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Prosegue con la
La pioggia
più intensa dell’anno cadde durante l’ultima settimana di agosto del 1888, allorché il sole, mediamente,
non riusciva a penetrare per più di un’ora al giorno attraverso la fitta
nebbia.
La
temperatura rimaneva più fredda della media stagionale e nelle abitazioni si
bruciava carbone, con la conseguenza che il fumo nero che si levava nell’aria
aveva finito per portare al peggiore inquinamento che la città avesse
conosciuto. All’epoca non si calcolava certamente il tasso di inquinamento e la
parola smog non era ancora stata coniata.
Ma il
problema creato dal carbone non era una novità.
Fin da
quando, nel diciassettesimo secolo, gli inglesi avevano smesso di bruciare
legna per riscaldarsi, si sapeva che il fumo prodotto dal carbone era nocivo
per la salute e per gli edifici, ma questo non aveva certo impedito alla gente
di continuare a servirsene. Nel diciottesimo secolo si calcolava che in città
ci fossero quarantamila case con trecentosessantamila camini. Alla fine del
diciannovesimo secolo, il consumo di carbone era aumentato, specialmente tra i
poveri. Il visitatore in arrivo sentiva l’odore di Londra molti chilometri
prima di vederla apparire.
Il cielo era grigio e nuvoloso, le strade erano coperte di fuliggine. La pietra calcarea e il ferro battuto delle case venivano consumati dalla pioggia acida. La fitta nebbia da inquinamento durava più ore del solito e diveniva progressivamente più densa, prendendo una sfumatura diversa da quella del passato. Corsi d’acqua che scorrevano fin dall’epoca dei romani divennero fogne a cielo aperto e si dovette interrali.
Un rapporto
sulla salute pubblica compilato nel 1889
diceva che, all’attuale velocità con cui aumentava l’inquinamento di Londra,
gli ingegneri sarebbero stati costretti a interrare il Tamigi, che col salire
della marea riportava in città gli escrementi di milioni di persone.
C’erano
ottime ragioni per vestirsi di scuro e in certe giornate l’aria piena di fumo e
puzzolente di zolfo era così infernale, il fetore di fogna così disgustoso, che
i londinesi camminavano con un fazzoletto davanti alla faccia, gli occhi e i
polmoni che bruciavano.
L’Esercito della salvezza riferì nel 1890 che su una popolazione della grande metropoli che ammontava approssimativamente a 5,6 milioni di persone le prostitute erano 30.000 e in prigione c’erano 32.000 individui, tra uomini, donne e adolescenti. L’anno precedente, 160.000 persone erano state condannate per ubriachezza, 2297 si erano tolte la vita e 2157 erano state trovate morte sulle strade, nei parchi e nei loro tuguri. Un po’ meno di un quinto della popolazione era senza casa o viveva nelle case di lavoro - ricoveri di mendicità in cui gli ospiti abili lavoravano -, nei manicomi, negli ospedali, o era tormentata dalla povertà e rischiava la morte per inedia.
Gran parte
di questo ‘mare infuriato’ di miseria, per citare il fondatore dell’Esercito
della salvezza, il generale William Booth, era concentrato nell’East End della
città, dove un astuto predatore come Jack lo Squartatore poteva facimente
assassinare le prostitute ubriache e senza dimora.
All’epoca in cui lo Squartatore terrorizzava l’East End, la popolazione del suo territorio di caccia era valutata in un milione di persone e questa cifra raddoppia se si includono i quartieri vicini dell’East London, che comprendevano i porti e le fatiscenti aree di Whitechapel, Spitalfields e Bethnal Green. L’area era chiusa a sud dal Tamigi, a ovest dalla City, a nord da Hackney e a est dal fiume Lea. La crescita di quella zona era stata molto veloce: la strada che partiva da Aldgate e, attraverso Whitechapel, arrivava a Mile End era una delle principali arterie della città e il terreno piano favoriva l’urbanizzazione.
