Precedenti capitoli:
ovvero, da qual bocca la verità
Prosegue con la (Seconda parte),
ovvero: LA FUGA
E invece è questa indubbiamente una delle grandi avventure del nostro Cavaliere; quella d’aver vagliato la biada e ripulito la greppia con l’unico scopo, a prima vista di ascoltare più presto una piacevole narrazione, ossia il racconto dei consiglieri raglianti.
Don Chisciotte si trovava dunque nell’osteria; e, quando ebbe udito i racconti dei consiglieri raglianti, arrivò mastro Pietro con la sua scimmia indovina e il teatrino con la liberazione di Melisendra.
Don Chisciotte, stupito nel vedere che mastro Pietro lo aveva riconosciuto dopo aver borbottato qualcosa con la sua scimmia, ritenne che si trattasse di un artificio demoniaco, ma andò ugualmente a vedere il teatrino e assistette alla rappresentazione della liberazione di Melisendra ad opera del suo sposo don Gaiferos.
Comparvero sulla scena Carlo Magno e Orlando, la reggia di Saragozza, uno stuolo di mori, Marsilio di Sansuegna, don Gaiferos… E quando quest’ultimo si portò via la sua sposa Melisendra e gli corse dietro uno squadrone di scintillanti cavalieri, Don Chisciotte balzò in piedi, si precipitò a soccorrere don Gaiferos dopo aver rivolto agli inseguitori un discorso in stile omerico...
...E cominciò a tempestare di colpi quella burattinaia moresca, abbattendo gli uni, scapezzando gli altri, storpiando questo, riducendo in pezzi quello, e assestò, fra molti altri, un bel fendente che, se mastro Pietro non si abbassava, non si raggomitolava e accovacciava, gli avrebbe troncato la testa con più facilità che se fosse stata di marzapane.
Ardito ed esemplarissimo combattimento!
Lezione proficua!
E non giovava a nulla che mastro Pietro avvertisse Don Chisciotte che coloro che abbatteva, scapezzava e storpiava non erano autentici mori, ma soltanto figurine di cartapesta, perché non per questo l’altro smetteva di menare botte.
E faceva bene, anzi benissimo.
I mastri Pietro montano i loro teatrini da fiera e pretendono che, essendo le loro figurine di cartapesta e dichiarate tali, siano rispettate. Ma ciò che il cavaliere errante deve abbattere, scapezzare e storpiare è ciò che, sotto il comodo pretesto della finzione, fa maggior danno dello stesso errore.
Perché è più degno di rispetto l’errore creduto che la verità nella quale non si ha fede.
Guardi, signore, di non fare il ridicolo mettendosi a perseguitare figurine di teatrino; siamo tutti gente navigata, e questo è un giochetto di compari che non inganna nessuno; guardi che qui si tratta solo di passare il tempo e di fare qualcosa, poiché né Carlo Magno è Carlo Magno, né Orlando è Orlando, né don Gaiferos è l’autentico don Gaiferos; e qui non si fanno imbrogli ma si diletta e si rallegra la galleria che, se anche finge di credere alla commedia, neanch’essa vi crede seriamente; ascolti noi, signore: non sciupi le sue energie nel combattere con pupi di cartapesta…
Ebbene, proprio perché le figurine sono di cartapesta e lo sappiamo tutti – rispondo io –, bisogna scapezzarle e storpiarle, poiché non c’è nulla di più pericoloso della menzogna accettata da tutti.
Conosciamo tutti il segreto, che è poi un segreto di Pulcinella; lo sappiamo tutti, e se lo andiamo dicendo l’un l’altro all’orecchio, che don Gaiferos non è il vero don Gaiferos e che è tutta una favola la liberazione di Melisendra; ma, se è così, perché dà fastidio ed irrita il fatto che uno si arrampichi sulla guglia della torre più alta del paese e si metta a gridare a gran voce di lassù, facendosi banditore della sincerità, ciò che tutti si sussurrano all’orecchio, abbattendo, scapezzando e storpiando così la menzogna?
Bisogna far piazza pulita, nel mondo di commedie e teatrini!
Ma accorre mastro Pietro arrabbiato ed esclama:
Badi, povero me! Che mi distrugge e manda in rovina tutta la mia ricchezza!
Che gli dobbiamo rispondere?
Guadagnati da vivere diversamente, Ginesio di Passamonte!
Morte alla farsa!
Bisogna smetterla con i teatrini di ogni genere, con le finzioni sanzionate. Don Chisciotte, prendendo sul serio la commedia, può apparire ridicolo soltanto a coloro che si burlano della serietà e fanno teatro della vita. E infine, perché mai non dovrebbe entrare anche lui nella commedia e farci entrare la decapitazione, la distruzione e la rovina dei commedianti di cartapesta?
È un po’ strano che si lamentino di chi prende sul serio la commedia proprio coloro che la rappresentano nel modo più serio di questo mondo e ripongono ogni cura nel far sì che venga meno alle regole dell’arte comica, sia pure in una virgola.
Giacché avrete osservato, miei buoni lettori, che non c’è nulla di più insopportabile di quest’esigenza che siano rigorosamente osservati i riti, l’etichetta e le consuetudini nelle cose di pura rappresentazione, e che si diano l’aria di maestri di cerimonia coloro che meno rispettano l’autentica serietà della vita.
Un tale saprà benissimo quando la cravatta si deve mettere nera e quando bianca, fino a che ora si porta la giubba a falde e da che ora in poi il frac e come si deve trattare l’interlocutore; ma la stessa persona non saprà dove andare a cercare il suo Dio, né quale sia il suo destino ultimo.
