifugiò in prima istanza presso Antoine Gauzy, che era un amico di Étienne Monier. La polizia fece irruzione armi alla mano e ne nacque la solita noiosa sparatoria di epoca moderna. A quanto pare nessuno sapeva con certezza che vi fosse nascosto anche il temibile capo della banda Bonnot, che ovviamente rispose al fuoco. Il vicedirettore della sûreté Louis Jouin non uscì vivo dallo scontro e la caccia all’uomo s’incattivì. Jules, ferito da un poliziotto, scappò dal tetto per infilarsi nel retro di una farmacia e curarsi alla buona, mentre la polizia rastrellava le strade. Dopodiché il nostro si trasferì di corsa dall’unico amico che poteva ancora ospitarlo, il meccanico Jean Dubois.

 

Il 27 aprile 1912, polizia, guardia repubblicana e un numero imprecisato di volontari si assieparono fuori dall’abitazione di Dubois per mettere la parola ‘fine’ alla latitanza del rapinatore in automobile. Il capo della polizia, assieme a sedici dei suoi ispettori, penetrò nel grande garage Nid Rouge, utilizzato dalla banda come deposito di auto rubate e che era stato affittato nel 1910 da Alfred Fromentin, conosciuto nell’ambiente anarchico come l’“anarchico milionario” o “milionario rosso”.




Il povero Jean Dubois, senza pensarci su, sparò quattro colpi di arma da fuoco, ma fu immediatamente trucidato dalle forze dell’ordine. Una curiosità: dalla sua autopsia si scoprì che a ucciderlo era stato il secondo proiettile, un grosso calibro che gli aveva tranciato l’aorta.

 

Gli agenti, nel giro di qualche minuto, si ritrovarono bersagliati da una gragnola di colpi esplosi dal balcone soprastante. Era Bonnot a sparare, nel tentativo di coprirsi la fuga. Jean, “stanato”, subiva ancora i postumi del suo ferimento febbricitante. Si era nascosto dietro un cartellone per ripararsi dalla risposta armata della polizia. Bonnot esplose circa cinquanta colpi, sparando a tutto ciò che si muoveva e ferendo anche uno degli ispettori.

 

A quel punto, Xavier Guichard, capo della sûreté, decise di attendere i rinforzi senza allentare la pressione sul bandito. Intervennero civili volontari in qualità di vigili del fuoco e forze dell’ordine di ogni tipologia. Addirittura tra curiosi e addetti ai lavori qualcuno stimò un numero non inferiore alle diecimila persone coinvolte a vario titolo.




Ma, numeri a parte, il finale fu comunque piuttosto tragico per Bonnot. Dal momento che tutta la polizia del mondo sembrava essere intervenuta contro un solo uomo, dai commissariati vicini e da quelli lontani, e che non la si riusciva a spuntare, fu presa la decisione di far saltare l’edificio-fortino. Fu portato un carretto stracolmo di dinamite all’ingresso del garage e fu fatto esplodere, ma senza successo. In seconda battuta, la detonazione fece il solletico al deposito che perse qualche pietra. Poi, finalmente, una nuova esplosione sventrò il garage e tutti i partecipanti all’azione, come degli animali impazziti, ruppero il cordone di sicurezza della polizia precipitandosi all’interno alla ricerca di Jean. Nell’edificio entrarono anche Xavier Guichard e un certo Felix Fontan, che rinvennero il corpo di Dubois. Saliti al primo piano videro Bonnot intento a sparare a caso come nel film Matrix ottantasette anni dopo.




A quel punto risposero al fuoco e Jules, colpito più di una volta dalla polizia, non ebbe scampo. In realtà, in tutto quel trambusto, il nostro trovò anche il tempo di scrivere una lettera poi raccolta tra le macerie. Una sorta di breve confessione ove scagionava alcuni individui, tra cui la sua amante, Judith Thollon, il signor Jean-Baptiste Thollon, Antoine Gauzy, Eugène Dieudonné. Dopo aver vergato le sue ultime parole, chiuse il suo delirio con un ‘Io muoio’ e tentò di suicidarsi sparandosi al petto. Morì qualche ora dopo, all’Hôtel-Dieu, il più antico ospedale di Parigi. Di tutta questa giostra esistono diverse fotografie e anche un filmato appositamente realizzato dalla polizia.




Il ...4 maggio di quello stesso anno, anche Octave Garnier e René Valet restarono uccisi in una sorta di assedio musicato da spari, bombe e violente esplosioni dinamitarde concertato da polizia ed esercito. Senza dubbio, anche la caccia ai criminali, come il crimine stesso, si era evoluta, dotandosi di mezzi più letali.

 

Nella tasca di Octave Garnier vengono trovate scritte queste parole:

 

‘Riflettiamo. Le nostre donne e i nostri bambini si stipano nelle soffitte, mentre migliaia di ville restano vuote. Noi costruiamo i palazzi e viviamo in casupole. Operaio, sviluppa la tua vita, la tua intelligenza e la tua forza. Tu sei un montone: gli agenti sono dei cani e i borghesi sono i pastori. Il nostro sangue paga il lusso dei ricchi. Il nostro nemico è il nostro padrone. Viva l’anarchia’.