Uno dei
punti saldi dell’East End era l’ospedale per i poveri, il London Hospital, che
sorge ancora su Whitechapel Road e adesso si chiama Royal London Hospital. La
prima volta che John Grieve di Scotland Yard mi portò a visitare quel che resta
dei luoghi dove lo Squartatore consumò i suoi delitti, ci demmo appuntamento al
Royal London Hospital, un cupo edificio vittoriano che non sembra essersi molto
modernizzato da allora. La natura deprimente del luogo è solo un pallido
residuo dell’aspetto tetro e doloroso che doveva avere alla fine del
diciannovesimo secolo, quando Joseph Carey Merrick - erroneamente chiamato John
Merrick dall’impresario che ne fu l’ultimo ‘proprietario’ - ottenne asilo in
due stanze sul retro, al primo piano dell’edificio.
Merrick - condannato a diventare famoso con il soprannome di ‘Elephant Man’, l’uomo elefante - venne salvato dai maltrattamenti e da morte sicura da Sir Frederick Treves, un medico gentile e coraggioso. Il dottor Treves lavorava al London Hospital nel novembre 1884, quando Merrick era schiavo dell’industria dei ‘fenomeni da baraccone’ e veniva esibito dall’altra parte della strada, dentro un negozio vuoto. Davanti al negozio c’era un grosso telone su cui era ritratta in formato naturale ‘una spaventosa creatura che potrebbe esistere solo in un incubo’, come la descrisse qualche anno più tardi il dottor Treves, quando era il medico personale di re Edoardo VII.
Con due pence si poteva assistere a quello spettacolo crudele. Bambini e adulti entravano nella stanza fredda e spoglia e si affollavano attorno a una tenda rossa appesa al soffitto. L’impresario tirava la tenda tra le esclamazioni di stupore e di paura di coloro che vedevano la figura ingobbita di Merrick che cercava di sottrarsi a quella folla, seduto su uno sgabello e vestito solo di un paio di calzoni troppo grandi, sporchi e lisi. Il dottor Treves insegnava anatomia e aveva visto pressoché ogni forma di deformità e di abiezione, ma non aveva mai incontrato - né aveva sentito l’odore - di una creatura così repellente.
Merrick era affetto dal morbo di von Recklinghausen, causato da mutazioni dei geni che attivano e bloccano la crescita cellulare. Le sue anomalie fisiche comprendevano deformazioni ossee talmente grottesche che la sua testa misurava quasi un metro di circonferenza; una massa ossea gli sporgeva dalla fronte, a forma di ‘pagnotta’, e gli occludeva un occhio. La mascella superiore sembrava una zanna, col labbro che si arricciava all’esterno e gli permetteva di parlare solo con grande difficoltà. ‘Masse di carne simili a un sacco, coperte da un’orribile pelle con escrescenze simili a un cavolfiore’ gli pendevano dalla schiena, dal braccio destro e da altre parti del corpo e la sua faccia era bloccata in una maschera inumana, incapace di espressione. Finché il dottor Treves non intervenne, si credeva che Merrick fosse ottuso e mentalmente ritardato. In realtà era un essere umano estremamente intelligente, ricco di immaginazione e di sensibilità.
Il dottor
Treves osservò che si sarebbe aspettato che Merrick fosse un individuo amaro e
pieno di odio per l’esistenza abominevole che gli era stato imposto di vivere.
Come poteva
essere gentile e sensibile se aveva conosciuto soltanto umiliazioni e
crudeltà?
Come si
poteva nascere più sfortunati di lui?
Come osservò il dottore, per Merrick sarebbe stato preferibile essere un individuo insensibile, inconsapevole del suo aspetto orrido.
In un mondo
che aveva il culto della bellezza, quale disgrazia poteva essere peggiore di
soffrire di una bruttezza così rivoltante?
Mi pare
indiscutibile che la deformità di Merrick fosse assai più tragica di quella di
Walter Sickert.
È possibile
che una volta anche Sickert abbia pagato il biglietto per dare un’occhiata a
Merrick dietro la tenda. Nel 1884
Sickert abitava a Londra e stava per sposarsi. Era apprendista presso Whistler,
il quale conosceva gli spettacoli da baraccone dell’East End, che avevano luogo
nei bassifondi di Shoreditch e di Petticoat Lane, e li avrebbe incisi in alcune
sue acqueforti del 1887. Sickert
andava dove andava il suo maestro. Vagabondavano insieme per la città e Sickert
si aggirava da solo nelle zone più squallide e più sordide. ‘L'uomo elefante’
era il tipo di esibizione crudele e degradante che Sickert avrebbe trovato
interessante e forse, per un attimo, il suo sguardo si era incrociato con
quello di Merrick. Sarebbe stata una scena piena di simbolismo, perché l’esterno
di ciascuno era lo specchio dell’interno dell’altro.