C’è una caterva di piccoli buffoni in libertà che portano incartapecorito sulla labbra un credo ereditato dai loro bisavoli come portano lo stemma di famiglia inciso sull’anello o sull’impugnatura del bastone, e rispettano le venerate tradizioni dei nostri avi come rispettano tante altre cose antiche: per far bella figura ed essere considerate persone distinte.
È chic e conferisce una certa eleganza quel modo di comportarsi che si definisce conservatore. E quello stesso stuolo di commedianti ha definito volgarità tutto ciò che è passione, slancio, impeto e cose di pessimo gusto le botte e i fendenti assestati alle baracche di burattini ed ai teatrini che hanno fatto. E quando questi pagliacci, sugheri secchi e vuoti, andranno dicendo e ripetendo la grossa scempiaggine che la cortesia non ostacola il valore, leviamoci e gridiamo forte sul muso e sulla barba, se l’hanno, che la cortesia impaccia il valore e che il vero valore chisciottesco può, suole e deve consistere spesso nel mettersi sotto i piedi ogni forma di cortesia e mostrarsi addirittura grossolano, se sarà necessario.
E questo soprattutto con i mastri Pietro che vivono dei loro teatrini.
Conoscete qualcosa di più tremendo di una messa detta da un prete ateo, che la celebra per guadagnarsi quattro soldi?
A morte ogni farsa, ogni finzione consacrata!
Passando da León, andai a vedere e a contemplare la sua bella cattedrale gotica, quella grande lanterna di pietra, nel cui seno canticchiano i canonici al dolce ritmo dell’organo. E, contemplando le sue colonne che sembrano fatte di giunco, gli alti finestroni delle vetrate dipinte, attraverso le quali la luce si sfilaccia e si dissolve in vari colori, e l’intreccio di nervature che sostiene la volta, mi capitò di pensare:
quanti silenziosi desideri, quanti taciti aneliti, quanti pensieri reconditi avrà accolto quest’edificio di pietre, insieme ad orazioni sussurrate e forse anche soltanto pensate, a invocazioni, a imprecazioni, a dichiarazioni d’amore mormorate all’orecchio dell’amata, a lamenti, a rimbrotti! Quanti segreti rivelati in quei confessionali.
E se tutti questi desideri, questi aneliti, questi pensieri, le orazioni, i sussurri, le invocazioni, le imprecazioni, i lamenti, i segreti, se tutte queste cose in coro incominciassero a cantare, mettendo da parte la consueta salmodia liturgica del coro canonico?
Nella cassa armonica di un liuto, tra le sue viscere, dormono tutte le note che le sono passate accanto, sfiorandola nel trascorrere volando, con le ali sonore; e se tutte quelle note, proprie ed altrui, che vi dormono, si destassero, la cassa del liuto scoppierebbe sotto la spinta di quella tempesta sonora.
E allo stesso modo, se si ridestasse tutto ciò che dorme nel seno della cattedrale, liuto di pietra, ed esplodesse in un immenso canto corale, la cattedrale stessa crollerebbe, vinta e sommersa dal grandioso clamore.
Le voci, liberate, cercherebbero il cielo.
La cattedrale di pietra crollerebbe, vinta e sommersa dalla violenza dello stesso sforzo del canto; ma dalle sue macerie che continuerebbero a cantare, risorgerebbe una cattedrale fatta di spirito, più aerea, più luminosa ed in pari tempo più solida; un’immensa chiesa che innalzerebbe al cielo colonne di sentimento che si ramificherebbero sotto la volta di Dio sciogliendosi dal loro peso morto per mezzo di contrafforti e di arcate fatte di Idee.
E questa non sarebbe una commedia liturgica.
Oh, chi potesse far cantare alle nostre cattedrali ogni preghiera, ogni parola, ogni pensiero ed ogni sentimento accolto nelle loro viscere! Chi potesse dar vita alle loro viscere che sono le viscere stesse dell’incantata grotta di Montesinos!
Ma torniamo al teatrino.
Un teatrino esiste nella capitale della mia patria che è anche quella di Don Chisciotte, nel quale si rappresenta la liberazione di Melisendra o la rigenerazione della Spagna o la rivoluzione venuta dall’alto; e vi si muovono, là nel Parlamento, le figurine di cartapesta obbedendo ai fili mossi dal mastro burattinaio. Ci sarebbe bisogno che vi entrasse un errante eretico (giacché se lo nominiamo cavaliere, il mastro burattinaio si ravviva arringando nell’inganno la folla intera per la messa in scena del teatrino ambulante con il compare da fiera), senza lasciarsi commuovere dalle alte grida, abbattesse, scapezzasse e storpiasse tutti coloro che vi si agitano, e distruggesse e mandasse in rovina la baracca del mastro burattinaio.
Per quanto, a guardar bene, è giusto che chi vive di menzogne, una volta che queste gli si siano frantumate, veda risarcito nei limiti del possibile il danno e impari a vivere di verità.
Giacché spesso si dice:
se togliete la farsa ai commedianti, che hanno imparato a vivere soltanto di essa, poi come vivranno?
Ed è anche vero, d’altra parte, che Dio non vuole la morte del peccatore, ma solo che si converta e viva; e deve vivere proprio perché si deve convertire, e affinché viva bisogna che si mantenga.
Oh, Don Chisciotte il Buono, con quanta magnanimità, dopo aver abbattuto, scapezzato e storpiato la menzogna, hai pagato quello che essa valeva dando quattro reali e mezzo per il re Marsilio di Saragozza, cinque reali e un soldo per Carlo Magno, e così via per tutti gli altri, fino alla somma di quarantadue reali e tre soldi!
Se non costasse di più fare a pezzi il teatrino parlamentare e anche l’altro!
(M. de Unamuno)
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