Il processo istruito contro i componenti della banda fu una bagarre senza senso.

 

‘In breve, la polizia era al tempo stesso schernita e ridicolizzata. Contro il terribile Bonnot, aveva mandato a morte uomini armati solo di manganelli. Non si poteva essere più stupidi. Si compiangevano le vittime, ma si deridevano i metodi usati dalla centrale di polizia’.

 

Tutti quelli che erano stati arrestati per un motivo o per un altro furono accusati senza una logica di appartenere alla banda di Jules, ventuno persone furono portate alla sbarra e una pioggia di condanne investì anche chi non c’entrava assolutamente nulla. Il 28 febbraio 1914 ebbe fine quello scempio chiaramente ideologico, almeno secondo molti contemporanei, tra errori giudiziari, condanne immeritate e testimoni non sempre attendibili.




A quanto pare, durante il processo, alcuni degli imputati si rivolsero alla corte con fare sarcastico e canzonatorio, asserendo cose del tipo ‘Luigi XIV l’ho strangolato io’ come nel caso di Raymond Callemin, oppure estremamente grave, come Victor Serge, che scelse di difendersi da solo, sentenziando ‘la società fabbrica il crimine e i criminali, le idee disperate, i suicidi e il denaro-veleno’.

 

Ad avere la peggio furono ovviamente i condannati a morte; Raymond Callemin, Étienne Monier e André Soudy che persero la testa con la ghigliottina.

 

La stessa prospettiva della ghigliottina non pareva preoccuparli. Monnier faceva ginnastica molte volte al giorno, per mantenersi in forma, Soudy giocava a manille con i suoi secondini. Li faceva ridere raccontando loro la sua vita. Raymond, invece, preferiva discutere con le sue guardie di filosofia […] Avevano l’anima pura e spensierata delle persone che hanno compiuto il loro dovere fino alla fine e che moriranno tranquille, poiché non hanno niente da rimproverarsi.




Raymond lasciava ai posteri l’abbozzo di uno studio sul concetto di delitto:

 

‘E innanzitutto, che cos’è un delitto? Non si tratta di uno scherzo, ho potuto riflettervi in vero in modo abbastanza proficuo partendo dal mio caso personale. La conclusione definitiva a cui sono arrivato è questa: esso è l’attentato perpetrato contro la vita umana ma io credo fermamente in questo indispensabile corollario: perpetrato in certe condizioni. Ciò vuol dire che, talvolta, la soppressione delle vite umane è ricompensata con tutti gli onori, mentre, in altri casi, si copre l’individuo dell’esecrazione universale’.




Monier lasciò ai posteri un breve testamento scritto:

 

‘Io lascio in testamento alla Società il mio ardente desiderio che un giorno non lontano regni nelle istituzioni sociali il massimo benessere e il massimo di indipendenza, affinché l’individuo, nei suoi passatempi, possa meglio dedicarsi a ciò che fa bella la vita, all’istruzione e a tutto ciò che è scienza’.

 

Anche Soudy ebbe qualcosa da scrivere e lo fece allegramente. Visto che era già condannato a morte dalla tubercolosi, la prospettiva della ghigliottina non gli fece né caldo né freddo.

 

‘Dato che è mio dovere informare il popolo cosciente e organizzato dell’enumerazione particolareggiata delle mie ultime volontà:

 

1° - Io lascio in eredità al signor Etienne, ministro della Guerra, tutti i miei arnesi da scasso e le chiavi false, per aiutarlo ad aprire la porta del militarismo, grazie alla legge dei tre anni;

 

2°- I miei emisferi cerebrali al Preside della Facoltà di Medicina;

 

3°- Il mio cranio al Museo d’antropologia, e ne ordino l’esposizione a pagamento, a vantaggio dei pranzi popolari comunisti;

 

4° - I miei capelli al Sindacato dell’acconciatura e dei lavoratori coscienti e alcolizzati, capelli che verranno messi in vendita pubblicamente, e ciò a beneficio della causa e della solidarietà;

 

5°- Infine, lascio il mio autografo all’Anarchia, affinché i sacerdoti e gli apostoli della filosofia possano servirsene a profitto della loro cinica individualità.

 

Eugène Dieudonné che era stato inizialmente condannato alla pena capitale, poi commutata nei lavori forzati, finì in Guyana ma riuscì comunque a evadere per ben due volte. Fu graziato nel 1927 grazie all’interessamento del giornalista Albert Londres.

 

Altri accusati, come Édouard Carouy, Victor Serge, Judith Thollon o Rirette Maîtrejean, solo per fare alcuni nomi, se la “cavarono” chi col carcere a vita, chi con i lavori forzati, chi con qualche anno di detenzione.

(A. Moriconi)




 




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