Nel 1888 sia Joseph Merrick sia Walter Sickert vivevano un’esistenza segreta nell’East End. Merrick era un lettore vorace ed estremamente curioso, e non sarebbero sfuggiti alla sua attenzione i terribili omicidi che venivano perpetrati al di là delle mura dell’ospedale dov’era rinchiuso. In quel periodo cominciò a circolare la voce che fosse proprio Merrick a uscire la notte, incappucciato e avvolto in un mantello, per uccidere le sventurate. Era Merrick il mostro che macellava le donne perché non volevano il suo amore. Non praticare sesso porterebbe qualunque uomo alla pazzia, soprattutto un animale come quel fenomeno da baraccone che osava avventurarsi nei giardini dell’ospedale solo dopo che era calato il buio. Per fortuna, nessuno si degnò di prendere in considerazione un’ipotesi così assurda.
Merrick
aveva la testa così pesante da riuscire a malapena a muoverla e se mai la testa
gli fosse caduta all'indietro, il suo collo si sarebbe spezzato. Non sapeva che
cosa volesse dire dormire in un letto e con la testa su un cuscino e nelle sue
fantasie si stendeva a dormire e pregava Dio di concedergli un giorno i baci e
le carezze di una donna, meglio se cieca. Al dottor Treves parve una tragica
beffa che gli organi di riproduzione di Merrick fossero il contrario di tutto
il resto di lui, perché purtroppo era perfettamente in grado di compiere quell’atto
sessuale che non avrebbe mai conosciuto. Dormiva seduto e non era in grado di
camminare senza un bastone.
Non si sa se la diceria priva di fondamento che Merrick fosse l’assassino di Whitechapel sia mai giunta fino alle sue stanzette tranquille, piene di fotografie delle celebrità, inclusi i membri della famiglia reale, che erano andate a trovarlo. Infatti, per quei buoni vittoriani, era una grande dimostrazione di benevolenza e di tolleranza visitare le persone come lui senza mostrare orrore.
E che
storia da raccontare agli amici, duchi e duchesse, lord e lady, o alla stessa
regina Vittoria. Sua maestà era affascinata dai misteri e dalle curiosità della
vita ed era stata incantata da Tom Thumb, il ‘generale Pollicino’, un nano
americano il cui vero nome era Charles Sherwood Stratton e che era alto
soltanto un metro. Era più facile entrare nel mondo protetto dei mutanti
innocui e divertenti, anziché attraversare il ‘pozzo profondo di vita marcia e
putrefatta’, come Beatrice Webb descrisse l’East End, dove gli affitti erano
esorbitanti perché l’affollamento dava tutti i vantaggi ai ‘signori degli slum’.
L’affitto portava via una parte notevole del salario di un lavoratore e quando uno di quegli avidi padroni di casa, alla Ebezener Scrooge decideva di alzarlo, una famiglia numerosa poteva trovarsi senza casa e con solo un carretto per portare via le poche masserizie. Ancora dieci anni più tardi, quando si recò sotto travestimento nell’East End per constatare di persona le condizioni che vi regnavano, Jack London riferì storie terribili di povertà e di sporcizia, come quella di una vecchia trovata morta in una stanza e così infestata di parassiti che il suo vestito era ‘grigio di insetti’. Era pelle e ossa, coperta di piaghe, e i capelli ‘incollati tra loro dalla sporcizia’ erano un ‘nido di vermi’, come scrisse London. Nell’East End qualunque tentativo di curare l’igiene personale era una ‘farsa scandalosa’ e quando pioveva cadeva più ‘untume che pioggia’ sulle vie.
Quella pioggia unta continuò a cadere a gocce e a scrosci sull’East End per la maggior parte di giovedì 30 agosto. Carri e furgoni trainati da cavalli si facevano largo in mezzo all’acqua fangosa e piena di rifiuti, nelle stradine affollate dove le mosche volavano a sciami e la gente frugava nelle immondizie per guadagnare un penny. La maggior parte degli abitanti di quella derelitta parte di Londra non aveva mai assaggiato il vero caffè, tè o cioccolato. La frutta o la carne non arrivavano mai alla loro bocca se non erano marce. Non c’era nulla di simile a una libreria o a una sala da tè. Non c’erano alberghi, almeno del tipo adatto a una persona civile. Una sventurata non poteva trovare rifugio e un boccone di cibo a meno che non riuscisse a convincere qualche uomo a ospitarla o a darle il denaro sufficiente ad affittare un letto in una dosshouse, un dormitorio pubblico.
Doss era un termine gergale per ‘letto’ e un tipico dormitorio pubblico era un edificio infernale e cadente dove uomini e donne pagavano quattro o cinque pence per dormire in camerate comuni, in cui erano stipati piccoli letti di ferro con coperte grigie. In teoria, le coperte erano lavate tutte le settimane. I ‘poveri assistiti temporaneamente’, come erano chiamati gli ospiti di questi dormitori, sedevano sul pavimento degli affollati stanzoni, fumavano o mendicavano, a volte parlavano e scherzavano se erano ancora ottimisti e pensavano che la vita potesse andare meglio, o ripetevano irosamente la storia delle loro disgrazie se le loro anime erano ormai consunte fino alla disperazione cieca. Nelle cucine, uomini e donne si radunavano per cuocere quello che avevano trovato o rubato durante il giorno. Di tanto in tanto vi entrava qualche ubriaco che tendeva la mano tremolante, cercando un avanzo o un osso che potesse aiutarlo ad affrontare le crudeli risate degli altri ospiti che si divertivano a vederlo mangiare come un animale. I bambini mendicavano e se si avvicinavano ai fuochi venivano picchiati.
In quei dormitori inumani si dovevano seguire regole severe e umilianti, fatte rispettare dal portiere o guardiano. La violazione delle regole era punita con l’allontanamento del reo, il quale così finiva sulla strada, dove le condizioni erano ancor peggiori. La mattina presto gli ospiti venivano allontanati a meno che non pagassero in anticipo per la notte seguente. Le dosshouses erano in genere proprietà di persone di classe più elevata, che abitavano lontano e non amministravano direttamente i dormitori e che forse non li avevano mai visti. Bastava un piccolo capitale per entrare in possesso di un dormitorio per poveri, senza sapere - forse per scelta - che il proprio investimento in ‘alloggiamenti modello’ non era altro che un luogo abominevole, controllato da ‘custodi’ che spesso impiegavano sistemi illegali e abusivi per mantenere l’ordine tra i loro ospiti disperati.
Molti di questi dormitori erano il rifugio di criminali, comprese quelle sventurate che, in una notte proficua, potevano avere qualche penny per pagarsi dove dormire. Oppure la sventurata riusciva a convincere un cliente a pagarle un letto, che era certo preferibile a fare sesso per strada, specialmente quando si era stanche, affamate e alticce. Un altro genere di clienti erano i ‘gentiluomini scesi a divertirsi nei bassifondi’, che per andare a caccia di emozioni forti lasciavano le loro case e le loro famiglie rispettabili per entrare nel mondo proibito dei pub, delle sale da musica in odore di malavita e del sesso anonimo per poche monete. Alcuni uomini delle zone eleganti della città non riuscivano più a fare a meno di quel segreto divertimento e uno di loro era Walter Sickert.
La sua immagine artistica più ricorrente era quella di un letto di ferro con una prostituta nuda e un uomo che si curva aggressivamente su di lei. A volte l’uomo e la donna sono seduti, ma l’uomo è sempre vestito. Sickert aveva l’abitudine di tenere un letto di ferro in ogni studio che usava all’epoca e su quei letti fece mettere in posa molte modelle. Di tanto in tanto metteva in posa sul letto anche se stesso mediante un manichino articolato che si diceva fosse appartenuto a uno dei suoi idoli artistici, William Hogarth.
Sickert
amava sconvolgere gli ospiti che invitava a prendere tè e pasticcini e una
volta, nel 1907, poco dopo l’uccisione
di una prostituta in Camden Town, gli invitati arrivarono nel suo studio male
illuminato, in quella stessa parte di Londra, e scoprirono il manichino sul
letto, in una posizione lasciva, insieme a Sickert, il quale continuò a fare
battute sul recente omicidio. Nessuno parve dare importanza a quel suo
comportamento né a qualsiasi altra sua bizzarria. Dopotutto, si trattava di
Sickert. Nessuno dei suoi contemporanei - né molti dei critici e degli accademici
che studiano oggi le sue opere - si è mai chiesto perché recitasse queste scene
violente e perché avesse un’ossessiva curiosità per i delitti che comparivano
nelle pagine della cronaca, compresi quelli di Jack lo Squartatore.
Sickert si trovava in una posizione favorevole e intoccabile, se voleva uccidere impunemente le prostitute. Apparteneva a una classe al di sopra di ogni sospetto ed era un genio nell’impersonare un gran numero di personaggi diversi. Doveva essere facile ed emozionante per lui travestirsi da abitante dell’East End o da gentiluomo in cerca di emozioni e frequentare voyeuristicamente i pub e i dormitori di Whitechapel e degli infernali quartieri circostanti. Era un artista capace di cambiare grafia e inviare lettere di sfida che mostrano tutte le caratteristiche di un disegnatore brillante. Ma nessuno notò la straordinaria particolarità di quei documenti finché la dottoressa Anna Gruetzner Robins e la curatrice Anne Kennett non esaminarono gli originali conservati presso gli archivi del Public Record Office nel giugno 2002.
Quello che nelle lettere dello Squartatore era sempre stato creduto sangue umano o animale risultò invece essere inchiostro seppia o tempera color terra di Siena, o forse una miscela dei due che assomiglia straordinariamente al sangue. Le strisciate, le gocce e le macchie di sangue sono state disegnate con il pennello o, in un caso, sono impronte lasciate da un guanto di filo, e parte delle lettere dello Squartatore sono scritte su costosa pergamena o su fogli con filigrane complesse. A quanto pare, la polizia non ha mai esaminato le tracce di pennello o il tipo di carta, quando ha indagato sui delitti dello Squartatore. A quanto pare nessuno ha mai prestato attenzione alla trentina di filigrane diverse che compaiono in quei messaggi, considerati falsi e attribuiti a qualche maniaco ignorante. Evidentemente nessuno si è mai chiesto come facesse quel maniaco a possedere penne da disegno, inchiostri colorati, matite litografiche e di china, acqueforti e pennelli e carta da pittore.
Se c’è una parte anatomica di Sickert che simboleggia tutto il suo essere non è il pene mutilato, ma sono i suoi occhi. Guardava. Guardare, spiare, seguire con gli occhi e con le gambe sono tratti dominanti degli assassini psicopatici, diversamente dai criminali non metodici che ascoltano gli impulsi o i messaggi che vengono dallo spazio o da Dio. Gli psicopatici osservano le altre persone. Guardano la pornografia, specialmente quella violenta. Sono voyeur molto allarmanti.
La
tecnologia moderna ha permesso a queste persone di vedere videoregistrazioni di
se stessi mentre torturano, violentano e uccidono le loro vittime. Rivivono
infinite volte i loro orrendi crimini e si masturbano. Per alcuni psicopatici,
il solo modo di raggiungere l’orgasmo consiste nel guardare, seguire,
fantasticare e nel rivedere il video del loro ultimo delitto. Ted Bundy, dice
Bill Hagmaier, uno specialista di profili psicologici dei criminali che ha
lavorato presso l’FBI, strangolava e violentava le sue vittime prendendole alle
spalle, e la sua eccitazione aumentava quando la lingua della donna usciva
dalla bocca e gli occhi le si gonfiavano. Arrivava all’orgasmo quan’do la
vittima moriva.
Poi sopraggiungono le fantasie in cui si rivive il delitto, la tensione per la violenza erotica diviene insopportabile, e l’assassino colpisce ancora. L’acme viene raggiunto davanti al cadavere ancora caldo della vittima. Il periodo di raffreddamento è il porto sicuro che permette di rivivere in tranquillità il crimine. Poi iniziano di nuovo le fantasie e la tensione torna ad accumularsi. L’assassino trova un’altra vittima e introduce un’altra scena nel suo copione per aggiungere nuove sfide e nuove eccitazioni: corde, torture, mutilazioni, smembramento, grottesche esibizioni di carneficina e cannibalismo.
Come mi ha
ricordato nel corso degli anni l’ex istruttore ed esperto di profili
psicologici dell’Accademia dell’FBI, Edward Sulzbach, ‘l’assassinio in sé è
solo un accessorio delle fantasie’. La prima volta che glielo sentii dire nel
1984 rimasi perplessa e non gli credetti. Nel mio modo ingenuo di pensare
credevo che la grande emozione venisse data dall’atto di uccidere. Avevo
lavorato nella cronaca nera del ‘Charlotte Observer’ in North Carolina e non mi
ero mai tirata indietro quando c’era da correre sulla scena di un crimine.
Tutto ruotava intorno a quell’evento terribile, pensavo allora. Senza il
delitto non c’era storia. Ora provo vergogna nel pensare a quanto fossi
ingenua. Credevo di capire il male, ma non lo capivo.
Pensavo di essere un’esperta indagatrice degli orrori, e non sapevo nulla. Non capivo che gli psicopatici seguono gli stessi comportamenti umani delle persone ‘normali’, ma lo psicopatico violento esce dai binari in modi che non comparirebbero mai nel sistema di navigazione morale di una persona normale. Molti di noi hanno fantasie erotiche che sono più eccitanti della loro realizzazione e a volte è più piacevole anticipare un avvenimento che viverlo. Lo stesso vale per gli psicopatici violenti quando immaginano i loro prossimi crimini.
Sulzbach
dice anche: ‘Non cercare gli unicorni prima di avere finito i cavalli’.
I crimini
violenti sono spesso banali, comuni, come i cavalli. Un innamorato geloso
uccide il rivale o il partner che l’ha tradito, una partita a carte degenera e
ci scappa il morto. Un piccolo delinquente cerca il denaro per la dose e
pugnala la vittima. Uno spacciatore viene ucciso a colpi di pistola perché ha
venduto merce cattiva. Ma Jack lo Squartatore non era un banale cavallo. Era un
unicorno. Verso il 1890 e negli anni
immediatamente seguenti, Sickert era troppo intelligente per dipingere quadri
di omicidi e per intrattenere gli amici ricreando la scena di un delitto
veramente accaduto quasi davanti alla sua porta.
Il comportamento che oggi desta i nostri sospetti non era certo evidente nel 1888, quando Sickert era giovane, riservato, e aveva paura di essere preso. Solo le sue lettere dello Squartatore ai giornali e alla polizia potevano costituire una prova, ma vennero accolte con indifferenza, e forse con qualche risata.
C’erano due
vizi che Sickert odiava, almeno a quanto diceva agli amici. Il primo era il
furto, il secondo l’alcolismo, che era un vizio della sua famiglia. Non c’è
motivo di pensare che Sickert abbia mai rubato né c’è motivo di sospettare che
bevesse, almeno non in modo esagerato, se non in età più avanzata. In ogni caso
si tenne sempre lontano dai narcotici, e non se ne servì neppure a scopi
medici. Indipendentemente dal suo comportamento anomalo e dalle sue turbe
emotive, Sickert era lucido e calcolatore. Nutriva una profonda curiosità per
tutto quello che attirava il suo occhio d’artista o che destava il suo
interesse per la violenza. Senza dubbio c’erano molti motivi di interesse per
lui la notte di giovedì 30 agosto 1888, quando un deposito di brandy nei
magazzini del porto prese fuoco verso le ventuno e illuminò l’intero East End.
La gente giunse da parecchi chilometri di distanza per guardare, da dietro le cancellate di ferro, una scena d’inferno che sfidava ogni quantità d’acqua che vi veniva rovesciata dai pompieri. Anche le sventurate accorsero sulla scena dell’incendio, sia per la curiosità sia per approfittare di quell’imprevista occasione per il commercio del sesso.
Nelle zone
più eleganti di Londra, la notte era accesa da altri divertimenti. Il famoso
attore Richard Mansfield faceva rabbrividire gli spettatori con la sua
brillante recitazione nei due ruoli del dottor Jekyll e di Mister Hyde al
Lyceum.
[ PATRICIA, MA SEI SICURA CHE E' SOLO LUI IL GUARDONE? O CE NE SONO MOLTI ALTRI PIU' PERICOLOSI (soprattutto oggi...) DEL PITTORE (ingiustamente) CALUNN....]
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